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Il nuovo arresto della Nobel Narges Mohammadi e le donne ancora in prima linea in un Iran in bilico

13 Dicembre 2025 10 min lettura

Il nuovo arresto della Nobel Narges Mohammadi e le donne ancora in prima linea in un Iran in bilico

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La Premio Nobel Narges Mohammadi, in libertà provvisoria da circa un anno per ragioni di salute, è stata arrestata ieri a Mashad, in Iran, dove partecipava a una cerimonia per il settimo giorno dalla morte di un noto avvocato per i diritti umani, Khosro Alikordi. Non è chiaro se questo nuovo arresto dell’attivista iraniana - che ne ha già subiti una dozzina negli anni passati, collezionando cinque condanne per oltre 30 anni di reclusione – comporterà un suo rientro definitivo in carcere. Del resto, sia dalle celle di Evin sia in questi ultimi mesi di libertà, Narges Mohammadi aveva continuato a rendere noto pubblicamente il suo pensiero contro la pena di morte e per i diritti umani, e ultimamente – come vedremo più avanti– anche contro la guerra lanciata da Israele verso il suo paese. 

Quanto alle circostanze di quest’ultimo arresto, a renderle note è in particolare la fondazione a lei intitolata, la Narges Foundation: secondo fonti verificate, sarebbe stata “violentemente arrestata”, e con lei almeno otto altri attivisti come Sepideh Gholian, Pouran Nazemi e Akbar Amini. Tutti partecipavano alla cerimonia per l’avvocato Alikhordi, morto nel suo ufficio in circostanze che alcuni ritengono poco chiare: precedentemente, riferisce Iranwire, il legale aveva scritto ad una commissione Onu  denunciando di essere stato oggetto di cinque diverse inchieste e di aver ricevuto minacce da agenzie governative, chiedendo sostegno e protezione. 

L’arresto di Narges Mohammadi arriva in un momento di profonde e laceranti tensioni all’interno della Repubblica Islamica, a poco meno di sei mesi dal fragile cessate il fuoco seguiti alla guerra dei Dodici giorni di Israele e nel pieno di una seria crisi economica, aggravata dal recente ripristino delle sanzioni Onu e dallo stallo dei negoziati con gli Usa sul suo programma  nucleare. 

La maratona delle donne senza velo 

L’ultima grana era scoppiata sull’isola di Kish nel Golfo Persico, zona franca per il commercio nonché paradiso delle vacanze e degli sport acquatici, dove i turisti stranieri possono accedere anche senza visto. In almeno 5.000 avevano infatti partecipato alla maratona di venerdì 5 dicembre, in un evento accompagnato – testimoniavano i social – da musica da discoteca all’aperto e da un clima festoso nelle strade.

Un grande successo, insomma: peccato che a rovinarlo, per le autorità della Repubblica Islamica, fossero state le tante, troppe donne che correvano la maratona senza velo e le altre che, capelli al vento, si divertivano e ballavano nei luoghi pubblici. A pagare con l’arresto sono stati due degli organizzatori: un funzionario dell’organizzazione statale della zona franca e un rappresentante di una società privata. A carico di entrambi la responsabilità di non aver fatto rispettare l’obbligo del velo, tassativo in Iran anche negli eventi sportivi ma che molte donne di ogni età, e di diverso ordine e grado della scala sociale, continuano a trasgredire da oltre tre anni: da quando cioè la morte della giovane Jina Mahsa Amini il 22 settembre 2022, dopo l’arresto da parte della polizia morale, ha scatenato nelle strade del paese il movimento Donna Vita Libertà, allora represso nel sangue ma ancora vivo e indomito nella prassi quotidiana. 

La Repubblica Islamica ha dunque scelto un atto repressivo – in realtà non il peggiore possibile, nella sua politica ondivaga tra nuove norme intransigenti congelate su richiesta del governo e prassi imprevedibili ma spesso più tolleranti - per rispondere all’ennesimo segnale del fatto che i costumi sociali stanno loro sfuggendo di mano. Ma è come svuotare il mare con un bicchiere. 

La società iraniana, e in particolare i suoi giovani, non ne vogliono più sapere delle anacronistiche regole imposte da quel gruppo di ormai anziani ayatollah che, sotto la guida dell’Imam Khomeini, nel febbraio 1979 presero in mano le redini del Paese dopo che un composito movimento rivoluzionario riuscì a scalzare dal trono lo scià Mohammad Reza Pahlavi. Tanto che anche in questo caso è riemersa la frattura che divide da una parte la linea dura conservatrice, incarnata dalla magistratura, dall’altra il governo del presidente Mahmoud Pezeskhian, apertamente contrario ad un approccio repressivo. 

La maratona di Kish – uno degli eventi sportivi più popolari, che si corre su tre diverse distanze con donne e uomini divisi – è infatti caduta in un momento in cui si era appena riaperta la frattura interna ai gruppi dirigenti sull’obbligo del velo. Da una parte il capo della magistratura, Gholamhossein Mohseni Ejei, che spinge di nuovo per misure dure contro i trasgressori, mentre la Guida Ali Khamenei è tornato a criticare l’influenza culturale dell’Occidente; dall’altra Peseshkian che dichiara, il 7 dicembre, cha la questione del velo non può essere risolta con la forza ma deve essere affrontata “attraverso la persuasione”. 

Il velo in Iran fa sempre notizia, ma cela molto di più 

La maratona di Kish si è rivelata perfetta per diventare da noi un caso mediatico: la parola “velo” associato all’Iran risveglia subito l’interesse dei nostri media come per riflesso pavloviano, quasi che meritasse un’ossessiva copertura solo quando riguarda la Repubblica Islamica, e non le decine di altri paesi a maggioranza musulmana dove fa ugualmente parte, con diverse declinazioni, dell’abbigliamento femminile. E quasi che quel grande paese da 90 milioni di abitanti - un mosaico di diversità etniche, politiche e culturali e un unicum politico e istituzionale, nel suo difficile bilanciamento tra componenti teocratiche e democratiche – meritasse di essere raccontato solo quando la forza delle sue donne torna a far emergere tale irrisolta questione. La quale merita puntuale attenzione sì, ma non certo perché confermi il trito stereotipo con cui rappresentare l’oppressione delle donne da parte della Repubblica Islamica - oppressione dalla quale del resto le iraniane, visto anche quel generalmente alto livello di istruzione che non è mai stato loro negato, mostrano sempre di avere la determinazione di combattere. 

L’obbligo del velo rappresenta, e in questi ultimi tre anni più che mai, quasi un paradigma delle contraddizioni ben più vaste da cui il sistema politico e la società iraniana sono lacerati. Tanto che nel rifiuto sempre più diffuso dell’obbligo di coprirsi i capelli, e di nascondere il proprio corpo sotto abiti larghi e castigati, vi è il segnale di un desiderio di cambiamento diffuso ormai tra tutti gli strati sociali, e che si alimenta di ben altro che della sola insofferenza contro norme bacchettone. 

Mentre tutti temono il lancio di una nuova guerra da parte di Israele – dopo quella dei Dodici giorni dello scorso giugno, che né l’incessante diplomazia pur condotta da Teheran né decenni di investimenti nella difesa sono riusciti ad evitare - restano infatti irrisolti i problemi primariamente economici che mettono in ginocchio le famiglie, e si stringe la vite delle politiche repressive contro dissenso e opposizione – come dimostra anche quest’ultimo arresto di Narges Mohammadi. Rivelando l’esacerbarsi di una crisi interna che fa da contrappunto alle sempre maggiori difficoltà in cui la seconda amministrazione Trump, e il suo alleato israeliano, hanno posto la Repubblica Islamica rispetto al proprio ruolo di attore imprescindibile nella geopolitica mediorientale degli ultimi decenni. 

La Nobel Mohammadi: l’Iran è in guerra con il suo popolo

Ma ripartiamo proprio dalla Premio Nobel Mohammadi, e dalla recente guerra di Israele contro l’Iran, per parlare dello stato attuale del paese. Riprendendo un suo intervento di qualche giorno fa sul Time - “Anche quando non cadono bombe – scriveva l’attivista per i diritti umani -, il popolo iraniano non sperimenta quella che può essere veramente definita pace, poiché vive sotto uno Stato che controlla ogni aspetto della sua vita personale e pubblica. La sua pace è turbata da sorveglianza, censura, arresti arbitrari, torture e dalla costante minaccia di violenza. È erosa da un'economia sprofondata nella corruzione e nella cattiva gestione, dalla pressione delle sanzioni, dall'ansia quotidiana di inflazione, scarsità e disoccupazione e dall'incessante distruzione dell'ambiente”. Dopo la guerra dei 12 giorni, insomma, “il popolo iraniano si è trovato intrappolato nel crocevia tra la guerra del regime contro il proprio popolo e la guerra tra i governi di Israele e della Repubblica Islamica”.  

Mohammadi ricordava poi un appello lanciato nel luglio scorso da un gruppo di attivisti iraniani, intitolato “No alla guerra e no alla tirannia”. Vi si chiedeva “un governo laico e democratico che rappresenti realmente il popolo iraniano, un referendum libero ed equo sotto la supervisione internazionale delle Nazioni Unite e la stesura di un nuovo quadro costituzionale da parte di un'assemblea costituente eletta”. Una transizione pacifica, insomma. 

“La loro posizione unitaria – scrive ancora Mohammadi - ha dimostrato che un ampio movimento nazionale collettivo, radicato nella società civile, nei diritti umani e delle donne e nelle diverse tradizioni democratiche dell'Iran, ha la capacità di guidare il paese verso una trasformazione storica”. 

Nella consapevolezza che “qualsiasi cosa di meno – collasso, caos o conflitto armato – metterebbe a rischio milioni di persone in una regione già fragile”. In un momento storico in cui i principi del diritto e della giustizia sono ignorati e disprezzati dai nuovi autoritarismi patrocinanti da Trump e dall’ultradestra americana, l’appello rilanciato dalla Nobel per la pace iraniana sembra ingenua utopia. Ma forse non è un caso che sia riproposto proprio ora, a sei mesi da quella guerra che si è conclusa con oltre mille morti in Iran – morti di cui poco si è parlato dalle nostre parti – e che aveva come esplicito fine, da parte di Israele, non solo di azzerare il programma nucleare di Teheran, ma anche di provocare un regime change dall’esterno. 

Obiettivi entrambi mancati, e che dunque lasciano molti pensare che potrebbero indurre Israele a riprovarci presto, con un nuovo attacco - come hanno appena confermato anche alcuni analisti israeliani parlando con la stampa straniera. E come sembra enigmaticamente far pensare anche il nostro ex premier Matteo Renzi, che al Parlamento europeo nei giorni scorsi ha dichiarato: “In questo tempo di cambiamenti globali, la pace in Medio Oriente dipende dalla stabilità e dal cambiamento in Iran. Abbiamo visto cosa è accaduto negli ultimi anni con Hezbollah, Hamas, gli Houthi e tutti i gruppi proxy sostenuti dal regime iraniano. Ma ora è il momento di considerare Teheran come la priorità numero uno per il cambiamento”. 

Cosa intende Renzi per “cambiamento”? Forse, appunto, l’auspicato effetto di un nuovo atto di guerra di Israele? Non dovrebbe, un uomo pubblico come il leader di Italia Viva, parlare più chiaro, tanto più se davanti a un’assemblea elettiva europea che ospitava Maryam Rajavi, presidente di un gruppo dell’opposizione iraniana ben identificato e tutt’altro che maggioritariamente rappresentativo come il il National Council of Resistence of Iran

Anche i "rampolli della rivoluzione" chiedono al sistema un passo indietro

Il paese resta intanto in uno stato incerto, non di guerra e non di pace: lo segnalava a settembre la stessa Guida suprema Ali Khamenei, esortando il governo a non rimanerne paralizzato, ma a lavorare invece dando priorità ai problemi economici. E la prospettiva di un’altra guerra – con cui del resto gli iraniani sono abituati a convivere da decenni – è un tema ricorrente nel discorso pubblico. Se ne parla tra la gente, confermano conoscenti dall’Iran, e in molti si aspettano un nuovo conflitto, dato che non c'è alcun segno di compromesso con l'Occidente. Ne parlano funzionari e militari, assicurando una pronta risposta in caso di un nuovo attacco e così confermando indirettamente che lo ritengono probabile. Ne parlano riformisti e moderati come l’ex presidente Hassan Rouhani - il fautore dell’accordo sul nucleare del 2015 poi tradito dalla prima amministrazione Trump - sostenendo che l’Iran dovrebbe derogare ad alcune sue condizioni, con una diplomazia più realistica, per prevenirla. Ne parlano figli e nipoti di figure illustri della Repubblica Islamica, che il Financial Times definisce in un recente articolo “i rampolli della rivoluzione”, notando anche come sia “solida” la  “cultura di protesta e dissenso che esiste in Iran, nonostante la sua struttura autoritaria”. 

“Credo che dobbiamo prima ristabilire le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, poi negoziare sulle nostre divergenze e perseguire i nostri interessi nazionali, proprio come qualsiasi altro paese”, ha detto per esempio Faezeh Hashemi, figlia del defunto ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, alla quale non è stato risparmiato il carcere della Repubblica Islamica di cui il padre è stato uno dei fondatori. Idealmente, a suo avviso, “l'Iran dovrebbe orientarsi verso un sistema laico. Ma anche se ciò non è attualmente realizzabile, dobbiamo comunque compiere passi significativi verso un cambiamento sostanziale”.  

Insomma, nonostante la repressione interna si sia inasprita anche per effetto della guerra, il dibattito su come il sistema nato nel 1979 debba cambiare, di fronte alle trasformazioni sociali interne come ai nuovi contesti internazionali, è tutt’altro che un tabù. 

L’economia in emergenza, e sono gli iraniani a pagare

Nel frattempo però il paese fronteggia una gravissima crisi economica, accompagnata da una scarsità delle risorse idriche divenuta un’emergenza strutturale. “L'Iran sta entrando in uno dei periodi economici più volatili degli ultimi anni  – si legge in un dettagliato articolo sul sito del National Iranian American Council –  con prezzi record del dollaro, dell'oro e delle monete che si scontrano con una nuova, brusca impennata dell'inflazione, aggravando le disuguaglianze sociali ed esponendo profonde vulnerabilità strutturali del sistema finanziario del paese”. 

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A inizio mese il dollaro ha stabilito il suo nuovo massimo, e così il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza. Sviluppi dovuti a “un contesto economico in rapido deterioramento, plasmato da sanzioni, conflitti geopolitici, cattiva gestione fiscale e inflazione in accelerazione”. Sono i prezzi alimentari a correre di più, con un aumento medio del 66%, un raddoppio del costo della frutta e un aumento di tre volte di quello del riso. Alti tassi di inflazione che durano da anni, e ricadono soprattutto sulle famiglie a basso reddito. Quanto al nuovo rialzo del dollaro, si ritiene sia trainato dalle rinnovate tensioni sul programma nucleare iraniano e dall'attivazione del meccanismo di snapback delle Nazioni Unite, che – con un ruolo attivo dei tre Paesi europei partner del già citato accordo del 2015 - ha ripristinato le sanzioni multilaterali. 

Tutto questo concorre ad aumentare il senso di incertezza con cui convivono da sempre gli iraniani, ma che la recente esperienza di una seconda guerra in 45 anni (dopo quella con l’Iraq degli anni Ottanta) ha ulteriormente esasperato. E’ molto probabile che, nel prossimo futuro, sentiremo di altri clamorosi arresti e di altre donne correre maratone o compiere simili imprese senza velo. Ma non si può comprendere la vera portata di quei coraggiosi gesti di libertà senza collocarli nel contesto di un Paese in profonda trasformazione sì, ma anche pericolosamente in bilico. E il cui futuro dipende anche dalla politica estera dei nostri governi.

 

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