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La guerra a Gaza, la caccia agli ebrei in Russia e i rischi per Putin

31 Ottobre 2023 9 min lettura

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La guerra a Gaza, la caccia agli ebrei in Russia e i rischi per Putin

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L’attenzione mediatica internazionale si è spostata dalla guerra in Ucraina e da cosa avviene in Russia ai tragici avvenimenti in Israele e in Palestina. Un conflitto in cui anche Mosca prova a dire la propria, con tentativi di proporsi come mediatrice, cogliendo l’occasione per segnalare le responsabilità statunitensi nelle tensioni mediorientali. 

Le intenzioni di Vladimir Putin non sono legate, come anche si è letto e sentito in questi giorni da parte di alcuni commentatori italiani, a un patrocinio di Hamas da parte russa o di una sudditanza del Cremlino nei confronti dell’Iran, il cui peso politico ed economico nelle relazioni bilaterali è significativamente aumentato nel corso di quest’anno e mezzo di guerra.

Sin dall’inizio degli anni Novanta, da quando il 18 ottobre 1991 tra Unione Sovietica e Israele vennero ristabilite le relazioni diplomatiche interrotte nel 1967 con la guerra dei sei giorni, all’antisionismo ufficiale dell’età comunista si sostituisce un vasto sostegno da parte della Federazione Russa, sia da parte delle autorità che dell’opinione pubblica, allo Stato ebraico, dovuto anche alla presenza di una numerosa comunità russofona nel paese, pari a circa il 17% della popolazione israeliana nel 2017 e aumentata con le aliyah, i rimpatri, nel corso del 2022 e del 2023 degli ebrei russi contrari alla guerra. 

All’inizio degli anni Duemila, quando primo ministro israeliano era Ariel Sharon, i legami istituzionali con la Russia si intensificarono, suggellata dalla comune visione di “lotta al terrorismo” implementata nei territori palestinesi e in Cecenia, e sarà proprio Sharon, durante una visita a Mosca nel 2003, a definire Putin “un vero amico d’Israele”. Un’intesa estesa anche ai governi di Benjamin Netanyahu, con cui il presidente russo costruisce una relazione speciale, che ha portato le autorità israeliane a mantenersi in disparte nei confronti del sostegno militare fornito all’Ucraina dai paesi occidentali e a non far passi in grado di irritare il Cremlino, arrivando a sconsigliare Volodymyr Zelensky di visitare Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. 

L’intervento russo in Siria in sostegno a Bashar Assad non ha avuto conseguenze sulle connessioni russo-israeliane, e vi è un continuo contatto tra i comandi generali dei due paesi per evitare di colpire per errore uomini, mezzi e velivoli russi durante le incursioni di Tsahal su Damasco e altre basi siriane. La visita di una delegazione di Hamas a Mosca, avvenuta il 26 ottobre, ufficialmente ha visto come tema della discussione tra il ministro russo degli esteri Sergei Lavrov e i rappresentanti del movimento islamista il rilascio degli ostaggi, ma ha avuto anche lo scopo di sondare il terreno per una possibile mediazione russa, mirata ad escludere gli Stati Uniti e l’Unione Europea dall’elaborazione di una soluzione al conflitto, anche utilizzando le prese di posizione di Joseph Biden e di Ursula von der Leyen. Un tentativo per poter ribadire il ruolo della Russia nello scacchiere politico mondiale e per riaffermarne il profilo di grande potenza di cui dover tener conto nella gestione del mondo, con delle implicazioni però rischiose per il rapporto con il governo israeliano a causa della retorica anti-occidentale adottata da Vladimir Putin, e gli episodi degli ultimi giorni nel Caucaso del nord, sfociati in azioni antisemite, potrebbero rappresentare l’inizio di una svolta nelle relazioni.

Infatti, il sostegno trasversale ad Israele non è unanime nella Federazione Russa: la numerosa comunità musulmana, distribuita principalmente nelle repubbliche del Caucaso settentrionale e del bacino del Volga con numeri importanti anche a Mosca e a San Pietroburgo, è schierata con la Palestina, con gradazioni diverse che vanno dalla solidarietà all’antisemitismo, quest’ultimo intrecciato a situazioni locali che poco o nulla hanno a che fare con il Medio Oriente. 

Già all’indomani dell’attacco di Hamas, il leader ceceno Ramzan Kadyrov era intervenuto per chiedere di fermare la risposta di Israele, proponendo i suoi uomini come forza d’interposizione per “capire chi ha ragione e chi torto”, ribadendo la solidarietà con il popolo palestinese, per poi in seguito alzare i toni, perché “il fascismo israeliano non è da meno, se non addirittura supera, quello hitleriano”. Il leader ceceno, impegnato in una frenetica attività di promozione del figlio Adam, balzato agli onori delle cronache per il pestaggio di Nikita Zhuravel, imputato di aver dato fuoco a una copia del Corano a Volgograd e trasferito in carcerazione preventiva a Grozny, utilizza la questione palestinese per continuare a costruire la sua figura di unico difensore della fede islamica nella Federazione Russa, ruolo poco gradito agli esponenti delle altre repubbliche a maggioranza musulmana, ma mai contestato apertamente per evitare problemi con Kadyrov, noto per i suoi metodi e ritenuto vicinissimo a Putin. 

Alcune manifestazioni di solidarietà con Gaza, come due tentativi di sit-in nei pressi dell’ambasciata israeliana a Mosca, sono state segnate da arresti, ma in altri casi le forze dell’ordine si sono trovate a far i conti con uno scenario completamente diverso. Sabato 28 ottobre nella città di Chasavjurt, in Daghestan, centinaia di persone si sono radunate attorno all’hotel Flamingo, dove, secondo le voci circolate su Telegram e per strada, sarebbero stati alloggiati dei rifugiati israeliani: solo dopo che una delegazione dei manifestanti è entrata nell’albergo per verificare se fosse vero, le proteste sono cessate e la direzione ha affisso un cartello dove si vieta l’ingresso ai “cittadini d’Israele (ebrei)” e specificando come non vi fossero tra i propri clienti. Le voci sull’arrivo di profughi da Israele si sono diffuse anche nella repubblica di Karačaevo-Čircassia, distante circa 400 chilometri dal Daghestan, con una petizione, presentata da 500 persone, in piazza a Čerkessk, di cui 34 fermate dalla polizia per manifestazione non autorizzata e per la rivendicazione avanzata dai partecipanti alla protesta di espellere gli ebrei dal territorio repubblicano.                                                      

Il centro culturale ebraico in costruzione a Nal’čik, capitale della Karačaevo-Čircassia, è stato dato alle fiamme e su un muro è apparsa la scritta “morte agli ebrei”, ma è stata Machačkala, sulle rive del Mar Caspio, l’epicentro dell’episodio di antisemitismo più grave nella Federazione Russa. Una folla di circa 2.000 persone ha preso d’assalto l’aeroporto della capitale del Daghestan, repubblica dove tra le oltre quaranta etnie vi sono anche i taty, conosciuti anche come ebrei della montagna, comunità di ceppo linguistico iranico e religione giudaica presente nel Caucaso sin dall’antichità.

Gli scontri di domenica 29 ottobre, dovuti all’arrivo di un volo da Tel Aviv, hanno visto l’iniziale impotenza delle forze dell’ordine, travolte dai manifestanti in cerca degli ebrei, con filmati dove si vede la caccia all’uomo scatenata nei locali dell’aeroporto e sulla pista d’atterraggio, occupata per ore da centinaia di uomini, molti a volto coperto, in corsa da un aereo all’altro per individuare i potenziali nemici. Ci sono stati tentativi di irrompere all’interno dei velivoli, dove centinaia di passeggeri sono restati bloccati per sfuggire alle violenze, e l’aereo giunto da Tel Aviv è stato circondato, senza però conseguenze per chi era all’interno. Nemmeno l’intervento di altre unità della polizia e della Rosgvardija, la Guardia nazionale russa, è riuscito ad avere immediatamente la meglio sulla protesta, proseguita fino a tarda notte con lanci di oggetti di ogni tipo sugli agenti e colpi d’arma da fuoco, senza che l’appello di Ahmad Afandi, muftì del Daghestan, e l’arrivo dei ministri repubblicani Enrik Muslimov e Kamil Saidov siano riusciti a riportare sotto controllo la situazione, tornata normale solo alle prime luci dell’alba.

Nella storia del Caucaso settentrionale, segnata dagli scontri interetnici e interconfessionali, non vi erano mai stati pogrom antiebraici né tantomeno azioni antisemite. Nell’impero russo i pogrom avvenivano nelle regioni occidentali, dove le comunità ebraiche erano numerose, e nelle grandi città, ma mai in questa regione, incrocio di culture e popoli. 

La questione palestinese sembrerebbe però aver aperto uno spazio di protesta molto particolare, che spiega anche le difficoltà a intercettare possibili disordini: gli slogan urlati in piazza non sono indirizzati contro il Cremlino, e alcuni di essi riprendono delle parole d’ordine gridate nelle trasmissioni televisive; il disorientamento delle forze di polizia è simile a quanto avvenuto con la rivolta della Wagner, quando gli uomini di Prigožin presero Rostov senza sparare un colpo e si diressero in marcia su Mosca, ostacolati solo da alcuni tentativi di fermarli intrapresi dall’esercito e dall’aviazione, con in più un fattore fondamentale, la comune identità etnica e confessionale di manifestanti e agenti. Le autorità locali si sono dimostrate, come il 24 giugno scorso, incapaci di adottare misure per fronteggiare le proteste, perché queste ultime non sono assimilabili alle periodiche manifestazioni avvenute negli scorsi anni contro le politiche di Putin o la guerra, e anni di verticale del potere hanno prodotto un processo di deresponsabilizzazione nelle regioni e paradossalmente un crescente disinteresse da parte di Putin di intervenire direttamente in situazioni ritenute non all’altezza dei suoi compiti. 

Queste difficoltà sono visibili anche nella mancanza di chiarezza su cosa fare con gli arrestati (al momento circa un’ottantina), con la proposta avanzata di inviarli al fronte per “espiare la propria colpa”, prospettiva già delineata dal voenkor (corrispondente di guerra), Aleksandr Kots, che aveva invitato i manifestanti ad andare a Gaza o a Kyiv, al palazzo presidenziale, se davvero volevano uccidere degli ebrei. Tuttavia, le tensioni in Daghestan non sono una novità degli ultimi giorni, ma perdurano dallo scorso settembre, quando con la mobilitazione parziale blocchi stradali e manifestazioni spontanee interessarono la repubblica, e sono poi continuate con le proteste a causa dei continui guasti alla rete elettrica quest’estate, in un accumulo di scontento generale per la situazione locale.

Nella serata di lunedì 30 ottobre, Vladimir Putin ha riunito i responsabili delle forze dell’ordine e dell’intelligence, i membri del Consiglio di sicurezza e i ministri per discutere dei disordini di ieri. Nell’intervento trasmesso in televisione e sui canali social governativi, il leader russo è sembrato alquanto generico, ribadendo le colpe dell’Occidente e in particolare degli Stati Uniti nei conflitti in Medio Oriente e stigmatizzando la “punizione collettiva” a cui è sottoposta Gaza, per poi incolpare i servizi segreti americani e i canali social basati in Ucraina come responsabili dei disordini. 

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Bisogna conoscere e capire dove si trova la radice del male, dov'è questo ragno che prova ad avvolgere nella sua ragnatela tutto il pianeta, che vuole ottenere la nostra sconfitta strategica sul campo di battaglia. (Egli) utilizza la gente rimbecillita nel corso di decenni in Ucraina e combattendo contro questo nemico nell'operazione speciale rafforziamo le posizioni di chiunque lotti per l'indipendenza e la sovranità”, ha poi aggiunto Putin, utilizzando un’immagine molto problematica per descrivere Washington, visto che il ragno è un topos presente nella propaganda antisemita sin dalla fine dell’Ottocento. Non vi è però stato alcun ragionamento sulle ragioni interne alla base degli scontri di Machačkala, derubricati a pure manovre dall’esterno: l’azione di canali Telegram come Utro Daghestana, legato all’ex deputato russo e ora animatore della Legione Svoboda, Rossii Il’ja Ponomarev, è stata accertata per prima da media indipendenti come Sota e Agentstvo, ma appare altamente improbabile un ruolo organizzativo degli uomini di Ponomarev nella repubblica caucasica se non quello odioso di rilanciare e amplificare voci e notizie false sull’afflusso di rifugiati israeliani nella regione. Il rischio di una possibile estensione di manifestazioni simili nelle repubbliche musulmane continua a essere una possibilità, tanto da far intervenire il ministro ceceno per le politiche nazionali, Ahmed Dudaev, nella serata di domenica per denunciare le violenze in Daghestan, bollate come provocazioni, e Kadyrov che ha invitato a dirigere la rabbia non contro “i propri alberghi, aeroporti” ma sull’Ucraina, dove vi sono i “veri satanisti e fascisti che appoggiano il massacro dei palestinesi”.

Mentre gli occhi e le telecamere del mondo sono su Gaza, intanto continua il conflitto in Ucraina, dove lo stallo di fatto al fronte si traduce in migliaia di vittime tra i soldati di entrambi gli eserciti. Una situazione che gioca a favore, in questo momento, di Mosca, perché mantiene il controllo delle regioni ucraine meridionali e il passaggio delle notizie da quello scenario in secondo piano sembrerebbe realizzare l’auspicio, mai tenuto nascosto, di Putin di una diminuzione dell’appoggio occidentale a Kyiv, ritenuto fondamentale per poter vincerne la resistenza. 

L’impasse non è una vittoria, ma tentare di riuscire a mantenere le posizioni conquistate nel corso dei mesi precedenti alle elezioni presidenziali russe, previste per marzo del 2024 (la data più probabile è il 18, decennale dell’annessione della Crimea), considerate un appuntamento cruciale per il sistema putiniano. In questo momento a Putin serve dimostrare di essere rassicurante, in grado di tener tutto e tutti sotto controllo, nonostante la guerra, anzi, persino a dispetto degli "intrighi occidentali"; il pogrom di Machačkala e le azioni antisemite di questi giorni rischiano di offuscare la campagna per rieleggere il presidente per la quinta volta, la cui ricandidatura verrà probabilmente ufficializzata durante l’inaugurazione dell’esposizione Rossija (Russia), prevista per il 4 novembre a Mosca, evento volto a mostrare al paese e al mondo i traguardi ottenuti nei due decenni di permanenza del leader al potere.

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