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I giornalisti e la tutela delle fonti: il caso Domani

15 Marzo 2024 10 min lettura

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I giornalisti e la tutela delle fonti: il caso Domani

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La premessa è d’obbligo, il presente articolo non comporta alcuna valutazione sull’operato della magistratura, specialmente in considerazione del fatto che le indagini sono ancora in corso e che, quindi, molti elementi non sono da noi conosciuti. Ma il clamore mediatico sulla vicenda, il fatto che molti si siano già espressi, rende utile una rivisitazione della situazione giuridica in merito alle prerogative dei giornalisti.

La vicenda è più o meno nota. Si tratta della pubblicazione di notizie relative a un presunto conflitto di interessi dell’attuale ministro della Difesa da parte di alcuni giornalisti del giornale Domani. La notizia in questione, a quanto è dato sapere finora, proverrebbe da una serie di circa 800 accessi abusivi da parte di un finanziere che operava presso la Direzione Nazionale Antimafia. La notizia, quindi, deriverebbe da documenti estratti da archivi riservati, appunto la banca dati della Direzione Nazionale Antimafia (anche se molti atti estratti non erano più coperti da segreto). Oltre al finanziere risulterebbero indagate anche altre persone, tra cui un magistrato e, appunto, i tre giornalisti che avrebbero ricevuto le informazioni.

I giornalisti sarebbero, quindi, indagati, in concorso col finanziere, per i reati di accesso abusivo a sistema informatico e pubblicazione di segreto. Il finanziere, infatti, avrebbe inviato ai giornalisti estratti della banca dati, anche se poi, come scrivono su Domani, dalle contestazioni della Procura non risulta chiaro quale sarebbe il contenuto dei documenti inviati:

Nelle informazioni che Striano avrebbe mandato ai giornalisti, quindi, non c’è nessun ‘dossier su politici e vip’ ma solamente documenti agli atti delle procure: ordinanze di custodia cautelare e informative delle forze dell’ordine già disponibili ai magistrati inquirenti e alle difese”.

L'ipotesi giudiziaria è che vi sarebbero "altri «infedeli servitori dello Stato» al momento ignoti, oltre al finanziere, le cui ricerche avevano destinatari diversi dai tre cronisti di Domani e dagli altri 12 indagati per concorso in accesso abusivo a sistema informatico". Da qui la necessità, secondo gli investigatori, di individuare le fonti.

In tutto questo poi si innesta l’esposto presentato dal ministro in carica, dal quale nasce l'inchiesta giudiziaria e con il quale si chiederebbe ai magistrati di individuare le “fonti” dei giornalisti. Per questo motivo si sono avvicendate preoccupazioni sul fatto che l’indagine potrebbe finire per minare i rapporti tra i giornalisti e le loro fonti, insomma una sorta di avvertimento a non collaborare coi giornalisti.

Il quadro europeo

A seguito della pubblicazione della notizia ricevuta da una fonte riservata, spesso il giornalista viene convocato dalla Procura perché riveli il nome della fonte. Spesso il giornalista subisce anche il sequestro del materiale che egli conserva, al fine di rinvenire traccia della fonte. Il ragionamento è che comunque siamo in presenza di una violazione di una norma penale che giustifica l’applicazione del sequestro probatorio. La rivelazione della fonte sarebbe necessaria ai fini della prova del reato per il quale si procede.

In questi casi in genere il giornalista si trincera dietro il segreto professionale, non rivelando la fonte. E se pubblica la notizia finisce indagato, in concorso, per rivelazione del segreto d'ufficio. Reato che può essere commesso dal pubblico ufficiale, per cui il concorso sussiste se si prova l'accordo criminoso o la condotta attiva del giornalista.

In materia di sequestro si è pronunciata la Suprema Corte italiana che negli anni ha fissato i parametri. In particolare il sequestro probatorio disposto nei confronti di un giornalista professionista deve rispettare con rigore il criterio di proporzionalità tra il contenuto del provvedimento di sequestro di cui è destinatario e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto di indagine, evitando il più possibile interventi invasivi nella sua sfera professionale. Insomma, si deve sequestrare il meno possibile, solo ciò che è davvero indispensabile.

Sulla tutela delle fonti la Cassazione aderisce sostanzialmente alla giurisprudenza internazionale. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è particolarmente spesa nella formazione di una giurisprudenza in materia di giornalismo e tutela delle fonti. In tal senso ha sottolineato che la libertà di espressione è uno dei pilasti su cui una democrazia si regge. Il caso Goodwin contro Regno Unito dissipò i dubbi nascenti da una interpretazione letterale dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che, ricordiamolo, è di immediata operatività nel nostro paese). Interpretazione che si limita a specificare che la libertà di espressione comprende il diritto, attivo, di esprimere le proprie opinioni senza limitazioni statali, e il diritto, passivo, a ricevere informazioni, il cui corollario è appunto la libertà di stampa, servente rispetto al diritto ad essere informati. L’articolo però non menziona la libertà del giornalista di procurarsi le notizie tramite fonti riservate, ma la Corte europea con la sentenza Goodwin precisò che la tutela delle fonti giornalistiche è una delle pietre angolari della libertà di stampa, con ciò inglobando tale tutela nell’ambito di applicazione della Convenzione.

La Corte dei diritti dell’uomo ha quindi chiarito che il giornalista per informare i cittadini, e questo allo scopo di consentire agli stessi di formarsi un’opinione dei fatti di interesse pubblico e quindi esercitare correttamente la sovranità popolare (vedi Cass. 16236 del 2010), deve farlo anche ricorrendo a fonti non ufficiali. Altrimenti finirebbe per essere un mero strumento nelle mani del potere in carica. Per cui la segretezza delle fonti è un elemento essenziale per il corretto svolgimento dell’attività giornalistica. Se non vi fosse una tutela della segretezza delle fonti, queste non si fiderebbero del giornalista e non gli comunicherebbero le informazioni di interesse generale.

La mancata protezione delle fonti ha un effetto negativo non solo sul singolo cronista, ma sull’intera collettività, privandola così delle informazioni utili e necessarie per il controllo sull’operato degli stessi organi statali. L’assenza di tale protezione finirebbe per scoraggiare le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a svolgere il suo fondamentale ruolo di “cane da guardia” della democrazia e di fornire notizie accurate e affidabili. In questo senso un’indagine tesa a scoprire le fonti del giornalista potrebbe essere giustificata in base all’art. 10 della Convenzione CEDU solo se in presenza di un interesse pubblico prevalente. Interesse che non deve essere considerato in astratto e neanche sulla base delle sole scelte effettuate dal legislatore, ma con riferimento al singolo caso concreto, con un obbligo del tribunale competente di indicare le ragioni per imporre la divulgazione della fonte in rapporto all’altro diritto in gioco.

La Corte EDU si è anche spinta nel considerare le perquisizioni domiciliari verso i giornalisti, ma anche presso il loro ufficio, come una violazione della libertà dei giornalisti protetta dell’art. 10 della Convenzione (Martin e altri c. Francia, 2012). Se il giornalista agisce nel rispetto delle norme deontologiche e fornisce informazioni di interesse generale, il suo diritto alla libertà di stampa non può essere limitato nemmeno nel caso in cui la fonte abbia violato un obbligo di segretezza consegnandogli documenti riservati o coperti da segreto.

Allo stesso modo il Parlamento Europeo, con la risoluzione del 18 gennaio 1994, ha dichiarato che “il diritto alla segretezza delle fonti di informazioni dei giornalisti contribuisce in modo significativo a una migliore e più completa informazione dei cittadini e che tale diritto influisce di fatto anche sulla trasparenza del processo decisionale”. Quindi il segreto professionale è indispensabile sia per lo svolgimento della professione giornalistica sia per l’esercizio del diritto dei cittadini di ricevere informazioni. Il mancato rispetto del segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all’informazione. Il giornalista ha, quindi, un vero e proprio diritto a non rivelare le fonti, non si tratta quindi di un mero privilegio concesso o revocato a seconda della legittimità delle fonti, ma è uno specifico attributo del diritto all’informazione.

Anche il Consiglio d’Europa, con la raccomandazione dell’8 marzo 2000 ha affermato che: “Il diritto dei giornalisti di non rivelare le loro fonti fa parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione. L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l’importanza, per i media all’interno di una società democratica, della confidenzialità delle fonti dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. E’ nell’interesse dei giornalisti e delle loro fonti come in quello dei pubblici poteri disporre di norme legislative chiare e precise in materia. Queste norme dovrebbero ispirarsi all’articolo 10, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della confidenzialità delle fonti d’informazione dei giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione esiste, i giornalisti possono legittimamente rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia della loro responsabilità sul piano civile o penale o a una qualunque pena cagionata da questo rifiuto”.

In questo modo le massime istituzioni europee hanno contributo a formare uno spazio giuridico europeo nel quale il segreto professionale è un caposaldo della libertà di stampa, del diritto dei cittadini all'informazione e quindi della stessa democrazia.

I requisiti richiesti per la rivelazione delle fonti

La richiesta di rivelare l’identità delle fonti può essere giustificata soltanto nel caso in cui essa sia assolutamente necessaria per le indagini in corso. Spetta in prima battuta alle autorità nazionali valutare se sussiste un interesse pubblico prevalente a scoprire le fonti della notizia, tuttavia la discrezionalità nella valutazione degli interessi in gioco non può mai giungere a minare la libertà di stampa.

In base all’art. 200 del codice di procedura penale, infatti, il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza di tre condizioni tassativamente previste:

  • L’“indispensabilità” della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato per cui si procede;
  • L’“impossibilità” di accertare altrimenti la notizia in possesso del giornalista;
  • La “stretta proporzionalità” tra il vincolo e quanto necessario per l’accertamento del fatto.

Non è sufficiente, quindi, un mero collegamento tra la notizia e il tema dell’indagine, ma occorre che la rivelazione della fonte, e quindi la limitazione della libertà di stampa del giornalista, sia l’unico mezzo per poter conseguire la prova del reato (Cass, Sez. 2, n. 48587 del 09/12/2011).

L’articolo in questione menziona espressamente i “giornalisti professionisti”. In tal senso si è spesso detto che pubblicisti e praticanti non possono avvalersi della norma citata. Però è anche vero che questi ultimi sono tenuti a rispettare l’articolo 2 della legge sull’ordinamento della professione di giornalista, e quindi possono invocare il segreto sulle fonti. Infatti, la professione di giornalista è regolata dalla legge 69 del 1963 che istituisce l’Ordine dei giornalisti, il quale, sempre secondo la legge indicata, comprende non solo i giornalisti ma anche i pubblicisti. Per “giornalisti” si intende coloro che “esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista”, mentre i pubblicisti sono “coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”. La professione di giornalista è quindi l’“attività esercitata in modo continuativo a scopo di guadagno”, che è qualcosa di ben diverso dall’attività giornalistica, che è quella tutelata dall’art. 21 della Costituzione italiana e dalle Convenzioni internazionali.

Inoltre l’articolo 200 del c.p.p. restringe il campo della tutela ai “nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della loro professione”. Ma qui la Cassazione ha più volte ribadito, sulla scorta della giurisprudenza internazionale, che la tutela deve ritenersi estesa a tutte le indicazioni che possono condurre all’identificazione delle fonti. In caso contrario la norma convenzionale sarebbe rispettata solo formalmente e sussisterebbe un evidente contrasto con l’ordinamento interno.

In sintesi, è compito del giudice procedere cautamente e bilanciare rigorosamente i diritti in gioco, da un lato l’esigenza del doveroso accertamento dei fatti e delle responsabilità in presenza di eventi che integrano un’ipotesi di reato, dall'altro la necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti in vista dell’espletamento della funzione informativa, quale pilastro fondamentale di una società democratica.

Ovviamente l’esercizio della libertà di stampa non può essere considerato un lasciapassare per il giornalista. Questi deve comunque agire rispettando i doveri deontologici. Il giornalista deve sempre valutare attentamente non solo le informazioni fornitegli dalla fonte, ma anche gli interessi specifici di questa. Insomma, il giornalista deve fare attenzione a non diventare uno strumento nelle mani della fonte, la quale potrebbe usare il giornalista per fini personali, ad esempio per una vendetta o altro. Non si tratta di una considerazione soltanto etica, ma addirittura di un presupposto. Come detto il giornalista deve informare il pubblico in merito a questioni di interesse generale, se le informazioni fornitegli dalla fonte hanno uno scopo particolare vuol dire che non vi è un interesse generale alla notizia, quindi il giornalista non sta facendo correttamente il suo lavoro. Se invece sussiste comunque un interesse generale allora lo scopo particolare finisce in secondo piano, dovendo il giornalista assicurare comunque trasparenza sulle condizioni della fonte.

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In conclusione, la richiesta dell’autorità giudiziaria di rivelare la fonte del giornalista non può essere giustificata in base all’ordinamento italiano e alle convenzioni internazionali quando lo scopo dell’indagine non è quella di accertare il reato bensì quello di individuare l’autore del reato di rivelazione del segreto. In tal senso si è espresso anche il Tribunale penale di Treviso con la sentenza del 14 gennaio 2000 (n. 252/1999 Reg. gen.), con la quale ha precisato anche che occorre considerare che il giornalista, rivelando la fonte, potrebbe autoaccusarsi di partecipazione del reato commesso dalla fonte, così risultando anche in contrasto col divieto di auto-incriminazione, principio riconosciuto in Italia fin dalla legge 932 del 1969 con la quale nell’interrogatorio l’imputato o indagato non era più tenuto alla verità, ma era concepito essenzialmente come strumento per l’esplicazione del diritto di difesa.

Infine, non si può non rimarcare la schizofrenia dell'ordinamento italiano, che da un lato considera un illecito disciplinare la rivelazione della fonte da parte del giornalista, dall'altro però obbliga il giornalista a commettere tale illecito tramite il meccanismo di cui all'art. 200 del codice di procedura penale.

Valigia Blu Live #IJF24 > La tutela delle fonti e la libertà di informazione a rischio

Il panel sulla tutela delle fonti e la libertà di informazione a rischio.

 

Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Arianna Ciccone ed Emiliano Fittipaldi interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nel panel "La tutela delle fonti e la libertà di informazione a rischio".

Immagine in anteprima via fanpage.it

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