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Guardate #Sanremo, capirete il Paese

18 Febbraio 2012 3 min lettura

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Guardate #Sanremo, capirete il Paese

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Dino Amenduni - @doonie

@valigiablu - riproduzione consigliata
Quest’anno, per la prima volta, ho seguito il Festival di Sanremo dalla prima all’ultima puntata. Senza distrazioni, senza Gialappa’s (che nostalgia, però). Un tweet lì, un aggiornamento là, tanti appunti presi. 

Sento di aver fatto bene. E penso che lo farò anche l’anno prossimo. Credo che chi ha il piacere di analizzare le sorti nazionali, chi deve raccontare il Paese per lavoro e chi si deve impegnare a dialogare con gli italiani, o addirittura governarli, abbia quasi il dovere morale di farlo. 
Uno spettacolo che con i suoi limiti e le sue contraddizioni è ancora lì dopo sessantadue edizioni consecutive, e supera più di una volta il 50% di share durante una settimana di estenuanti dirette deve necessariamente essere preso sul serio. 

L’Italia, come ogni anno, si è diviso in categorie durante il Festival. Quest’anno ne ho registrate quattro. 
1. Chi guarda il Festival sul divano e non fa molto altro se non parlarne con amici, familiari e colleghi: la maggior parte degli italiani, dunque il segmento più interessante ma anche il più inaccessibile perché sostanzialmente silente. Di solito decide gli esiti delle elezioni e di loro non si parla mai sui giornali; 
2. Chi guarda il Festival e ne parla (bene o male) sul web: una categoria in rapida e costante crescita, che ha regalato un insperato slancio alla rassegna canora, fino a qualche anno fa agonizzante e sulla via di uno stanco tramonto; 
3. Chi non guarda il Festival, spesso quasi come una forma di esercizio di resistenza, e proprio in natura di questo doloroso sforzo di autocontrollo prova un profondo piacere nel criticare chi lo fa: una categoria di cui l’Italia non potrebbe fare a meno e che spunta sempre durante i grandi eventi popolari; 
4. Chi non guarda il Festival e basta: una minoranza, forse una nicchia. Ammesso che esista. 
A qualsiasi categoria voi apparteniate, bisognerà riconoscere che il Festival, come sempre, ha dettato l’agenda: inclusività ed esclusività, appartenenza e distanza da queste categorie dipendono sono legate al livello di attenzione che ognuno di voi ha attribuito al programma televisivo. 
Abbiamo visto e sentito di tutto. Sentito, soprattutto: musicalmente mi è sembrato il miglior Festival degli ultimi venti anni. Siamo tornati a una rassegna davvero pop, abbastanza in linea con i gusti del Paese, impreziosita qua e là da collaborazioni eclatanti (Marlene Kuntz e Patti Smith per un verso, Emma Marrone e Alessandra Amoroso per il suo opposto: in entrambi i casi le cartoline di questa edizione), senza abusare di quella strana genìa di musicisti che appare solo cinque giorni l’anno, all’Ariston, e poi scompare nuovamente. 
Abbiamo assistito a capolavori della distrazione di massa, così perfetti da rappresentare una fertilissima ispirazione per chi lavora con gli immaginari e con le narrazioni: creativi, scrittori, comici e, potenzialmente, anche i politici. Celentano e Belen, da questo punto di vista, hanno aperto la strada a esperimenti collettivi di proiezione: non importa che il prodotto televisivo sia stato apprezzato o no (quanto avrei voluto leggere un sondaggio sul tema), o che le mutande ci fossero o meno. Ognuno ci ha visto ciò che più ha voluto vedere, anche a costo di negare l’evidenza. E Sanremo ha offerto un’ottima scusa per farlo. 
Abbiamo scoperto che un ragazzo di sedici anni può vincere Sanremo senza essere indimenticabile, ma solo (solo?) perché ha 125mila fan su Facebook. E al diavolo la giuria demoscopica, quella di qualità (che quest’anno non c’era), il voto dell’orchestra, Assante e Castaldo, Luzzato Fegiz e i vip su Twitter. Decidono i quindicenni. 
Sanremo è per tutte queste ragioni un luogo e un momento attraverso cui l’Italia si guarda allo specchio e che, per questo motivo, merita tutto il rispetto e la dignità che si attribuiscono alle analisi politologiche, agli editoriali e ai grandi libri che mirano allo stesso obiettivo: raccontare il Paese. È una cartina di tornasole delle nostre abitudini e di ciò che in questi mesi abbiamo pensato, di come siamo o non siamo cambiati. Tutto questo si legge nei testi delle canzoni, nei tormentoni e nelle gaffes. È uno dei rarissimi casi in cui l’Italia è una Nazione, insieme alle partite di calcio ai mondiali e agli europei. Durante Sanremo ci sentiamo tutti italiani: qualcuno se ne vergogna, qualcuno meno, qualcuno vorrebbe emigrare, qualcuno si diverte. Tutti, però, si sentono partecipi, anche solo per negazione. 
Appuntamento all’anno prossimo. Con un appello rivolto in particolare ai giornalisti e ai politici: guardate Sanremo, capirete il Paese.

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