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L’omicidio di Giovanni Cutolo a Napoli, la nostra indifferenza e le generazioni senza futuro

4 Settembre 2023 7 min lettura

L’omicidio di Giovanni Cutolo a Napoli, la nostra indifferenza e le generazioni senza futuro

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C’è stato un tempo vuoto che mi sembra pesi come la lapide di marmo che mercoledì chiuderà i resti di Giogiò.

Giogiò, oggi lo chiamano tutti così spinti da sincera partecipazione emotiva, ma scusate la franchezza, tra qualche giorno, Giovanni Battista Cutolo, il giovane musicista assassinato per niente, in piazza Municipio a Napoli se lo ricorderanno solo la famiglia, la fidanzata e gli amici.

Quel tempo vuoto è di tre anni. Non poco. Da quando l’assassino aveva 13 anni fino ai suoi 16. A 13 anni accoltellò un suo coetaneo e fu accusato di tentato omicidio. Non era imputabile, troppo piccolo per andare in galera. E poi passa del tempo e a 16 anni spara tre colpi di pistola contro un altro ragazzo, Giovanni appunto, e lo uccide. A 16 anni è sempre un “muccusiello” che però evidentemente era solo passato dal coltello a “o fierr” (la pistola), e che ora andrà nel carcere minorile.

Che cosa è successo in quel tempo? Chi si è occupato di quel bambino che aveva cercato di uccidere e che poi alla fine lo ha fatto 3 anni dopo? Non era imputabile e quindi? Forse bisognava prendersene cura, forse bisognava tenerlo d’occhio. Invece era tranquillamente avviato alla carriera di rapinatore di Rolex, come altri ragazzini del suo quartiere. Come anche Ugo Russo, vivo nella cronaca e ucciso da un carabiniere libero dal servizio che aveva cercato di rapinare.

Ora è facile dire che bisogna buttare la chiave. Ma che abbiamo fatto quando aveva 13 anni e già aveva conosciuto e praticato il male?

Niente. Oppure cose sbagliate. Questa storia ci racconta di ragazzi che si sentono fighi quando si mostrano prepotenti, vestiti come la bibbia dei trapper comanda, quando sono armati, tanto che se non sono ancora parte di uno dei piccoli clan d’accatto in cui è parcellizzato oggi il territorio napoletano, fanno comunque in modo di procurarsi “0 fierr”

“Oggi se non tien o fierr nun si nisciun”, mi dice uno delle paranzelle che ho intervistato per un reportage.

E quanto vi costa? Siete ragazzini…

“Dipende da quanti guai tiene sopra… se tiene morti”. Meno guai tiene più è cara. Ma se vuoi una pistola e non ti importa di niente, la pigli pure per 150 euro. Quando stiamo in gruppo le mettiamo nelle borsette delle ragazze perché a loro le guardie non le controllano”.

Ma a che vi serve se state uscendo solo a divertirvi?

“Ci serve perché c’amma stenner, dobbiamo dimostrare la nostra superiorità soprattutto se cambiamo quartiere. Ci devono temere e dobbiamo far vedere che ci facciamo rispettare. Quindi basta uno sguardo di troppo e scoppia “a tarantell”.

E questo è successo qualche giorno fa: “Na tarantell”. Un motorino parcheggiato male, qualche parola di troppo e tre spari con una lillipuziana, così chiamano la Browning calibro 6,35.

Qualche ora prima un ragazzo era finito in ospedale con una gamba da amputare per una lite per gli acquisti del fantacalcio.

Eh sì, nell’immaginario di questo lembo di generazione, un insulto è un'onta da lavare col sangue, perché quello che si promette cantando le canzoni dei trapper finti cattivoni e tutto marketing, bisogna poi mantenerlo, bisogna essere duri come il boss della serie tv, con quella barba, con la catena finto oro al collo, gli abiti di discutibile lusso diventati imprescindibili secondo i testi di certe litanie unz-unz di successo.

E che faccio? Mi faccio insultare e perdo la faccia? E allora forse non so manco cosa faccio per davvero, prendo la lillipuziana e sparo. Bum, bum, bum. Volto le spalle e vado via come in un qualsiasi copione di Netflix. E vado a giocare a carte. Poi mio padre mi racconta che hanno ucciso un ragazzo, un musicista di 24 anni.

La polizia ci mette poco tempo per individuarlo e lui arriva in questura con lo sguardo da duro d’ordinanza, quasi con un ghigno, quello di chi non si è reso conto di niente e che da niente si fa toccare.

Tutto racconta di un mostro. Ma è sempre quel "muccusiello" che sapevamo potesse avviarsi in una vita rischiosa eppure lo abbiamo abbandonato a 13 anni. Predatore. Negli appunti di polizia viene usata questa parola che difronte alla ferocia usata sembra calzargli a pennello.

I bambini armati li ho visti e raccontati. Una volta erano reclute che nei corsi d’addestramento alla vita criminale dovevano dimostrare di essere all’altezza del welfare garantito dalla camorra. Ottima merce in un sistema giudiziario che giustamente ha un occhio di riguardo per i giovanissimi. Ma qua parliamo di altro. Parliamo di una generazione che trova la sua identità in modelli in cui vince la legge del più forte, bisogna essere prepotenti, sfacciati, prevaricatori, mostrarsi più duri degli altri. Fatevi un giro nelle scuole e nei locali e ascoltateli certi ragazzi: parlano di armi e a volte le portano pure in classe (quando ci vanno), si costruiscono una reputazione nelle risse, con lo spaccio, le rapine. Dopo l’omicidio di Giovanni e l’arresto del suo assassino, sui social in molti scrivevano frasi di vicinanza e solidarietà per il carnefice, senza mai una parola per la vittima. Anche questa è una scelta di identità: restare dentro uno schema narrativo preciso, con un ruolo preciso, quello del cattivo. Mi verrebbe da dire: Bravi! E che avete ottenuto? Qualche soldo in più in tasca? E quando ve lo godete, che ve ne fate se poi finite “azzeccati a terra”, morti ammazzati oppure dentro una cella?

Una cella che attenzione, non è “Mare fuori” (perché ho sentito ragazzini dire pure questo, che vorrebbero andare nel carcere minorile per fare l’esperienza della fiction). Nella cella vera stai tu, il cesso, la branda, e altri quattro letti a castello. In venti metri quadrati. E ti mancherà l’aria, ti mancherà tua mamma, avrai notti chiare e crampi allo stomaco per i sensi di colpa che ti mangeranno vivo. Avrai paura, perché in galera c’è rabbia e altra violenza. E quando uscirai sarai un uomo di mezza età che tutti considerano uno scarto della società, probabilmente non troverai nessuno che vorrà darti un lavoro e sarai preda di altri criminali, piccolo ingranaggio di quel sottoproletariato mafioso che infesta città, giornate, vite. E la ruota girerà di nuovo scavando abissi sempre più bui. Però che figo che sei stato eh?

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La storia di Giovanni e del suo assassino sembra riproporci la dicotomia tutta napoletana descritta da Benedetto Croce dove convivono bellezza e merda. Per la verità Croce diceva del paradiso abitato da diavoli, ma io ho usato le espressioni che ho sentito dalle persone vicine alla famiglia. Un ragazzo cresciuto nell’immensità della musica e un altro che al massimo usava la drill nelle sue scorribande di sopravvivenza come i nazisti usavano la cavalcata delle valchirie (mi perdoni Wagner per il blasfemo accostamento). Eppure secondo me non si tratta nello specifico di Napoli. Questa gioventù la vedo in tanti posti, a Milano, Roma, Parigi, Londra… Il modello è lo stesso, le storie no, quelle si declinano a seconda del territorio. Ma si tratta sempre di generazioni a cui sono state portate via opportunità e fiducia nel futuro e nel merito e che vengono bombardati dall’effimero. Un effimero che va dalla vita al limite, agli abiti firmati, le auto, l’apparenza, il contenitore. E non sanno che quando sarà prematuramente finita, anche lì conterà più il funerale rispetto al morto.

Ovviamente è successo a Napoli e di Napoli facciamo la solita oleografia negativa che è fastidiosa quando diventa retorica e occasione per passerelle di chi non vede, non si mischia, non capisce eppure vuole sempre parlare. Invece le cose di Napoli vanno raccontate sempre e senza sconti ma bisogna sporcarsi le mani evitando, in mancanza di contenuti, di rifugiarsi nel dibattito del “Fujtevenne”, buono per tutte le stagioni.

E noi, brava gente che c’entriamo? Non esiste un noi e un loro. Non esiste banalmente perché può capitarti di uscire di casa per andare al pub e non tornare mai più o peggio non veder mai più tornare tua figlie o tuo figlio, come nel caso di Giovanni. Se ne facesse una ragione anche la borghesia con la puzza sotto il naso che si batte il petto per le periferie ma che poi non ci mette mai piede, perché lì ci sono “loro” e “noi” siamo “noi”, la gente per bene. Intanto nelle periferie per fortuna sopravvive il germe dell’impegno civile affidato ad associazioni e fondazioni da San Giovanni a Teduccio a Ponticelli, Scampia, Miano e così via. Ma poi, l’assassinio di Giovanni è avvenuto in pieno centro, nella piazza dove c’è il palazzo del Comune e l’ufficio del sindaco e a pochi passi la questura. Dove ci possiamo dire al sicuro? In attesa che lo Stato si comporti da Stato e reagisca, proviamo a reagire noi. Facciamolo innanzitutto non lasciando che questo ennesimo morto perda di significato e memoria con il tempo, facciamo che sia uno spartiacque. Cominciando a prendere le distanze dalla subcultura mafiosa a cui siamo tutti assuefatti, respingendo o quantomeno analizzando i modelli che ci vengono proposti non con la censura, ma provando a capire cosa è vero e cosa non lo è, cosa è marketing e smontando la fascinazione che si insinua. Fermando il processo di trasformazione della vita sociale in vita economica spingendo ogni singola persona e organizzazione ad una scelta di campo e un taglio netto. Ma soprattutto uscendo dalla narcolessia dell’indifferenza e interessandoci delle persone e di ciò che succede non solo quando avviene la tragedia. Perché Giovanni non muoia di nuovo. E per non abbandonare nessun altro tredicenne.

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