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Long COVID, è fondamentale assicurare a chi ne soffre il riconoscimento della malattia e i servizi di riabilitazione e approfondire gli studi sugli effetti a lungo termine della COVID-19

2 Dicembre 2021 15 min lettura

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Long COVID, è fondamentale assicurare a chi ne soffre il riconoscimento della malattia e i servizi di riabilitazione e approfondire gli studi sugli effetti a lungo termine della COVID-19

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Ha collaborato Angelo Romano

L'Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO-ITS) sezione Lombardia ha pubblicato i primi dati del programma di monitoraggio sui pazienti dimessi della Regione, avviato per valutare l’entità del danno polmonare nelle persone che sono state ricoverate in seguito all’infezione da COVID-19. “In questo momento di forte stress per il Servizio Sanitario – ha detto Sergio Harari, presidente della Sezione Lombardia di AIPO-ITS –, la Pneumologia si sta facendo carico non solo del paziente in fase acuta, emergenziale, ma anche di tutti gli aspetti legati al long covid ovvero la persistenza di sintomi dopo circa tre mesi dall’infezione virale e che possono essere di varia natura: da quelli di natura respiratoria, ai sintomi neurologici, come la cosiddetta 'nebbia cerebrale', le difficoltà di memoria, la cefalea. Ma anche sintomi gastroenterici e cardiovascolari. In sostanza si tratta di una manifestazione che interessa tutto l’organismo e che viene poi declinata in maniera diversa da paziente a paziente”. “Dai primi dati dello screening richiesto da Regione Lombardia emerge che nella settimana dell’11 dicembre sono stati visitati dalle Pneumologie Lombarde 858 pazienti” spiega Michele Vitacca, direttore del Dipartimento Pneumologia riabilitativa ICS Maugeri: “Di questi il 21% era stato ricoverato in terapia intensiva, il 60% erano stati sottoposti a ventilazione CPAP, solo il 58% dei casi non presentava alcun livello di disabilità mentre il 20%, il 12%, il 6% e il 4% una disabilità lieve, media, avanzata o estremamente avanzata”. “Al termine della visita – continua Vitacca – il 30% ha richiesto ulteriori indagini pneumologiche, il 12% ha richiesto altro specialista e solo il 4% è stato inviato ad un ciclo di riabilitazione respiratoria/motoria. Il dato epidemiologico che emerge è che circa un quarto di pazienti con storia severa di COVID soffrono di sintomi da long COVID a distanza di molti mesi dall’episodio”.

Pochi giorni fa l'agenzia governativa britannica Office for National Statistics ha pubblicato un'indagine svolta tra novembre e dicembre 2021 secondo cui nel Regno Unito circa 1,3 milioni di persone soffrono di Long Covid. Secondo il report il 64% di queste persone hanno dichiarato che i sintomi di questa sindrome hanno influenzato negativamente le loro attività quotidiane e il 20% ha riferito che la loro capacità di svolgere le attività quotidiane era stata molto limitata. A essere maggiormente colpite, secondo il sondaggio svolto, sono persone di età compresa tra 35 e 69 anni, donne, chi vive in aree più svantaggiate e coloro che lavorano nell'assistenza sanitaria, nell'assistenza sociale o nell'insegnamento e coloro che presentano un'altra condizione di salute o disabilità che limita la loro attività. Riguardo a questa indagine, il dott. David Strain, docente clinico senior dell'Università di Exeter, ha detto alla BBC: "Mentre continuiamo a vedere l'aumento di casi di Omicron, dobbiamo stare attenti perché il nostro misurare esclusivamente il rischio della COVID dai ricoveri e dalle morti potrebbe sottovalutare grossolanamente l'impatto sulla salute pubblica della nostra attuale strategia anti Covid".

 

A novembre del 2020, Laurie Bedell, insieme alla sua famiglia a Pittsburgh, negli Stati Uniti d’America, è risultata positiva al nuovo coronavirus. A causa della COVID-19 il padre di Laurie è deceduto. La donna, invece, ha superato l’infezione, ma, racconta la CNN, a un anno di distanza, sta ancora combattendo con la “sindrome post-COVID” (o anche Long COVID). Laurie, che ha 42 anni, dichiara di soffrire di un grave forma di affaticamento, di deterioramento cognitivo e di sentire dolore costante: “È ingrassata di 20 chili – continua il sito dell'emittente statunitense – e spesso dorme sul divano perché non trova la forza per salire le scale della sua camera da letto. Ha bisogno di un deambulatore per muoversi in casa e di una sedia a rotelle per gli appuntamenti medici”. La stessa donna ha detto al giornalista: «Riesco a malapena ad alzarmi dal letto o dal divano. Il dolore e la stanchezza sono così forti che non riesco letteralmente a muovermi». Una situazione che le rende quasi impossibile lavorare: “Prima della COVID, Laurie era la direttrice infermieristica di un'agenzia di assistenza sanitaria a domicilio, ma non lavora da gennaio. Dopo aver esaurito il suo tempo libero retribuito, è stata licenziata”. 

Si tratta di un caso grave, ma non unico, continua l’articolo: secondo una stima fornita dal dottor Greg Vanichkachorn, che insieme al suo team presso la Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota, sta studiando la sindrome post-COVID, ci sarebbero all’incirca «1,3 milioni di americani senza lavoro in questo momento a causa dei sintomi legati alla Long COVID». La scorsa estate, il governo federale degli Stati Uniti ha deciso che questa sindrome può essere riconosciuta come una disabilità e per questo motivo, pur tra difficoltà burocratiche, i pazienti affetti possono richiedere un’assistenza finanziaria. A livello globale non esiste una stima ufficiale di quante persone ne soffrano. Secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), tra il 10% e 20% dei pazienti affetti da COVID-19 manifesta sintomi persistenti per settimane o mesi dopo un’infezione acuta da SARS-CoV-2. Un recente studio dell'Università di Oxford suggerisce che questa percentuale potrebbe essere ancora più alta, oltre il 30%. E una revisione sistematica di 57 studi condotti in tutto il mondo, pubblicata a ottobre, ha rilevato che più della metà delle persone che avevano avuto sintomi di Covid, sei mesi dopo aveva ancora problemi di salute.    

Su Valigia Blu, ad agosto 2020, pochi mesi dopo lo scoppio della pandemia di COVID-19, avevamo analizzato come la malattia provocata dal nuovo coronavirus Sars-CoV-2 fosse molto complessa, riportando svariate analisi di storie di pazienti che stavano soffrendo di questi disturbi, con tempi di recupero molto lenti: “Latyh Hishmeh è solo una delle delle tante persone che hanno avuto sintomi cosiddetti lievi o simil-influenzali e non sono mai finite in ospedale, hanno sviluppato più sintomi della malattia ma non hanno mai fatto il tampone o che, pur non avendo più una carica virale, continuano nel tempo a manifestare disturbi come pesantezza toracica, mancanza di respiro, dolori muscolari, palpitazioni e affaticamento. Sintomi persistenti, mai passati e classificati sotto la categoria di ‘forma lieve di COVID-19’, o insorti dopo che era stato testato che l’infezione non era più attiva”. «Le persone sono bloccate a letto e non sono in grado di andare a lavorare o prendersi cura dei propri figli», aveva detto all’epoca Timothy Nicholson, neuropsichiatra del King's College di Londra, che stava studiando il fenomeno dopo aver sofferto lui stesso dei sintomi della COVID a lungo termine.

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Oltre un anno dopo, il percorso per un riconoscimento scientifico della “sindrome post-COVID” ha visto svolgersi “lotte” tra gruppi organizzati di persone che soffrono di gravi disturbi diverso tempo dopo l’infezione da nuovo coronavirus e una parte dei medici, scettici sul rapporto causa-effetto tra questi sintomi debilitanti e la COVID-19, racconta Dhruv Khullar, medico e ricercatore, sul New Yorker. “Definire una nuova malattia è un compito complesso, pieno di rischi – scrive Khullar –. Alcuni medici ritengono che la gravità e la portata della condizione siano esagerate. In un recente articolo pubblicato su STAT, Adam Gaffney, medico di terapia intensiva, ha scritto che dobbiamo ‘iniziare a pensare in modo più critico e a parlare in modo più cauto del Long COVID’, sostenendo che la narrazione sugli effetti a lungo termine dell'infezione da COVID-19 precede le prove. Un recente editoriale sul Wall Street Journal dello psichiatra Jeremy Devine ha suggerito che molti sintomi del Long COVID potrebbero essere ‘generati psicologicamente o causati da una malattia fisica non correlata alla precedente infezione’”. In alcuni casi si sono verificate anche situazioni di totale negazione, in cui i pazienti che affermano di star ancora male mesi dopo l’infezione da nuovo coronavirus non vengono creduti da alcuni medici. E questo è successo anche quando i pazienti erano a loro volta dei medici, racconta il divulgatore scientifico Ed Yong su The Atlantic: “Ho intervistato più di una dozzina di professionisti della salute degli Stati Uniti e del Regno Unito con il Long COVID. Quasi tutti mi hanno detto che erano scioccati da come erano stati liquidati velocemente dai loro colleghi”.

Sentita da Valigia Blu, Marta Esperti, dottoranda alla Sorbona di Parigi e portavoce del movimento e associazione #LONGCOVID Italia, ha raccontato la difficoltà dei pazienti affetti da Long COVID nel trovare aiuto e assistenza in tempi rapidi: «La mia è stata una corsa ad ostacoli. Ho consultato tra Italia e Francia oltre una decina di medici prima di trovare una diagnosi. Quello che mi ha aiutato davvero è stato uno pneumologo che mi ha fatto fare un esame rivoluzionario, che è stata una scoperta proprio scientifica. Mi ha fatto fare un esame molto particolare che si fa ai malati di cancro, che è la tomoscintigrafia polmonare. Non me l’ha fatta fare perché sospettava un cancro, ma perché sospettava che ci fossero dei problemi nei miei polmoni, invisibili alla normale TAC. Ed è stato così: è uscito fuori che tutto il polmone destro e parte del polmone sinistro avevano coaguli di sangue per cui il sangue non circolava a livello microvascolare. Il tessuto si stava cicatrizzando, io avevo i sintomi di una trombosi venosa profonda, una cosa che può ucciderti. E non ho avuto una forma di COVID che necessitasse di ossigeno».

La COVID-19, spiega ancora Esperti, fa danni nel microcircolo e per rilevarli ci vogliono esami specialistici, costosi e non accessibili a tutti: «I danni al cuore riesci a vederli con la risonanza magnetica, l’elettrocardiogramma – che di solito è sufficiente – non rileva nulla. I danni ai polmoni e al cervello li cogli con questi esami specialistici di medicina nucleare». «Il problema che vorrei sottolineare – continua Esperti – è che ho avuto fortuna e ho insistito tanto per trovare dei medici che mi aiutassero, ci ho messo più di un anno. Mentre alcuni pazienti: non sanno nemmeno quanto è grave la loro condizione perché non se ne parla pubblicamente e spesso non sanno che esiste il Long COVID e cos’è il Long COVID e anche se lo sanno, non hanno molta possibilità di trovare medici che li aiutano come ci sono riuscita io. Bisogna avere molta determinazione psicologica, molte risorse». In un rapporto intitolato “Indicazioni ad interim sui principi di gestione del Long-COVID” e pubblicato questa estate, l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) spiegava che vista l'ampia diffusione della pandemia, "la persistenza di sintomi significativi, anche se riguardante solo una parte dei soggetti affetti da COVID-19, acquisisce una grande rilevanza di salute pubblica in termini di numero di malati e della loro presa in carico".

È dunque in corso la necessaria ricerca scientifica sulla sindrome post-COVID anche per evitare queste problematiche: “Le scuole di medicina negli Stati Uniti studiano da tempo la COVID e sono stati pubblicati centinaia di articoli che cercano di definire la sindrome. Il Congresso statunitense ha autorizzato più di un miliardo di dollari per la ricerca sulle conseguenze del Long COVID; Francis Collins, il direttore del National Institutes of Health, ha annunciato uno studio sulla sindrome su larga scala da 470milioni di dollari”, si legge sempre sul New Yorker. Lo scorso settembre Collins ha affermato: «Sappiamo che alcune persone hanno visto le loro vite completamente sconvolte dai principali effetti a lungo termine della COVID-19. Questi studi mireranno a determinare la causa e a trovare le risposte tanto necessarie per prevenire questa condizione spesso debilitante e aiutare coloro che ne soffrono a guarire».

La ricerca sulla “sindrome post-Covid” è tanto urgente quanto molto impegnativa, scrive su Wired Maryn McKenna, giornalista esperta di medicina e salute: “Nessuno è stato ancora in grado di determinarne la causa, al di là dell'associazione che si verifica in persone che hanno avuto la COVID o che pensano di essere state infettate ma non sono stati in grado di ottenere un test per dimostrarlo. Questo rende difficile capire e quindi prevedere chi è vulnerabile: perché un paziente sviluppa sintomi duraturi e un altro no”. 

La giornalista spiega inoltre che un nuovo studio pubblicato a novembre su JAMA Internal Medicine che prende in esame 26.283 pazienti francesi ha complicato ulteriormente le analisi scientifiche sulla sindrome. Nelle conclusioni di questa analisi si legge infatti che i risultati “suggeriscono che i sintomi fisici persistenti dopo l'infezione da COVID-19 possono essere associati più alla convinzione di essere stati infettati da SARS-CoV-2 che all'avere avuto un’infezione da COVID-19 confermata in laboratorio. Ulteriori ricerche in questo settore dovrebbero considerare i meccanismi sottostanti che potrebbero non essere specifici del virus SARS-CoV-2. Potrebbe essere necessaria una valutazione medica di questi pazienti per prevenire i sintomi dovuti a un'altra malattia erroneamente attribuita al Long COVID”. Gli autori precisano che “sebbene il nostro studio non possa fornire indicazioni sull’associazione tra credenza e sintomi, i risultati suggeriscono che ulteriori ricerche sui sintomi fisici persistenti dopo l'infezione da COVID-19 dovrebbero considerare anche meccanismi che potrebbero non essere specifici del virus SARS-CoV-2”. McKenna precisa che questo studio non ribalta la ricerca sul Long COVID, ma “sottolinea la difficoltà di costruire un programma di ricerca per una sindrome così nuova, multiforme e diffusa” che non colpisce sempre allo stesso modo, ma si può manifestare con modalità differenti. Ad esempio, evidenzia ancora l’articolo di Wired, esiste la possibilità sempre da indagare che il Long COVID potrebbe non essere una sola sindrome, ma invece delle sindromi multiple per le quali l'unico elemento in comune è l'infezione iniziale. 

In un editoriale pubblicato recentemente su The Lancet, si legge infatti che il Long COVID è una moderna sfida medica di importanza primaria: “Come distinguere questa sindrome da altre post-virali? Non esistono chiare caratteristiche biochimiche o radiologiche per aiutare la diagnosi, e ci sono potenzialmente diversi fenotipi con presentazioni, prognosi ed esiti differenti. Senza trattamenti comprovati o nemmeno una guida riabilitativa, il Long COVID influisce sulla capacità delle persone di riprendere una vita normale e sulla loro capacità di lavorare. L'effetto sulla società, a causa dell'aumento del carico sanitario e delle perdite economiche e di produttività, è sostanziale. (...) Rispondere a queste domande di ricerca fornendo assistenza compassionevole e multidisciplinare richiederà tutta l'ingegnosità scientifica e medica. Si tratta di una sfida che l'intera comunità scientifica deve raccogliere”.

Più di un anno fa, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, al termine di un incontro con il gruppo “Long COVID SOS” (che rappresenta i pazienti con questa sindrome), aveva annunciato l’impegno a lavorare con i paesi per assicurare a queste persone i servizi richiesti: “Riconoscimento della malattia, servizi di riabilitazione appropriati e ulteriori ricerche sugli effetti a lungo termine della COVID-19”.

A inizio ottobre 2021, l’OMS ha pubblicato una definizione di caso clinico della sindrome post-Covid, elaborata tramite il lavoro del personale dell’agenzia delle Nazioni Unite, esperti esterni, pazienti e pazienti-ricercatori:

La condizione post COVID-19 si verifica in individui con una storia di infezione da Sars-CoV-2 probabile o confermata, di solito 3 mesi dall'insorgenza della malattia con sintomi che durano almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa. I sintomi comuni includono affaticamento, mancanza di respiro, disfunzione cognitiva ma anche altri e generalmente hanno un impatto sul funzionamento quotidiano. I sintomi possono essere di nuova insorgenza dopo il recupero iniziale da un forma acuta di COVID-19 o persistere dall’inizio. I sintomi possono anche variare nel tempo. Una definizione differente può essere applicata ai bambini.

Nel suo rapporto in cui spiega come si è arrivati a questa definizione, l’OMS precisa anche che potrà cambiare “man mano che emergono nuove prove, con la nostra comprensione delle conseguenze della COVID-19 che continua a perfezionarsi”. Intanto, ha dichiarato l’agenzia dell’ONU "questa definizione di caso clinico standardizzata aiuterà i medici a identificare più facilmente i pazienti affetti e a fornire loro le cure appropriate” e sarà fondamentale “per far progredire il suo riconoscimento e la ricerca". 

Questa definizione di caso clinico, che come abbiamo visto può essere aggiornata nel tempo, ha ricevuto però delle critiche. Ziyad Al-Aly, medico e ricercatore che studia la sindrome post-Covid, ha scritto sul Guardian che tale definizione è “miope” perché non riconoscerebbe “l'ampiezza della disabilità e delle malattie causate dal Long COVID e le sue implicazioni a lungo termine sulla qualità della vita e sull'aspettativa di vita”: “[Il lavoro dell'OMS] si basa esclusivamente sulla sintomatologia, ignorando molte delle manifestazioni cliniche di lunga durata causate dalla COVID-19, tra cui il diabete di nuova insorgenza, malattie cardiache, malattie renali”. Secondo Al-Aly, così, la limitatezza della definizione del caso clinico di questa sindrome, “ci lascerà ancora una volta impreparati ad affrontare gli enormi postumi della COVID-19”.

Il Long COVID non colpisce solo gli adulti, ma si sviluppa anche nei ragazzi e nei bambini, costringendo i ricercatori a riconsiderare il costo della pandemia per i più giovani, ha raccontato a luglio Dyani Lewis su Nature: “Il pediatra Danilo Buonsenso, del Policlinico Gemelli di Roma, ha guidato il primo tentativo di quantificare il Long COVID nei bambini. Lui e i suoi colleghi hanno intervistato 129 bambini di età compresa tra 6 e 16 anni, a cui era stato diagnosticata la COVID-19 tra marzo e novembre 2020. A gennaio, hanno riportato in un preprint (cioè la versione preliminare di un articolo scientifico, non ancora sottoposta a revisione paritaria) più di un terzo aveva uno o due sintomi persistenti quattro mesi o più dopo l'infezione, e un altro quarto aveva tre o più sintomi. (...) Anche i bambini che avevano avuto lievi sintomi iniziali, o erano asintomatici, non sono stati risparmiati da questi effetti di lunga durata, dice Buonsenso. Anche i dati rilasciati dall'Office of National Statistics (ONS) del Regno Unito a febbraio e aggiornati ad aprile hanno suscitato preoccupazione. Hanno mostrato che il 9,8% dei bambini di età compresa tra 2 e 11 anni e il 13% di età compresa tra 12 e 16 anni ha riportato almeno un sintomo persistente cinque settimane dopo una diagnosi positiva. Un altro rapporto pubblicato ad aprile ha rilevato che un quarto dei bambini intervistati dopo la dimissione dall'ospedale in Russia dopo la COVID-19, ha avuto sintomi più di cinque mesi dopo”. In un'audizione al Congresso dello scorso aprile, il dottor Francis Collins, direttore del National Institutes of Health, ha citato uno studio che suggerisce che tra l'11% e il 15% dei giovani infetti potrebbe "affrontare questa conseguenza a lungo termine, che può essere piuttosto devastante ad esempio per il rendimento scolastico”.

Queste percentuali sono più basse rispetto a quelle degli adulti, ma fanno comunque scattare campanelli di allarme perché una forma grave di COVID-19 nei bambini è molto più rara che negli adulti, facendo presumere quindi che la maggior parte dei bambini fosse stata risparmiata dagli impatti del Long COVID, afferma sempre a Nature Jakob Armann, pediatra presso l'Università della Tecnologia di Dresda, in Germania. Secondo uno studio condotto da Arman insieme ad altri colleghi, comunque, i numeri sulla sindrome post-COVID sui più giovani sarebbero inferiori rispetto a quelli citati in precedenza, che però sarà importante “determinare per quanto tempo la condizione dura nei ragazzi perché mal di testa o problemi a dormire per soli 6 mesi sono un problema molto diverso dall'avere questi sintomi per tutta la vita, anche se si verificano solo per l'1%”. Secondo uno revisione condotta dal Murdoch Children's Research Institute (MCRI) in Australia che comprendeva 14 studi che avevano coinvolto 19.426 bambini e adolescenti, i sintomi del Long COVID raramente durano più di 12 settimane nei più giovani. Gli stessi autori della revisione specificano però che quasi tutti gli studi analizzati avevano limitazioni significative, evidenziando la necessità di nuovi studi. A oggi le stime dell’impatto del Long COVID (e la possibile durata sui minori) variano e presentano ancora diverse difficoltà e limiti. In una recente intervista di inizio novembre, Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Humanitas di Rozzano, ha dichiarato «che la stima che giudico più affidabile è che [il Long COVID] colpisce 1 bambino su 7 contagiati dalla COVID-19, a 15 settimane dalla guarigione», aggiungendo anche che questa sindrome «si possa prevenire con il vaccino».

Come spiega infatti Heidi Ledford sempre su Nature, i vaccini abbassano in generale il rischio del Long COVID, riducendo in primo luogo le possibilità di infettarsi e ammalarsi di COVID-19. Tuttavia, continua la giornalista scientifica, in coloro che risultano positivi al virus dopo essere stati vaccinati, i primi studi “suggeriscono che la vaccinazione potrebbe solo dimezzare il rischio di Long COVID o non avere alcun effetto su di esso”. 

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Determinare il rischio da Long COVID nelle persone vaccinate e infette è ancora problematico: «Molte persone con infezioni lievi o asintomatiche potrebbero non essere testate», afferma l'immunologo Petter Brodin del Karolinska Institute di Stoccolma. «Fare qualsiasi tipo di valutazione di quante persone sviluppano sintomi a lungo termine dopo essere state vaccinate sarà incredibilmente difficile». Anche su questo aspetto, dunque, le conoscenze finora disponibili sono limitate e non permettono di fornire un quadro chiaro. Con il tempo, mentre i paesi continuano a vaccinare (anche con le dosi di richiamo) e vengono distribuite risorse per la ricerca sulla sindrome post-COVID, arriveranno più dati e i ricercatori avranno conoscenze migliori su come i vaccini e le varianti del virus influenzano i tassi e la gravità del Long COVID.

In sintesi, il Long COVID è una sindrome, spesso debilitante, che colpisce parte dei pazienti, anche più giovani, che sono risultati positivi al nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e si sono ammalati di COVID-19. Non esistono ancora dati precisi su quanti persone nel mondo ne soffrano. La ricerca scientifica è al lavoro per studiare e aiutare a definire nel migliore di modi la sindrome da post COVID. Si tratta di una sfida di primaria importanza che la comunità scientifica deve raccogliere per prevenire questa condizione e aiutare coloro che ne soffrono a guarire.

Foto in anteprima via Pixabay.com

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