L’ordine pubblico secondo i tecnici: la piazza come lo stadio e i manifestanti come gli ultras
5 min letturaIn questi ultimi giorni, la semplicissima richiesta di rendere visibile il numero identificativo dei poliziotti – avanzata dopo gli scontri del 14 novembre – si sta trasformando in una sorta di enorme orangotango politico sparato a folle velocità dentro l’Alveare della Reazione. Mezzo arco parlamentare, infatti, si è fatto prendere dal panico e ha affilato il pungiglione per difendere la propria tana. In una nota, Fabrizio Cicchitto ha avvertito: «L'iniziativa di mettere il numero identificativo sui caschi delle forze dell'ordine è pericolosa e foriera di intimidazioni e forse anche di vendette. Che ci pensi bene il ministro Cancellieri prima di farla».
E il Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, raccogliendo l’invito del capogruppo Pdl alla Camera, ci ha pensato bene. Davvero bene:
È un problema molto più complesso, perché da una parte dobbiamo garantire la sicurezza degli operatori e delle loro famiglie, dall'altra non si può fare un discorso del genere se non si fa altrettanta chiarezza su chi partecipa ai cortei travisato o armato. È un tema che va discusso anche con gli operatori di polizia e con i sindacati.
Pare di capire che anche per questo giro non ci sia niente da fare, purtroppo. La Cancellieri, tuttavia, ha le idee molto più chiare su come arginare il problema dei casseur e di chi «crea disordini». Servono – dice il Ministro – «norme più rigorose, un po' come ci sono per gli stadi, [...] una specie di Daspo per i manifestanti». Insomma, per un tecnico lo stadio e la piazza si equivalgono, e i manifestanti sono come degli ultras.
Ma cos’è esattamente un Daspo? Il Daspo (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) è una misura introdotta con la legge n. 401/1989. Tendenzialmente, serve a tenere fuori dagli stadi i tifosi ritenuti pericolosi e/o violenti. Il magistrato Piero Calabrò – in un dettagliato articolo giuridico sulla violenza dentro e fuori gli stadi – ha definito il Daspo come «una misura di prevenzione certamente atipica, caratterizzata dalla sua applicabilità a determinate categorie di persone che, in ragione di sintomatiche circostanze di tempo e di luogo, si ritiene che possano rivestire condizioni di pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica».
Il sociologo Valerio Marchi, nel saggio Il derby del bambino morto (2004), ha sottolineato i rischi insiti in un’utilizzazione indiscriminata del Daspo:
Con il Daspo la polizia sviluppa al massimo la propria discrezionalità, valutando in piena autonomia se utilizzarlo in termini punitivi, colpendo gli specifici e accertati autori di azioni illegali, oppure – come avviene – in termini di repressione generale, con comminazioni massificate che con gli anni andranno aumentando a dismisura.
A causa dell’estrema genericità della formula legislativa, vari tribunali amministrativi sono stati chiamati ad esprimersi sulla materia. Nel 2010, il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabile il Daspo a chi aveva mostrato le parti intime ai tifosi della squadra avversaria, reputando che un simile comportamento fosse idoneo a «provocare possibili reazioni violente da parte di chi, da tali condotte, si sentisse irriso», e che «anche una condotta non integrante una fattispecie di reato può essere idonea a creare pericoli per l’ordine pubblico negli stadi ovvero innescare condotte violente». Nel 2009, invece, il Tar della Liguria ha annullato un Daspo emesso dal Questore di Genova nei confronti di un tifoso, stabilendo che la misura «non è di carattere preventivo ma repressivo», ed è applicabile a comportamenti che «non devono essere solo temuti, ma devono essersi in fatto verificati».
Commentando le sentenze, Calabrò spiega che «la normativa d’urgenza necessitata dall’esplosione dei casi di violenza negli stadi» dovrebbe avere una «più compiuta ed inattaccabile definizione»:
Il rischio di vanificarne l’efficacia, attraverso contrastanti interventi giurisprudenziali giustificati dalle oggettive sue lacune, appare […] fin troppo agevole.
Ad ogni modo, per capire il grado di discrezionalità a cui può arrivare un Daspo basta vedere quello che è successo a Pietro Arcidiacono, attaccante del Nuovo Cosenza. Sabato scorso, durante la partita contro la Sambiese a Lamezia Terme, il 24enne (originario di Catania) ha festeggiato un gol mostrando una maglietta bianca con la scritta “Speziale innocente”. Il riferimento era a uno dei due ultras del Catania (Antonino Speziale) condannati in via definitiva per l’omicidio dell’ispettore Filippo Raciti, avvenuto il 2 febbraio del 2007 a Palermo.
La dissociazione della società calcistica è arrivata subito, e il calciatore si è giustificato così: «Non è stato un gesto contro le forze dell’ordine né contro la famiglia Raciti, ma solo un atto di solidarietà verso un ragazzo che conosco perché siamo cresciuti nello stesso quartiere di Catania». Il questore di Catanzaro ha interpretato un simile gesto in maniera radicalmente diversa e il 19 novembre ha emesso un Daspo nei confronti di Arcidiacono. Come riporta la Gazzetta dello Sport, l’attaccante «per tre anni non potrà giocare perché impossibilitato a entrare in un impianto sportivo». Tuttocialciatori.net è meno categorico: l’attaccante «potrebbe non dover smettere di giocare», dato che nel provvedimento «non dovrebbe comparire l’obbligo di firma domenicale».
La decisione ha incontrato il plauso di Franco Maccari, segretario generale del sindacato di polizia Coisp:
Non possiamo che condividere la decisione del Questore di Catanzaro, Guido Marino. Quello del calciatore è stato un gesto intollerabile che non ha nulla a che vedere con i valori dello sport, anzi ha rappresentato un insulto alla memoria di Filippo Raciti, alle sofferenze dei suoi familiari, al dolore dei suoi colleghi. Una esibizione vergognosa ed inopportuna, che non può trovare alcuna giustificazione, perché rappresenta una apologia dell'odio e della violenza nei confronti delle Forze dell'Ordine. Sono certo che anche la Federcalcio assumerà provvedimenti che siano da esempio per tutti, così come la Magistratura valuterà ipotesi di reato e l'eventuale coinvolgimento di altri compagni di squadra.
Tutto questo per una maglietta (discutibile quanto si vuole, ci mancherebbe) esibita in una partita di serie D. Sempre ne Il derby del bambino morto, Valerio Marchi scriveva:
Un altro motivo che può condurre al divieto è di aver partecipato, ma anche solo incitato, ad atti di violenza. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il clima che si crea durante una partita di calcio può avvertire, anche in questo caso, insieme all’estrema genericità della formula adottata, anche il suo alto tasso di discrezionalità. A partire dal dato che, se si decidesse di colpire realmente il semplice incitamento alla violenza, si svuoterebbero gli stadi.
Ora, pensate alle conseguenze nefaste dell’estensione del Daspo ai manifestanti. In pratica, chiunque osi partecipare a manifestazioni di piazza potrebbe vedersi arrivare a casa il provvedimento amministrativo: bastano un casco o una sciarpa (magari usata per non rimanere soffocati dai lacrimogeni) per travisare il volto e dunque essere catalogati come soggetti pericolosi. O ancora: uno studente che imbraccia uno scudo-libro di V per Vendetta è chiaramente qualcuno che si produce in un’«apologia dell'odio e della violenza nei confronti delle Forze dell'Ordine». La casistica è potenzialmente infinita.
La proposta di estendere il Daspo a contesti diversi da quello calcistico, d’altronde, si colloca nell’ambito di una precisa visione del controllo della protesta. Un controllo molto più strisciante e preventivo, e dunque sganciato da fastidiosi contrappesi giudiziali. Una delle tesi centrali del saggio di Marchi, infatti, è che il calcio sia una specie di laboratorio dove escogitare «tattiche d’ordine pubblico sempre più avanzate e repressive» - tattiche che, dopo essere state provate sui tifosi, saranno poi adattate al contenimento della piazza.
Certo, tra l’idea di un Daspo «politico» e la sua effettiva implementazione si frappongono degli insignificanti ostacoli chiamati “Costituzione” e “Bilanciamento tra le esigenze di ordine pubblico e dissenso”. Ma per un governo tecnico questi problemi – a differenza di quello insormontabile dei numeri identificativi sui caschi dei poliziotti – non sono molto complessi.