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L’infanticidio di Varese: quando la legge diventa un’arma in mano a uomini violenti

8 Gennaio 2022 11 min lettura

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L’infanticidio di Varese: quando la legge diventa un’arma in mano a uomini violenti

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“Mi hai rovinato la vita, il bambino è al sicuro, ti ho aggredita per punirti”. Come riportato tra gli altri dal Messaggero, sono queste le tre frasi che Davide Paitoni, un uomo di 40 anni della provincia di Varese, registra alla ex moglie in un messaggio vocale, mentre tenta di sparire dalla circolazione. L’uomo sta mentendo, il bambino, suo figlio, non è al sicuro. Il piccolo Daniele di 7 anni è già senza vita, il corpo giace in un armadio della casa di Morazzone. Secondo le prime ricostruzioni il primo gennaio, mentre tutti celebrano l’anno nuovo, l’uomo si sarebbe avventato sul piccolo in quella stessa casa, e si sarebbe poi spostato in un altro paese, dimora della ex moglie, per aggredire furiosamente anche lei. La donna è arrivata al pronto soccorso di Varese con ferite per fortuna curabili. Paitoni, invece, è stato raggiunto e arrestato dalle forze dell’ordine mentre fuggiva verso la Svizzera.

Sul corpo del bambino viene rinvenuta una lettera scritta dall’uomo; contiene altre parole di rabbia e vendetta: "So che non sarò perdonato, ma l'ho fatto per vendicarmi di quella donna che mi ha tradito", si rivolge all’anziano padre con cui convive, confessa candidamente anche l'intenzione di uccidere la ex moglie e poi sé stesso, per "raggiungere la mamma in cielo”. Il suicidio, in seguito, verrà considerato un tentativo di depistaggio prima della fuga.

In questa storia c’è molto buio, ma i protagonisti non sono mostri o creature aliene, sono i nostri vicini di casa.

Nessuno sa niente

Davide Paitoni era noto alla giustizia. L’uccisione del figlio avviene nell’abitazione in cui l’uomo si trovava agli arresti domiciliari con l’accusa di tentato omicidio. Una lite sul posto di lavoro per motivi mai chiariti, finita con due coltellate alla schiena di un collega inferte con un taglierino.

Anche se sotto gli occhi di tutti, le manifestazioni di violenza di Davide Paitoni, passano inosservate. Le dichiarazioni del sindaco di Morazzone dopo i fatti di Capodanno sono all’insegna dello stupore: "Ci sono poche parole, siamo costernati anche perché è un omicidio efferato e proprio non so cosa sia scattato nella testa dell'uomo, ai domiciliari in casa a Morazzone". Il primo cittadino continua: “Con la moglie era in fase di separazione, ma non abbiamo mai avuto problemi o sentori di questa tragedia immane”.

Anche il suo legale fa intendere che fosse all’oscuro dell’ossessione dell’uomo per la ex moglie e dichiara: "L’ho trovato come annichilito, non proprio catatonico ma biascicava le parole, come se si stesse lentamente risvegliando da un incubo". Un incubo, come a dire che sicuramente non stiamo parlando di una realtà possibile o prevedibile. O di qualcosa che non può accadere a una persona lucida.

I vicini, intervistati da una tv locale, dichiarano di non avere nessuna idea della vita condotta dall’uomo, né che fosse agli arresti domiciliari in casa del padre. In generale, dalle interviste sembra che tutti conducano delle vite molto isolate, giusto qualche saluto di cortesia durante incontri più che casuali.

Giudice delle indagini preliminari e Pubblico ministero sono nel mezzo di una bufera mediatica. La principale preoccupazione del Tribunale di Varese al momento sembra essere quella di motivare la giustezza nella decisione di permettere gli incontri padre/figlio, ora che è partita la richiesta di accertamenti dalla ministra della Giustizia per vederci chiaro e valutare eventuali responsabilità dei magistrati che hanno seguito il caso.

Le denunce

Nessuno insomma sembra prendersi la minima responsabilità dell’accaduto, nessuno sembra preoccuparsi di quanto dolorose e insultanti possano essere queste prese di distanza per la donna sopravvissuta all’aggressione, il cui nome è oggi su tutti i giornali. Che sensazione insopportabile dovrà essere quella di convivere con la nitida consapevolezza che se qualcuno le avesse prestato solo un po’ dell’attenzione di questi giorni, qualche mese o qualche anno fa, solo un minimo di ascolto, forse suo figlio sarebbe ancora vivo?

Nel 2020 la donna aveva sporto denuncia per maltrattamenti, con tanto di referto medico. Succede una seconda volta, a circa un anno di distanza: la donna sporge di nuovo denuncia e stavolta porta con sé il padre a corroborare la sua testimonianza, oltre a una segnalazione proveniente dai genitori. Ma nulla accade. Quella giustizia cui si era rivolta la costringe invece a lasciare il figlio a Paitroni durante le festività, senza nessuna cautela.

A quanto pare le sorti della donna e del bambino erano in balia dei garbugli di un procedimento legale difficile da decifrare oltre che da comprendere nella sua logica. Per il tribunale le precedenti denunce avrebbero ottenuto in teoria un Codice rosso, ovvero la situazione era come messa in evidenza e i tempi di risposta si sarebbero dovuti accelerare, ma nella pratica nulla si era mosso. Dunque, quando la gip Anna Giorgetti il 29 novembre scorso mette ai domiciliari l’uomo per il tentato omicidio del collega, l’ordinanza che lei firma dichiara: “evidenzia il Pubblico Ministero che Davide Paitoni sarebbe sottoposto ad altri procedimenti per reati anche connotati da violenza (maltrattamenti e lesioni), si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l’indagato e che, dunque, non consentono di trarre elementi di qualsivoglia certezza”.

La gip si trova a giudicare gli atti messi insieme dal pm, le denunce della donna vengono sottovalutate perché non hanno ancora avuto un esito legale. Si prende in considerazione il rischio di inquinamento di prove, non la pericolosità sociale, che secondo la gip il pm non avrebbe evidenziato (tuttavia la procura in una nota ha affermato il contrario). Si decide che dai domiciliari Paitone non può comunicare con l’esterno, ma i suoi legali fanno ricorso il 6 dicembre e la stessa gip concede all’uomo di vedere il figlio per le festività.

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Nonostante ciò, come riportato dall'ANSA, nell'ordinanza di custodia cautelare firmata in questi giorni si legge che "è la madre che porta il figlio dal padre, alle 13 del 1 gennaio", gesto "del tutto incompatibile con qualsiasi allarme che un precedente atteggiamento del padre avrebbe potuto destare nella donna". Ancora una volta dobbiamo assistere al copione di una donna che, nel sopravvivere alla violenza domestica, senza alcun pudore viene additata come in parte responsabile.

La bigenitorialità

La spiegazione sta in un altro incastro perverso. Il bambino era obbligato a vedere il padre perché gli avvocati dei genitori erano tenuti a rispettare un accordo di convenienza, a garantirlo fino allo stremo, ad elevarlo al di sopra di tutto: il principio cosiddetto della bigenitorialità.

La bigenitorialità è stata introdotta nell’ordinamento giuridico italiano nel 2006 con la legge 54, e poi ribadita dalla Corte di Cassazione. Il principio consiste nell’idea che minori di genitori separati abbiano “il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Dunque l’affido condiviso deve sempre essere preferito a quello esclusivo. Il rapporto con i figli deve andare oltre la conflittualità dei genitori, ma la parte problematica si trova proprio in questo punto: la natura di questa conflittualità, i rapporti di potere esistenti tra le parti, la possibile disparità di condizioni materiali non vengono mai presi in considerazione. Si afferma piuttosto una equivalenza assoluta e piuttosto ingenua nella divisione delle responsabilità in situazioni di discordia tra i genitori: le parti che si scontrano sono considerate perfettamente uguali. E in una società in cui abbiamo picchi così alti di violenza maschile, prendere questo punto alla leggera significa di fatto essere complici di possibili manipolazioni del sistema giudiziario.

Non è difficile immaginare come un principio che suona ragionevole in teoria, nella pratica si sia trasformato in uno strumento impugnato spesso da uomini separati come arma ricattatoria contro le ex mogli. La questione va a toccare un campo più ampio e purtroppo preoccupante, in pratica tutta la manosfera ovvero le reti “di comunità maschili online che promuovono credenze antifemministe incolpando le donne e le femministe di tutti i tipi di problemi nella società”. I luoghi digitali in cui si sviluppano anche strumenti legali, dalla presunta sindrome di alienazione parentale (rifiutata fermamente da una recente ordinanza della Cassazione, ma ormai affermatasi in questo immaginario), fino a quella della madre malevola, e cioè il mondo degli uomini separati che fanno lobby, fabbricano patologie e condizioni che fanno presa su una cultura profondamente misogina, nonché sulla solita ignoranza e distrazione generale.

Questi soggetti tendono a guadagnare potere dipingendo le ex mogli come arpie che vogliono soltanto umiliare e separare gli uomini dai figli. Come una versione per padri del movimento Incel, basata sulle stesse convinzioni di un’indole intrinsecamente malvagia delle donne. La questione è abbracciata in maniera spesso ambigua anche dal mondo giuridico, specie da avvocati appartenenti a quel mondo, e richiederebbe molta più formazione e consapevolezza nell’opinione pubblica oltre che indagini approfondite sui danni provocati da questo cosiddetto MRA, Men’s Rights Activism, “attivismo per i diritti degli uomini”, sui giovani. Tutto questo non vuol dire negare la possibilità che esistano madri abusanti, ma che stando alle questioni appena esposte e ai soliti dati statistici, il problema sistemico di cui urge occuparsi è quello della violenza maschile, esercitata anche attraverso la manipolazioni del sistema legale.

I dati appena pubblicati dal Ministero dell’Interno confermano il macabro trend. Nel 2021, rispetto agli anni passati, la media di tutti i crimini e delle uccisioni in Italia è calata di qualche punto percentuale rispetto al 2019, ma in controtendenza abbiamo un aumento dei femminicidi, 116 nel 2021 a fronte dei 110 nel 2019. La maggior parte di questi avvengono nell’ambito cosiddetto “familiare/affettivo”, anche se dovremmo iniziare a rifiutare di definire “famiglia” e “affetto” delle relazioni che contemplano violenza e morte nel loro orizzonte. Immaginiamo di avere uomini uccisi da donne in famiglia con una tale frequenza: avremmo di sicuro la percezione dell’enormità del problema a livello collettivo, ma siamo talmente abituati invece alle uccisioni di donne che nell’immaginario della società sono normalizzati.

In teoria, davanti a situazioni violente anche il principio della bigenitorialità dovrebbe decadere, e non essere più applicabile, ma qui entra in gioco l’estrema difficoltà per molte donne di far passare il messaggio di pericolo, come è evidente nel caso di Varese. L’unica cosa che conta sono gli atti legali, che si muovono molto più lentamente e a compartimenti stagni di quanto ci sarebbe bisogno. Antonella Penati, a un passo dalla laurea in criminologia, è una delle donne che ha subito le tragiche conseguenze della legge sulla bigenitorialità, a sua detta pensata e applicata male. Suo figlio Federico oggi compirebbe 22 anni, ma è stato ammazzato da un padre che aveva preteso di vedere il figlio, che nel 2009 aveva quasi nove anni. Penati attualmente si spende in campagne di sensibilizzazione sulla legge che non funziona ed è anche grazie al suo impegno che oggi la questione si rivela per quella che è. Siamo davanti a un sistema che non solo non è in grado di tutelare le donne e i bambin*, ma va attivamente nella direzione di metterl* in pericolo.

Guardare in faccia il problema

Quella di Varese è l’ennesima vicenda che dimostra la necessità di costruire consapevolezza sulle dinamiche della violenza maschile, e sul fatto che spesso non esista nessuno strumento per difendersi da essa. Pur avendo descritto i termini legali e le condizioni di privazione di libertà previste in questa vicenda, da abolizionista e femminista anticarceraria, sono portata a interrogarmi profondamente sull’efficacia dei provvedimenti presi anche in questo caso, come in tutte le altre storie di violenza. Devo ammettere la fatica di credere che in carcere un Davide Paitoni sia in grado di comprendere le sue azioni, o di prendersene la responsabilità.

Incarcerare persone che si sono macchiate di crimini violenti non migliora la capacità di capire il danno inferto, non cura la loro mancanza di empatia, piuttosto serve a proteggerci temporaneamente dalla loro furia, e spesso a radicalizzarla. Una furia che nel frattempo si aggrava, aumentando la pericolosità sociale. Si tratta di posizioni impopolari, ma in questo percorso assai lungo e tortuoso in cui la violenza maschile nelle società aumenta a vista d’occhio, siamo chiamati a immaginare l’impossibile, o per lo meno a farci delle domande. Serve trovare punti di contatto su cui lavorare insieme anche con chi non abbraccia completamente l’abolizione di carceri e polizia.

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Quando mi ritrovo ad affrontare il tema e a parlare di abolizione e alternative al carcere con le persone, la prima obiezione riguarda sempre, e a ragione, cosa si fa davanti alla violenza maschile. In me queste posizioni convivono senza se e senza ma col rispetto della decisione di ogni donna e persona soggetta alla violenza di genere, di agire come meglio crede davanti ad aggressioni, compreso rivolgersi alla giustizia e alle forze dell’ordine, perché quello è lo stadio terminale della malattia sociale, in cui non c’è più modo di intervenire in un sistema strutturato come il nostro, e alla luce dei pochi strumenti a disposizione per difendersi.

Prendere in carico il problema significa invece insistere sui passaggi precedenti, concentrarsi sulla radice. Se vogliamo davvero che gli uomini smettano di maltrattare le donne, servono risorse e strumenti per intraprendere un lavoro durissimo che comprende innanzitutto percorsi seri di terapia, forse lunghi una vita intera. E poi formazione pratica per gestire la rabbia e capire le ragioni per cui nasce la necessità di sopraffazione e abuso. In sostanza, il problema non va negato e allontanato, ma guardato in faccia per quello che è, anche se può essere profondamente disturbante. Questo è un lavoro che va gestito da persone esperte.

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Come società, e in generale nel vivere comune, i segnali della violenza vanno intercettati nelle comunità molto prima che degenerino in femminicidi e infanticidi. È importante dare ascolto a chi dichiara di essere in pericolo e offrire spazi sicuri. È importante smettere di giustificare il machismo in tutte le manifestazioni, in famiglia, nel privato e in pubblico, leggere i minimi segnali di disagio e ricerca di aiuto; anche perché nel pratico diventa difficilissimo intervenire una volta che le donne sono sprofondate in relazioni violente. Il più piccolo gesto di odio, intolleranza, misoginia deve passare come inammissibile, non deve essere giustificato dall’ambiente circostante, questo è responsabilità di tutte le persone.

Soprattutto gli uomini devono prendersi la responsabilità per il comportamento di altri uomini. È complicato e imbarazzante criticare le battute sessiste di un amico o intervenire se vediamo maltrattate le nostre amiche dai loro partner, ma è esattamente quel lavoro quotidiano che conta, che scongiura lo sviluppo di un ambiente culturale complice.

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Nei media quel lavoro consiste anche nel disertare la narrazione del raptus di follia, dell’uomo, del lavoratore, figlio, fratello, amico modello, del vicino perfetto, educato e insospettabile. Smettere di diffondere foto che ritraggono donne in momenti in cui appaiono felici, abbracciate al proprio assassino, anche questo è importante. Come sottolineato dalla scrittrice Helena Janeczek, questo tipo di messaggio subliminale si è avuto anche con la copertura mediatica dell’infanticidio di Varese, nell’insistere su foto che ritraggono padre e figlio insieme, sorridenti (talvolta senze nemmeno pixelare il volto del bambino). Non è la follia di un momento, non è mai un evento unico che arriva a sorpresa, non è niente di inaspettato. Decidere di togliere la vita alle persone è quasi sempre l’ultimo tassello di un puzzle di abusi e violenze che trionfano in un sistema ben preciso, magari sono andati avanti per decenni, magari restando sempre sottotraccia soltanto perché qualcun altro, una società intera, persino la giustizia di Stato come in questo e tanti altri casi, si è voltata dall’altra parte. La polizia e il carcere intervengono quando il danno è già avvenuto. Offrono una chiusura, quando va bene, in un processo che non serve a evitare altra violenza, al contrario finisce per creare spesso soggetti recidivi, agenti di nuove forme di abuso.

La violenza maschile non si ferma davanti alla minaccia di una incarcerazione, perché il desiderio di sopraffazione che esiste in molti uomini ha radici molto più profonde. Se come società l’unica risposta è rinchiudere persone in una gabbia, se questa è davvero la nostra unica soluzione alla violenza di genere, personalmente lo considero un fallimento, non di certo il rimedio a queste immani tragedie.

Immagine anteprima via La Voce di Venezia

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