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Raccontare la crisi di governo non serve a niente

2 Ottobre 2013 6 min lettura

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Raccontare la crisi di governo non serve a niente

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La crisi di governo che conferma la fiducia al governo. Il giorno, dice Schifani, dell'«inno all'unità politica» che apre ufficialmente la crisi del partito. Il partito, Forza Italia, sul cui sito convivono contemporaneamente, in apertura, due notizie: «Votiamo la fiducia al governo Letta» e «La parola torni al popolo italiano».

I dissidenti che si mettono contro la linea di Berlusconi per meglio ribadire «lealtà» a Berlusconi. I dissidenti che lo fanno senza mai pronunciarsi contro Berlusconi, come se a decidere nel partito più leaderistico d'Italia non fosse lui, ma i suoi consiglieri (quando lui smentisce, «ho deciso io», nessuno fiata).

I dissidenti che evocano la «macchina del fango» e il «metodo Boffo» dopo averlo sempre ignorato. Cicchitto che chiama «picchiatore» e «irresponsabile» Sallusti, definisce il Giornale un «foglio umoristico» dopo averne occupato le pagine per anni. I dissidenti che scoprono gli «estremisti» nel proprio partito dopo averne condiviso tutte le battaglie. Che temono, improvvisamente, di essere finiti in una sorta di riedizione di Alba Dorata (Lorenzin) e, altrettanto improvvisamente, capiscono il valore della «democrazia interna» (quale, Cicchitto?). I dissidenti che non lo sono, perché invece di puntare il dito contro il leader (come i finiani cui sono stati ingiustamente accostati) fanno a gara a chi più lo corteggia: meglio essere berlusconiani o «diversamente berlusconiani»? Perché questa era e resta la loro battaglia.

Lo scienziato e il Cavaliere

Il futuro del centrodestra che comincia nel nome del passato del centrodestra: del Berlusconi che va seguito «anche a rischio di essere accusati dai nostri avversari di essere dei folli» (Giro), e che secondo Carfagna va paragonato a Einstein. Lo scienziato e il Cavaliere, l'uomo che ha fatto dichiarare dimissioni di massa dei suoi parlamentari (mai giunte) e dei suoi ministri (ottenute e poi rispedite al mittente da Letta). L'uomo che il 29 settembre dice:

«L'unica via è andare convinti verso le elezioni il più presto possibile. Tutti i sondaggi ci dicono che vinceremo. Non potevamo sostenere un governo delle tasse che aumenta la pressione fiscale e l'Iva. Un governo delle tasse non serve al Paese.»

Il 30 rincara:

«La nostra esperienza di governo è finita».

Il giorno seguente ammonisce:

«Pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta».

E poi, quello dopo ancora, quando si parla di 40 senatori pronti a votare in dissenso, vede il Pdl ondeggiare tra la fiducia in blocco al governo, la sfiducia in blocco, l'uscita dall'Aula, di nuovo la sfiducia (l'annuncia raggiante Brunetta: «Il gruppo del Senato, alla presenza del presidente Schifani e del presidente Berlusconi ha deciso per la sfiducia all'unanimità»), poi il dubbio, infine la certezza: è fiducia. C'è del «travaglio», ma con fiducia.

L'uomo che di fronte a tutto questo riesce ancora a dichiarare, uscendo da Palazzo Madama:

«Non c'è stata nessuna marcia indietro».

La crisi del racconto della crisi

Ecco, lasciando da parte l'analisi politica, sorge di fronte a tutto questo una domanda di carattere giornalistico: come si racconta una situazione simile? Come si fa informazione in uno scenario in cui la contraddizione finisce per diventare indistinguibile dalla coerenza? In cui le informazioni sono talmente tante, ravvicinate e contrastanti da rendere difficile se non impossibile al lettore comune tenere traccia di tutte le giravolte, i cambi repentini di strategia e scenario? E in cui soprattutto, sono talmente tante e rapide e caotiche da rendere totalmente vano procedere a quel basilare lavoro di verità (cronistica e storica)?

C'è una forma di violenza in questo procedere della politica legittimato se non incentivato dalla «dittatura del tempo reale», cioè dal compulsare continuo di tweet, retroscena, mezze informazioni, agenzie sbocconcellate, pareri più o meno ragionati. Brunetta annuncia la sfiducia, ma poco dopo cancella, perché la notizia non solo è vecchia: è falsa.

 Forza Italia sul suo profilo scrive che a parlare in Senato sarà Schifani, ma invece a farlo è Berlusconi.

 Tutti finiscono per dire tutto, avere sempre torto e soprattutto sempre ragione. Come nell'oroscopo o in qualunque altra previsione dotata di nullo valore scientifico, basta sostenere tutte le posizioni per dire, prima o poi, che si aveva visto giusto.

È una violenza che riguarda, e questo è il grave, soprattutto il lettore più assiduo, quello che si avvicini all'intreccio di nuovi e vecchi media – ammesso abbia senso la distinzione - per vederci più chiaro. L'appassionato finisce così per sviluppare un senso di nausea da flusso indefinito di informazioni che non ne aumenta il senso di comprensione e anzi ingigantisce lo smarrimento. Ed è una violenza che seduce, perché illude di rendere partecipi di un processo in cui in realtà non si detiene alcun potere. Il paradosso è che i disillusi, quelli che dei dettagli non si interessano, lo sanno bene.

Anzi, meglio. Perché non è, come si discusse al tempo della polemica dei «pazzi che twittano» per l'elezione del nuovo Capo dello Stato, Twitter a influenzare la politica: se proprio una qualche conseguenza si deve produrre, è la politica a influenzare Twitter lanciando mezzi messaggi a suo uso e consumo (o emoticon in corso di voto di fiducia, come Letta)


che poi, ripresi ovunque, finiscono per influenzare i media tradizionali e dunque un pubblico ben più ampio (anche se sempre meno ampio). Come nel caso delle presunte minacce di morte alla Cinque Stelle De Pin da parte dell'ex collega Castaldi: annunciate via Twitter, poi smentite dal diretto interessato e dalla stessa De Pin. Ma non prima che si mettesse in moto la macchina dell'Indignato Collettivo, sempre vigile e sempre inutilmente in moto.

Il live blog e il silenzio

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Insomma, viene da chiedersi: il moltiplicarsi di live blog aggiunge informazione o rumore di fondo? Il poter dare mezze notizie e previsioni in tempo reale è un segnale di indipendenza e vivacità del giornalismo oppure rappresenta una nuova forma di sottomissione – o compromissione – a chi ha interesse a vederle circolare in modo più possibile «virale»? Ancora, tutto il profluvio di parole e interpretazioni e approfondimenti sulla presunta crisi di governo a che cosa è servita? Se non ne avessimo parlato affatto sarebbe cambiato qualcosa, per il cittadino e per il lettore?

Ignorare non è mai una soluzione: si lasciano mani libere. E la politica, si sa, non è scienza esatta. Ma quando il piano di analisi razionale del discorso deteriora al punto di non poter applicare il principio di non contraddizione – il voto di fiducia sembra annunciare ulteriori e più forti contrasti (si veda la polemica già in corso sulla «nuova maggioranza»), per esempio – cosa ci resta per raccontare ciò che vediamo? Ci sono i fatti, la nuda cronaca. Il governo Letta ha ottenuto la fiducia, per esempio: è un fatto. Ma tutto il resto diventa radicalmente incomprensibile. Soprattutto, slegato da ogni tipo di progettualità e visione politica non dico di lungo, ma anche di medio e breve termine. Chi sarebbe disposto a scommettere su cosa accadrà da qui a una settimana?

Nel mentre, il resto del mondo ci osserva, sbalordito. Noi, certo, abbiamo un modo per trarlo in inganno: lo spread e l'economia che ballano o si aggiustano a seconda delle convenienze politiche. Ma prima o poi la realtà emerge, per quanto la si soffochi. E la domanda dunque diventa: in che modo legare il racconto di questa radicale insensatezza politica al racconto del Paese? È un problema che riguarda i giornalisti e la loro sopravvivenza, oltre che dignità, come i lettori. Ed è un problema a cui non ho risposta.

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