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Come le multinazionali aumentano le disuguaglianze

19 Gennaio 2024 13 min lettura

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Come le multinazionali aumentano le disuguaglianze

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Le disuguaglianze non sono una legge di natura, ma derivano da precise scelte politiche e dal rapporto sempre più fitto tra il potere politico e quello economico. Questo è uno dei punti cruciali affrontati dal rapporto Oxfam Disuguaglianza. Il potere a servizio di pochi, uscito nei giorni scorsi, che fornisce un quadro aggiornato di tutte le sfaccettature delle disuguaglianze. Dopo un’introduzione generale proprio su questo tema, il rapporto italiano approfondisce le politiche messe in atto dal governo Meloni in materia economica. 

Come il potere economico influenza quello politico

Secondo i dati riportati da Oxfam, nel mondo oltre 4,8 miliardi hanno visto il loro stile di vita messo a dura prova dalla fiammata inflazionistica di questi anni. I salari reali, cioè quelli misurati tenendo conto dell’inflazione, sono calati durante gli anni appena trascorsi. Sarà necessario monitorare se riusciranno a recuperare terreno ora che l’inflazione sembra aver allentato la morsa. D’altronde già in questi mesi abbiamo assistito, al di fuori dell’Italia, a scioperi importanti - si pensi al più coperto mediaticamente, quello degli sceneggiatori di Hollywood - per migliorare le condizioni materiali dei lavoratori. 

Allo stesso tempo, però, i miliardari hanno visto il valore dei propri patrimoni crescere, con un tasso di crescita tre volte superiore rispetto all’inflazione. Questa divergenza tra l’andamento delle condizioni delle persone più povere e quelle più agiate del mondo, secondo l’Oxfam, rischia di peggiorare: se la ricchezza dei cinque miliardari più ricchi continuasse a crescere allo stesso ritmo (ipotesi tuttavia non verificabile) in un decennio si comincerà a parlare di trilionari. Nel mentre, supponendo che il tasso di riduzione della povertà rimanga invariato, ci vorrebbero 230 anni affinché l’incidenza della povertà globale scenda sotto l’uno percento, utilizzando la soglia più alta della Banca Mondiale (6.85 dollari al giorno). 

Ma i miliardari non sono gli unici vincitori degli ultimi anni: anche le multinazionali hanno visto i loro profitti in netto aumento. A trainare questo fenomeno sono le compagnie petrolifere e del gas, i cui profitti sono aumentati del duecentosettantotto percento rispetto alla media del periodo 2018-2021. Nonostante non ci siano stime più accurate, è verosimile che questo aumento non dipenda da una miglior performance dovuta a investimenti in capitale umano o innovazione, ma agli shock che hanno colpito l’economia in questi anni, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina. 

Anche allungando il periodo preso in considerazione, emerge un forte sbilanciamento tra i lavoratori delle aziende, che hanno perso sempre più potere e sono sempre meno sindacalizzati, e la dirigenza. Secondo i dati, nelle 350 più grandi imprese statunitensi la retribuzione di un amministratore delegato è aumentata in media del 1200 per cento tra il 1978 e il 2022, superando il tasso di aumento dei salari. Si tratta di una dinamica che rischia di mettere in serio pericolo la democrazia, concentrando risorse economiche e di potere politico nelle mani di pochi. Un tema su cui anche i più grandi economisti a livello mondiale si interrogano, sollecitando i governi a prendere sul serio lo strapotere delle multinazionali e dei loro dirigenti. Infatti, nota Oxfam, l’aumento della ricchezza nelle mani di pochi e il maggior potere di monopolio, testimoniato anche da ex consiglieri economici del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, sono fenomeni strettamente connessi. In che modo?

Innanzitutto un maggior potere di monopolio. Le grandi aziende attuano una compressione dei salari rispetto al livello d’equilibrio, allocando invece le risorse provenienti dei profitti per aumentare i compensi della dirigenza. Spesso nel dibattito pubblico si dice che per alzare i salari è necessario aumentare la produttività, una misura dell’efficienza della produzione dell’azienda in base all’utilizzo di fattori come lavoro e capitale. Ma nel corso degli ultimi decenni, come testimonia un’analisi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) il gap tra salari e produttività ha raggiunto un massimo storico nel 2022, mentre già da decenni si assiste a una divergenza tra i salari e la produttività. Non solo: la produttività sta ormai da decenni seguendo un trend discendente. Questo ha svariate spiegazioni, ma tra queste c’è sicuramente la carenza di buoni lavori: lavori ben pagati, con prospettive di carriera e con un welfare state universalistico in grado di fornire assistenza.

Oggi invece si assiste a un’elevata incidenza di lavoro povero, di lavoratori che non guadagnano abbastanza per andare oltre la soglia di povertà. Sempre secondo le stime dell’ILO, prima della pandemia poco più di un quinto dei lavoratori su scala globale si trovava in questa situazione. La pandemia e l’inflazione hanno peggiorato il quadro. 

Nota però l’Oxfam che è necessario tenere conto dell'eterogeneità anche all’interno dei lavoratori: genere ed etnia impattano infatti sulla disuguaglianza e sulla povertà. I lavoratori immigrati sono spesso sfruttati, mentre le donne sono marcatamente più presenti in occupazioni a bassa retribuzioni. Una buona parte delle nostre economie - non a livello monetario, ma a livello di tempo e di relazioni - si basa infatti sul lavoro che, per via di norme sociali vetuste, viene attribuito alle donne. Pensiamo ai lavori domestici o a quelli di cura, che pur incidendo sul fisico e sulle prospettive di carriera non vengono retribuiti. La pandemia, come mostra uno studio, ha fatto emergere con chiarezza le asimmetrie tra generi su questi aspetti. 

Ma come avviene questa compressione salariale?  Da una parte c’è il tema del monopsonio, ovvero il monopolio sul lato della domanda, visto che nei modelli economici sono le imprese a domandare lavoro e i lavoratori a offrirlo, che fa sì che il salario non equivalga più al contributo che il lavoratore dà all’azienda. Dall’altra c’è l’influenza che il potere economico esercita sulla politica. 

Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a un aumento della precarietà che ha fatto in modo che la competizione tra imprese avvenisse non più sull’innovazione o sul capitale umano, proprio grazie a una legislazione compiacente. Anche in Italia ne abbiamo avuto esempio, con il Pacchetto Treu del centro-sinistra e la Riforma Maroni del centro-destra. Secondo uno studio recente, queste riforme non hanno avuto l’effetto di migliorare la situazione lavorativa, ma hanno in realtà frenato gli investimenti in capitale umano delle imprese. 

In secondo luogo, le multinazionali alimentano le disuguaglianze grazie a normative favorevoli sugli obblighi fiscali, elusione ed evasione fiscale. Un esempio è l’imposta sul reddito delle società, la corporate tax: i tagli effettuati nel corso degli anni nei paesi OECD, che hanno fatto passare l’aliquota media dal 23 per cento al 17 per cento, non hanno avuto effetti importanti sull’economia nel suo complesso. Nel mentre sono calata l’aliquota marginale più alta sui dividendi, passando dal 61 per cento del 1980 al 42 percento di oggi. 

Inoltre secondo le stime nel 2022 circa 1,000 miliardi di profitti di grandi multinazionali sono stati trasferiti in paradisi fiscali. Per compensare il mancato gettito, sottolinea Oxfam, i governi hanno fatto sempre più affidamento su imposte regressive, come l’IVA, che colpiscono i percettori più bassi. 

Che cosa vuol dire? Una persona abbiente destina una parte minore del suo reddito al consumo, avendo appunto un reddito elevato. Poiché l’IVA si applica indistintamente a tutti i consumatori, andrà quindi a incidere maggiormente su coloro che spendono di più, in proporzione al loro reddito, sul consumo, quindi le persone meno abbienti e del ceto medio. 

Questo mancato gettito poi ricade su tutta la società in quanto vengono a mancare le risorse per finanziare la scuola pubblica, la sanità, le infrastrutture. Anche in questo caso, vi sono delle differenze di genere: sono le donne a essere più colpite da queste pratiche. Secondo Oxfam, infatti, le donne sono le principali utenti dei servizi pubblici, e la forza lavoro femminile è prevalentemente occupata nel settore pubblico. Non nei posti dirigenziali, però, dove invece prevalgono ancora gli uomini. 

Su questo fronte vi sono però anche delle notizie positive. L’Oxfam ricorda infatti che nel 2021 più di 140 paesi hanno concordato una serie di misure tra cui la tassazione minima effettiva al 15 percento. Nonostante le problematiche dell’accordo iniziale, nel mese di novembre del 2023 la maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione per avviare i negoziati per migliorare la cooperazione fiscale internazionale: un’opportunità, scrive Oxfam, per stabilire regole fiscali globali più eque e condivise. 

Il terzo legame tra l’aumento delle disuguaglianze e l’emergere di monopoli passa attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici: acqua, servizi sanitari, istruzione. L’idea è che lo Stato non sia in grado di allocare efficientemente le risorse e debba quindi ricorrere al privato che, mosso dal profitto, garantirebbe invece un’erogazione del servizio più redditizia e puntuale. 

Nella realtà dei fatti questo dogma, molto in voga di questi tempi, è smentito dalla ricerca empirica. Uno dei maggiori esperti sul tema, lo studioso della Cranfield School of Management David Parker, ha indagato gli effetti delle privatizzazioni avvenute nel Regno Unito avvenute sotto la spinta della rivoluzione neoliberista di Margaret Thatcher. Nel suo studio mostra come lo slogan “più privato è, meglio è” sia, per l’appunto, uno slogan: non c’è una legge di natura che stabilisce che le aziende private abbiano performance migliori rispetto a quelle pubbliche. A venire a mancare, secondo Parker, è l’assunto secondo cui l’influenza del potere politico sarebbe minore nelle imprese private. 

Un caso ancora più emblematico è quanto succede con la sanità, dove la partecipazione dei privati non ha portato a particolari benefici. L’approccio privatistico alla sanità, sottolinea l’esperta di settore pubblico Rosie Collington, è indirizzato verso i profitti di breve periodo, ma sul lungo periodo tende invece a sottovalutare gli effetti della ricerca e depauperare le qualifiche del settore pubblico. Sotto questo aspetto, Collington sottolinea ad esempio quanto la ricerca informatica fosse, in un primo momento, monopolio dello Stato che ha contribuito a sviluppare tecnologie essenziali per lo sviluppo di strumenti necessari per il mondo di oggi. Ma questa ricerca ha altresì formato persone con determinate capacità e qualifiche all’interno del settore pubblico, che si sono poi andate perse quando il settore è stato affidato alle aziende private all’inizio del millennio. 

Un approccio privatistico tende poi a esacerbare disuguaglianze di tipo spaziale. Le aree interne rischiano infatti di finire in una spirale infinita: di per sé tagliate fuori per vari motivi, poiché non redditizie sono spesso abbandonate dai servizi essenziali. Pensiamo ancora una volta, anche se la questione è più complessa di quanto si pensi, alla chiusura dei piccoli ospedali delle aree interne. 

Infine ovviamente la crisi climatica. È ben noto che la crisi climatica dipende da attività in mano alle multinazionali, come quelle petrolifere, della carne, delle auto. Queste sfruttano spesso l’attività di lobbying e hanno condizionato negoziati e leggi per ottenere condizioni più favorevoli. Pensiamo ad esempio alla recente discussione sullo stop all'immatricolazione di auto a motore a combustione avvenuta in Europa.

Non solo: anche gli investimenti in attività a basse emissioni di carbonio da parte di queste imprese rappresentano meno dell’uno percento delle spese in conto capitale dell’industria petrolifera e del gas. Ma la crisi climatica non sarà di certo pagata dalle persone più ricche. Come mostrano i dati, sono proprio i miliardari a essere i più responsabili per le emissioni di gas serra.  

Invece la classe media e i più poveri sono le parti della società più colpite dagli eventi climatici estremi, come avevamo già scritto.

Il contesto nazionale: per Meloni le disuguaglianze non sono un problema

La seconda sezione del rapporto è invece dedicata al nostro paese, con particolare attenzione ai riflessi che le azioni del governo Meloni avranno sulle disuguaglianze e sulla povertà. Il quadro che emerge riguardo la concentrazione di ricchezza è quasi stazionario rispetto a quello dell’anno scorso, per quel che riguarda la concentrazione della ricchezza. Il valore dei patrimoni miliardari è cresciuto in termini reali del 46 percento rispetto all’inizio della pandemia. 

Nel mentre, però, è cresciuta la povertà assoluta: nel 2022 il fenomeno interessava 5,6 milioni di individui. L’incidenza della povertà a livello familiare è passata in un anno dal 7,7 per cento all’8,3 per cento, mentre quella individuale dal 9,1 per cento al 9,7 per cento. Questo aumento è dovuto in larga parte alle dinamiche dell’inflazione. Tanto che senza i bonus sociali l’incidenza della povertà sarebbe stata superiore di 0,7 punti percentuali. Nel 2023 invece, dove si attendono dati più certi, saranno invece influenzati dalla minore capacità delle famiglie di fare affidamento sui propri risparmi, dalla congiuntura economica e dalla riforma degli strumenti di welfare come il reddito di cittadinanza. Questo nonostante una buona performance del mercato del lavoro che segna un record. 

È tuttavia necessario fare una precisazione: i numeri dell’occupazione sotto il governo Meloni non sono necessariamente causati dal governo Meloni. Se si osserva la serie storica, ossia i valori dell’occupazione nel tempo, non si assiste a un deciso cambio di trend dopo l’insediamento del governo Meloni. Quindi è improbabile che le misure volute dal governo abbiano influenzato la dinamica occupazionale a tal punto. 

È proprio sulle scelte del governo Meloni che si concentra il rapporto. Il nome del capitolo dedicato è emblematico: disuguitalia. Il rapporto evidenzia innanzitutto come, a differenza del governo Draghi, il governo Meloni non sembra avere un modello del sistema fiscale in toto. L’unica cosa che emerge è quindi lo scarso interesse al tema delle disuguaglianze. 

Ma andiamo con ordine. Il primo provvedimento trattato dal rapporto è l’obiettivo dichiarato di una flat tax. La proposta rischia di rendere impossibile il finanziamento degli attuali livelli di spesa pubblica, portando quindi a tagli draconiani. Non regge poi la tesi governativa secondo cui la flat tax agevolerebbe la creazione di nuovo reddito. Vi sono studi empirici che mostrano come il taglio delle tasse ai più ricchi - ciò che avviene di fatto con la flat tax - non abbia alcun effetto sulla crescita economica e sulla produttività, costituendo un regalo ai membri più abbienti della nostra città. 

L’intervento sull’IRPEF, il cui provvedimento più discusso è l’accorpamento dei primi due scaglioni, rischia invece di essere un’ipoteca sulle manovre future. Il costo dell’intervento è stimato tra i 4,2 e i 4,3 miliardi di euro ed è oggi, come dicevamo, finanziato per un solo anno. Con le nuove regole del Patto di Stabilità, per rendere l’intervento definitivo servirà trovare risorse, che sono ingenti.

C’è inoltre un altro problema con questo primo modulo della riforma IRPEF, e risiede nella base imponibile dell’imposta. Questo impone decisioni oculate riguardo quali redditi personali devono essere tassati in modo progressivo.

Negli anni Settanta, al tempo della riforma effettuata dal governo Rumor per l’introduzione dell’IRPEF, almeno nelle intenzioni questa doveva comprendere nella base imponibile tutti i redditi. Il motivo è semplice: l’IRPEF è un’imposta progressiva, cioè l’aliquota marginale cresce in base alla quota di reddito percepito. Per fare un esempio concreto, se abbiamo un sistema a due aliquote, una al 10 per cento quando si guadagnano 30 mila euro e una al 20 quando si guadagnano 60 mila euro, si pagherà il 10 sui primi 30 mila euro, ma a partire da un euro in più guadagnato rispetto alla soglia quello sarà tassato con un’aliquota del 20 per cento. Questo è uno dei fondamenti dei sistemi fiscali occidentali che in questo modo garantiscono una maggior equità. 

Nel corso degli anni, invece, vari redditi (come per il lavoro autonomo attraverso il regime forfettario) sono assoggettati ad altri tipi di tassazione, che però risulta piatta, con evidenti effetti sull’equità del prelievo. 

Serve ulteriore riflessione anche per quel che riguarda il taglio del cuneo fiscale. Su questo punto si era già pronunciato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), in particolare in merito alla trappola della povertà intorno alle due soglie di reddito entro cui è definita la misura. Che cosa significa? Nelle parole della relazione dell’UPB: 

L’applicazione dello sconto contributivo per fasce e non per scaglioni comporta una trappola della povertà in corrispondenza delle due soglie. L’incremento della retribuzione di un solo euro oltre la soglia comporta, all’uscita dalla prima fascia, una riduzione dello sconto (e quindi una riduzione del reddito disponibile) di circa 150 euro. La riduzione del reddito disponibile risulta invece molto maggiore (circa 1100 euro) se la retribuzione lorda supera la soglia di 35 mila euro.

Questo, come spiegano sia Oxfam sia UPB, rischia di essere un forte disincentivo al lavoro, in quanto disincentiverebbero aumenti salariali oltre le soglie a cui si applica. 

Gli altri due temi fondamentali toccati dal rapporto riguardo l’operato del governo Meloni sono la riforma del reddito di cittadinanza e la liberalizzazione dei contratti a tempo determinati. 

Come avevamo già scritto, su quest’ultimo tema assistiamo a un passo indietro rispetto al tentativo, limitato e sicuramente perfettibile, del Decreto Dignità di contrastare il precariato. Il rilassamento delle causali per le assunzioni a tempo determinato di durata tra i 12 e i 24 mesi è una misura fatta appositamente per alimentare un sistema economico che fin troppe volte si è sorretto sullo sfruttamento dei lavoratori. 

Sulla riforma del reddito di cittadinanza, Oxfam concede a Meloni un miglioramento per quel che riguarda l’aliquota marginale implicita, quella per cui il trovare un lavoro avrebbe comportato un decurtamento dell’assegno. 

Ma in generale la soluzione del governo Meloni è bocciata: inaridisce il sostegno ai poveri, è iniquo in quanto tratta in maniera diversa situazioni simili e poco efficiente sotto il profilo del risparmio di spesa. Anche la tanto sbandierata propaganda sugli occupabili finisce per essere una colpevolizzazione dell’individuo, non tenendo conto delle barriere presenti nel mercato del lavoro. Per il governo, quindi, la povertà è un problema individuale. 

La strada da seguire per Oxfam

Che cosa propone allora Oxfam? Come spiega a Valigia Blu Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia:

Cambiare rotta è necessario. Contrastare le disuguaglianze e garantire un futuro più equo e dignitoso per tutti è un imperativo morale. Misure per un fisco più giusto, politiche che ridiano potere, dignità e valore al lavoro, un sistema di welfare a vocazione universalistica che tuteli in modo equo chiunque si trovi in condizione di bisogno rappresentano alcuni dei tasselli dell’agenda per l’uguaglianza che proponiamo. Un’agenda orientata a promuovere economie più inclusive e società più dinamiche e coese, a favorire la partecipazione piena e attiva dei cittadini alla vita economica e politica del paese, mettendoli in condizione di fare ed essere ciò a cui aspirano nella propria vita.

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Nella pratica, questo passa necessariamente attraverso una riconsiderazione di tutta la linea del governo a livello fiscale, prendendo anche in considerazione l’introduzione di un’imposta patrimoniale sui grandi patrimoni, per cui ha lanciato una petizione. Non si devono invece perseguire interventi di condono che vanno a influenzare le aspettative degli agenti, garantendo immunità a chi evade. Serve poi un cambio di passo per combattere il lavoro povero. A partire dall’introduzione di un salario minimo che garantirebbe a oltre 500 mila lavoratori uno stipendio dignitoso. Vanno anche introdotte condizionalità per l’accesso agli incentivi alle imprese che garantiscano la creazione di buoni posti di lavoro. 

Eppure, nonostante il supporto delle classi popolari alle scorse elezioni, l’azione del governo pare orientata a creare un paese più diseguale: da una parte con le misure messe in atto, come la liberalizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato, la riforma del reddito di cittadinanza e quella fiscale; dall’altra con il rifiuto netto di spostare il carico della tassazione dal lavoro ai patrimoni, sfruttando quei pochi margini di manovra fiscali per confermare un taglio del cuneo fiscale che senza trovare risorse altrove non potrà diventare strutturale. 

Immagine in anteprima: screenshot copertina rapporto Oxfam Italia

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