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Il ritmo della tecno(crazia)

12 Dicembre 2011 6 min lettura

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Il ritmo della tecno(crazia)

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Non sono più gli ingegneri americani e tedeschi
degli anni ’30.
Quelli con la chiave a stella, per i quali si costruisce la società come
si fa un ponte, con putrelle e fiorghe.
Speer, l’architetto di Hitler, aveva visto giusto. La società
tecnocratica, degli uffici amministrativi nazisti, viene sconfitta per
iperspecializzazione e per invidia.
Gli staff tecnici non si parlano tra loro, gli specialisti di diverse
materie si odiano, i migliori vengono emarginati.
Un essere umano non è un bullone, anche se qualcuno può pensare il
contrario.

Sono arrivati gli accademici, a volte strapagati, come
consulenti, per coprire le incapacità interne dei ministri. Quelli che
hanno studiato. Che non hanno avuto il tempo di frequentare i corsi di
canto e di portamento per fare la modella. Gente che è stata all’estero.
E da lì ha avuto modo di guardare il nostro Paese, senza esserne
immerso. Senza avere interessi elettorali: odiano stringere mani senza
conoscere, promettere senza mantenere.
I tecnocrati. Se prendi 10 e spendi 15 diventerai povero. Lo sanno,
loro.
E adesso non si parla, come sarebbe normale, delle cause delle loro
decisioni emergenziali. Non si pensa a vent’anni di ipocrisia e falsità
da parte di ogni istituzione politica e sociale che ha taciuto sulle
dimensioni del cambiamento dei rapporti di produzione e delle
conseguenze della globalità. I politici e i giornalisti continuavano ad
usare la penna bic, a non saper bene come si usa internet. Intanto il
mondo mutava faccia. Ci hanno guadagnato gli speculatori finanziari.
Quelli che lo sapevano, come si usa internet.

Un Parlamento?
Walter Bagehot,
giornalista ed economista dell’epoca vittoriana, con riferimento alla
Camera dei comuni di metà del XIX secolo, classificava in modo
affascinante le funzioni di un Parlamento democraticamente eletto
(oscillando tra il descrittivo ed il prescrittivo): «il Parlamento deve
eleggere un buon governo, fare buone leggi, educare bene la nazione,
farsi correttamente interprete dei desideri della nazione, portare
compiutamente i problemi all’attenzione del paese». Abbiamo quindi
funzioni: elettorale, legislativa, pedagogica -fondamentale, in
quanto i rappresentanti sono chiamati a incidere e a modificare la
società: anzi, la Camera «deve migliorarla», insegnando «alla nazione
ciò che non sa» – informativa ed espressiva delle opinioni degli
elettori. Il parlamento in questo modo assolve alla sua funzione
fondamentale: controlla il Governo.
Abbiamo avuto un parlamento che
ha funzionato così negli ultimi sei anni? Ogni giorno è giorno di
campagna elettorale. Le notizie, come commentate dai rappresentanti del
popolo, non servono più a informare e a generare comportamenti
consapevoli, ma a scatenare emozioni, come e più di una fiction
televisiva. Il politico non decide più. Evoca, come uno stregone o un
sacerdote tribale. Usa il fatto come simbolo. Lo mistifica ad uso della
propria strategia per l’assunzione di consenso personale. Marine Le Pen,
che sarà candidata alle presidenziali francesi, ha utilizzato uno
spaventoso fatto di cronaca nera, l’uccisione efferata di un’adolescente
da parte di un suo coetaneo, per promuovere il ritorno della pena di
morte nella legislazione.
Populismo senza un popolo, un insieme di cittadini adeguatamente
informato e consapevole delle conseguenze di scelte legislative.
Un cittadino che conosce, che sa e quindi partecipa ad un processo
democratico continuo. C’è, invece, lo stregone della tribù che evoca il
male e, di conseguenza, le soluzioni più semplicistiche ed emozionali
per suscitare l’attenzione ed il consenso del suo pubblico, come un
attore che vuole solo scatenare l’applauso: il cercare e ottenere I like it
dal proprio seguito. Non si hanno più garanzie istituzionali e
procedurali che permettano un controllo effettivo su quello che viene
compiuto dal Governo, ma soltanto colpi di teatro finalizzati
all’applauso. (O al corrispettivo moto d’orrore e di disgusto della
parte avversa).

Questa è la fase attuale, che non poteva non
essere notata da un giurista attento e sensibile come Gustavo
Zagrebelsky, il quale, alla presenza del Presidente della Repubblica,
ha pronunciato in un Convegno della Consulta sulla Costituzione
repubblicana un intervento grave ed importante. In assenza di politica,
di sintesi decisionale, c’è bisogno di una supplenza. Una supplenza che
non determini la fine dei partiti e della democrazia, ma la sua
momentanea convalescenza.
Così si è espresso il giurista di fronte alla
totale mancanza di decisioni che superino l’arco temporale del mese
prossimo: «Poiché è poco probabile che nell’interesse della politica
rientri anche la preoccupazione per le generazioni future, in quanto
prevale un interesse momentaneo, credo che oggi si abbia bisogno di
elementi di tecnocrazia». Di competenza, insomma. Di conoscenza di
procedure, modelli, abilità nell’analisi dei dati, Visione previsionale.
Qualità che la politica, sopratutto nella sua incapacità di formare una
classe dirigente negli ultimi sette anni, ha dimostrato di non
possedere.

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Il paradosso della leadership
I parlamenti non hanno
assolto alle loro funzioni. E allora si è pensato di sostituirli con il
carisma del leader. Un errore grossolano. La democrazia, senza un  parlamento efficace, privata della corretta dinamica istituzionale
elettori - parlamento - governo, si è trasformata in un plebiscito
mediatico quotidiano. Il contatto diretto è tra il capo del Governo ed
il popolo. Che parla, discute, brontola. Opina. Sempre meno per strada,
ma su Facebook, Twitter & Co. E non può funzionare, poiché le
decisioni fondamentali sono globali, influenzano ambiti e settori
diversissimi. Lo Stato non è un’azienda, un’associazione: non sta
vendendo un prodotto. 

Un leader deve avere un rapporto leale con gli
altri organi costituzionali. Deve essere supportato da un Parlamento,
non ricattarlo.
Senza più mediazione politica, i leader occidentali sono diventati, a
loro volta, ostaggio degli interessi particolari. Di holding, certo,
banche, ma anche chiese, associazioni animaliste, gruppi di pressione
relativi alle questioni biologiche. E soprattutto a quelle economiche. Il
risultato? Non è più l’azione del politico a formare un’opinione, a
generare un sondaggio, ma esattamente il contrario.
Non si può dire che l’individuo sia sempre il miglior giudice di quello
che è utile o dannoso per lui. Comportamenti compulsivi, dipendenze,
modelli di proiezione del comportamento sono connaturati alla vita di
tutti i giorni. Diabetici, obesi che continuano ad adorare i dolci.
Alcolisti, tabagisti, tossicodipendenti non fanno quello che è sano per
loro: ma continuano a farlo. 
Una forma di governo non può dipendere, durante il tempo della
legislatura, dalla volontà del singolo, né dalla semplice somma
algebrica delle volontà individuali. Ma, soprattutto, nessuna forma di
governo politico può esistere esitando per ogni inarcamento di ciglia
dell’opinione popolare. Relazionarsi, accogliere informazioni,
richieste: un compito gestionale e amministrativo importante. Ma le
decisioni politiche non possono solo dipendere dagli interessi
giornalieri, singolari o di parte. La politica deve poter immaginare e
realizzare strategie di medio-lungo periodo, programmare a dieci, venti
anni. Non è un telefono cellulare, uno strumento tecnologico che diventa
obsoleto dopo pochi mesi. Questa è la crisi. La crisi delle decisioni,
dei progetti, la crisi di un’idea di futuro, di un progetto esistenziale
e identitario che costituisca un elemento storico. Da criticare,
aggiornare, promuovere. Crederci. Purché esista.

La democrazia sospesa.

Chi guarda spesso dottor House lo sa
bene: a un certo punto bisogna intervenire. Si manda il paziente in coma
farmacologico per capire, per individuare le cause della patologia e
curarlo. Ed è esattamente questo che sta accadendo alla democrazia
occidentale. Gli esperti, i tecnocrati, si sostituiscono ai politici. Il
governo dei Custodi, come voleva Platone.

Ma anche questa non è una soluzione che può essere protratta per molto
tempo. «Ogni decisione politica importante, che sia personale o di
governo, implica dei giudizi etici di valore. Prendere una decisione sui
fini che le politiche di governo tenderanno a raggiungere – la
giustizia, l’equità, la felicità, la salute, la sicurezza, la
sopravvivenza, il benessere, l’uguaglianza e simili significa formulare
un giudizio etico. E i giudizi etici non sono giudizi scientifici.
Inoltre, i fini giusti sono spesso in conflitto l’uno con l’altro e le
risorse sono limitate. Di conseguenza, le decisioni politiche, personali
o di governo, richiedono quasi sempre giudizi di transazione, ovvero un
compromesso tra fini diversi. I giudizi di transazione fra fini diversi
non sono scientifici». Questo ce lo ricorda il politologo Robert. A.
Dahl, in Sulla democrazia.
Mi sembra invece che i partiti politici, i principali responsabili
della deriva della democrazia alla quale si assiste, non lo abbiano ben
capito. Criticano. Commentano. Dibattono, illustrando i loro desideri di
livello altissimo.
Così come Paul Krugman, dall’alto dei suoi ottimi consigli che nessuno
ha seguito. Dalla consapevolezza che i titoli tossici americani li hanno
acquistati le banche europee, per creare l’illusione della ricchezza. E
gli illusi, ora, protestano, piantando tende e intonando canti, coi
bonghi, a Wall Street, (mica davanti alla Casa Bianca).
Un buon consiglio, soprattutto se non ascoltato, non costa nulla.
Intanto i partiti nostrani lasciano fare lo sporco lavoro ai tecnocrati. Per poi tornare in campagna elettorale.
Finché non cambierà il ritmo. La marcia, come sappiamo, in qualsiasi forma, non è mai piacevole.

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Massimo Ribaudo

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