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La lingua degli altri: Gorizia, Nova Gorica e la costruzione di una frontiera

8 Aprile 2024 12 min lettura

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La lingua degli altri: Gorizia, Nova Gorica e la costruzione di una frontiera

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di Claudio Ferlan e Ivan Portelli*

Stiamo vivendo un’età dei muri, ancora se ne costruiscono e molti li abbiamo avuti in eredità. Qualcuno però viene pure abbattuto, come è capitato a Berlino, ma anche in un angolo del confine nord-orientale d’Italia. Tra Gorizia e Nova Gorica, tra Nova Gorica e Gorizia per anni un muretto e un reticolato hanno segnato una frontiera tracciata col righello, incurante della storia di un territorio multiculturale e plurilingue. Conflitti religiosi, culturali e militari hanno caratterizzato il passato del Goriziano, come lo hanno caratterizzato anche pacifiche convivenze e adattamenti. La designazione congiunta di Nova Gorica e Gorizia a Capitali Europee della Cultura 2025 promette di essere un nuovo punta di svolta, un altro mattone tolto a un muro del passato. 

Sono passati più di tre anni dal giorno dell’annuncio: il 19 dicembre 2020 la Commissione Europea incaricata della decisione ha designato Nova Gorica e Gorizia, assieme, come Capitali Europee della Cultura 2025. Ha dato la notizia il comitato sloveno, poiché il ticket è stato guidato da Nova Gorica. Usiamo il passato prossimo perché, come ci insegna la Treccani, è il tempo verbale “che esprime un’azione avvenuta in un passato, recente o lontano, che tende ad avere effetti percepiti ancora nel presente da parte di chi parla o scrive”. E quella decisione di effetti ne ha non solo sul presente, ma soprattutto sul futuro. È stato il successo di due città che possiamo oggi definire gemelle, ma che per decenni furono divise dalla politica della cortina di ferro. I due sindaci Klemen Miklavič e Rodolfo Ziberna hanno atteso il verdetto in piazza Transalpina, luogo in cui corre il confine tra Italia e Slovenia. Oggi qui non si distingue il passaggio da uno stato all’altro, ma fino a qualche anno fa a evidenziarlo svettava un muro divisorio.

Una parlata per ogni villaggio

I luoghi apparentemente non parlano, ma ugualmente ci raccontano trame e vissuti. Gli uomini, al contrario, parlano e danno anche dei nomi ai luoghi. Forse è un modo per segnare il territorio, un residuo “animalesco” che però ci offre – a posteriori – la possibilità di recuperare percorsi e situazioni che facilmente cadrebbero nell’oblio. 

Le persone vivono in uno spazio, lo piegano ai propri bisogni e ne vengono influenzate. Lo spazio che ha in Gorizia il proprio capoluogo è una realtà quanto mai “mobile”: i contorni sono cambiati anche pesantemente durante gli ultimi secoli, passando spesso sulla testa degli abitanti, portando donne e uomini a stabilirsi in questa terra, o ad allontanarsene. Qui riconosciamo incroci e incontri che hanno portato cambiamenti radicali. Se la guardiamo dall’alto, Gorizia oggi è posta su un confine di Stato. Non è la sola frontiera che la attraversa. Possiamo riconoscere anche uno stacco linguistico, a fronte di una terra i cui limiti amministrativi per secoli non hanno minimamente considerato il modo in cui si esprimeva chi la abitava come un elemento discriminante; aspetti culturali, legami famigliari, cucina non rispecchiano in modo netto il confine linguistico. Le parlate però qui sono alternative: la stessa persona può utilizzare anche diversi codici come scelta o come abitudine, rispetto all’interlocutore o nell’ambito della socialità. Friulano, italiano, sloveno, tedesco, dialetto veneto si mescolano e si alternano a seconda del contesto sociale, professionale, religioso, anche se di solito il passaggio è netto, segna una frontiera invisibile ma forte, indice di identità, che molte volte non è univoca.

Le comunità hanno elementi di appartenenza per lo più ben definiti. Ci sono luoghi che forse più di altri permettono di scorgerli. L’angolo di terra dove le propaggini settentrionali del Carso toccano l’Isonzo, appena a sud della confluenza del Vipacco, è emblematico: sul Carso si parla sloveno (Vrh/San Michele del Carso, Doberdob/Doberdò e le tante altre piccole località dell’altopiano), tranne che a San Martino del Carso, antica comunità venetofona – il cognome prevalente è Visintin – probabile risultato di fughe in terra arciducale dal Territorio di Monfalcone a lungo controllato dalla Serenissima; stretta tra il Carso e l’Isonzo c’è la località di Poggio Terza Armata, nome postbellico scelto a memoria delle battaglie dell’Isonzo (1915-1917) per una località che prima si chiamava Sdraussina – toponimo di cui è difficile capire l’origine – dove si parlava friulano, unico paese sulla riva sinistra dell’Isonzo (Gorizia esclusa). San Martino e Sdraussina sono frazioni del comune di Sagrado: qui ci si esprime in bisiàc (parlata tipicamente veneta) pur essendo al di fuori dai confini del Territorio di Monfalcone e quindi della Serenissima (e questo la dice lunga su quanto confini e lingue non siano la stessa cosa). Nel giro di un paio di chilometri l’idioma d’uso comune varia creando pluralità affascinati quanto sfuggenti, perché un conto sono le comunità, un conto le persone, che anche spostandosi portano con sé il proprio vissuto e la propria identità.

Traccia di questi spostamenti, stratificazioni, mescolanze sono i nomi dei luoghi. È frequente nella pianura imbattersi in toponimi di chiara ascendenza slava, mentre le lingue d’uso sono ormai da secoli e in contesti ben definiti friulano e bisiàc. Così più a nord il Monte Quarin sopra Cormòns segna non solo il limite della pianura friulana, ma anche quello del friulano: basta aggirarlo per entrare nel Collio sloveno attraversato dal confine di stato, e quindi in piccola parte in Italia e in grande parte in Slovenia.

Cattolici e luterani, patriarcato e arcidiocesi

Nel multinazionale impero asburgico lo Stato (che tende a parlare tedesco) è quasi terzo rispetto alle comunità latine (italiano e friulano non sono la stessa cosa, anche qui studi linguistici, percezioni culturali, tradizioni e abitudini non possono che confondere il bisogno di tracciare una linea netta e certa) e slave (la coscienza nazionale slovena è una conquista relativamente recente). 

La prima grande impresa educativa del territorio, come spesso è capitato anche in altre parti d’Europa, è opera dei gesuiti. Raggiungono Gorizia, terra asburgica, allo scoppiare di un conflitto armato tra Austria e Venezia (Guerra di Gradisca 1615-1618). Quelli che arrivano parlano italiano, organizzano una scuola dove le lezioni si tengono in latino, e così è fino alla soppressione dell’ordine e alla contestuale chiusura del collegio (1773). Dopo pochi anni di presenza, maestri e professori della Compagnia di Gesù si rendono conto della necessità di richiamare confratelli capaci di esprimersi in sloveno, indispensabile per le omelie. Chiedono aiuto a Lubiana, dove un collegio è nato più di vent’anni prima di quello stabilito in riva all’Isonzo. Del resto, proprio in sloveno meno di un secolo prima, ha predicato con successo Primož Trubar, padre della lingua slovena scritta, protestante. Come lo ha fatto? Con ogni probabilità si è adattato ai luoghi, passando dallo sloveno all’italiano a seconda dell’uditorio. Conosceva anche il tedesco e (non benissimo) il croato, in caso di necessità avrebbe potuto rivolgersi a uditori compositi o inattesi. È per reagire alla sua presenza nel territorio che i cattolici, preoccupati, pensano di agevolare l’arrivo della Compagnia di Gesù, ma ci vogliono anni e, come scritto, una guerra. Dopo la fine del conflitto austro-veneto da Graz e Klagenfurt cominciano ad arrivare a Gorizia gesuiti austriaci, perché la lingua delle magistrature del luogo è il tedesco, stessa parlata di molti dei soldati destinati a passare in zona per l’una o l’altra campagna. Poiché molti militi sono protestanti, riuscire a condividere un codice d’espressione comune potrebbe consentire di guadagnare qualche conversione, poche in verità, ma costantemente celebrate dalle fonti cattoliche. Con meno enfasi le stesse fonti raccontano il difficilissimo rapporto tra la corte di Vienna e il patriarcato di Aquileia, segnato da un conflitto tutto interno alla fede romana, nel quale un confine immaginario divide i fedeli soggetti al dominio veneziano da quelli che abitano terre asburgiche.   

L’erezione a metà Settecento delle due arcidiocesi di Udine e Gorizia viene a risolvere l’intricata questione pastorale e politica: i confini diocesani ora collimano con quelli politici. Quella che ha a capo Gorizia è una diocesi decisamente vasta e articolata, nella cui giurisdizione si trovavano genti che parlavano italiano, friulano, tedesco e sloveno. E il primo arcivescovo, il goriziano Carlo Michele d’Attems, pastore attento e meticoloso, predica regolarmente in tutti questi idiomi. Del resto, anche i suoi successori verranno scelti anche per la loro capacità di relazionarsi – linguisticamente – con tutti i propri fedeli, anche quando i confini diocesani saranno ben più contenuti dell’immensa diocesi settecentesca.

L’Ottocento è un momento di passaggi non scontati. Il vescovo di Gorizia Walland (oggi non abbiamo problemi a definirlo sloveno) fa pubblicare nel 1820 un libretto di preghiere in friulano, probabile lavoro di un futuro vescovo (il friulano Leonardis, passato alla memoria irredentista come l’ultimo vescovo “italiano” di Trieste prima di Angelo Bartolomasi), rivolgendosi al “bon popul” “furlan” che ha diritto come “i Todeschs e i Cragnolins” (tedeschi e sloveni) di poter pregare nella propria parlata. La Chiesa ha sempre un occhio di riguardo: si predica e si fa catechismo in friulano e sloveno anche quando queste non possono del tutto codificarsi come lingue della cultura o della scuola – ovvero: ci si deve far capire. Quando lo stato investe la Chiesa della gestione dell’istruzione di base bisogna di nuovo lasciarsi comprendere. Certo, il tedesco è proprio dell’istruzione superiore – e chi vuole aspirare a fare carriera deve impararlo. Ma al contadino si insegna a leggere e scrivere usando il codice linguistico colto più vicino alla sua parlata. I friulani apprendono l’italiano, gli sloveni lo sloveno (che tra l’altro sta ricevendo in questi decenni d’inizio Ottocento la sua codificazione grammaticale). 

Giovanni Battista Pitteri, deputato goriziano al parlamento di Kremsier nel 1848 e nato nel piccolo paese di Farra d’Isonzo, in un documento del 1842 scrive di «avere imparato a Farra il furlano, a Gradisca l’italiano, a Gorizia il latino ed a Vienna il tedesco»: una gradualità educativa e linguistica che evidenza a suo modo anche un percorso dalla periferia al centro.

Scuole, nomi e cognomi

La scuola è un terreno di scontro, la cacciata dei gesuiti ha aperto nuovi spazi da occupare: dove non arriva lo Stato intervengono i comuni o le associazioni che sostengono la nazionalità. Una sorta di lotta per gli asili e le scuole (la Lega Nazionale apre tanti “giardini d’infanzia”, mentre la società dei santi Cirillo e Metodio e altri sodalizi sloveni aprono scuole private dove mancano); ai margini del territorio linguisticamente compatto si vuole marcare il territorio. 

Nel dopoguerra il processo di assimilazione delle popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia passa per l’italianizzazione della scuola. I maestri slavi vengono trasferiti nella penisola, si mandano in questi paesi maestri italiani; alla fine degli anni Trenta l’istituto magistrale di Tolmino, nella valle dell’Isonzo compattamente slovena, ha la funzione di preparare nuovi insegnanti italiani. Il fascismo si propone come il garante dell’italianità e l’uso pubblico dello sloveno è proibito; per il friulano è diverso: viene trattato come un dialetto italiano. In chiesa il mondo sloveno – che appena oltre il confine vede uno stato dove questa lingua è ufficiale – cerca di mantenere spazi linguistici, possibili grazie alla presenza di un vescovo di madrelingua slovena a Gorizia (Francesco Borgia Sedej) fino al 1931. Il successore, Carlo Margotti (vescovo dal 1934 al 1951), che più volte si dimostra pubblicamente vicino al regime, non esita a predicare in sloveno e a sostenere anche il clero sloveno, inviando però cappellani italiani anche nella parte slovena della diocesi, e probabilmente auspicando un’italianizzazione-inculturazione.

Lingue, cognomi, tensioni. Cambiare il proprio cognome, se imposto dall’autorità pubblica o per opportunità è una ferita. Cancellare un’identità è una violenza. L’italianizzazione però ha dei risvolti maldestri: a volte si traduce il cognome, a volte si cambia la grafia. Così Kralj può diventare Re (traduzione letterale) oppure Crali; Vodopivec diventa Bevilacqua; Černic può diventare Neri (traduzione) oppure trasformarsi in Cerni; Simčič (che poteva essere trascritto come Simzig) può diventare Simonetti; Jansig (a dire il vero più friulano che sloveno) Gianesi o Gianesini; un processo di modifica che colpisce anche i cognomi friulani o tutti quelli che hanno caratteri che possono sembrare non italiani. Gli esempi si sprecano, ma la discrezione o la fantasia dell’ufficiale di anagrafe di turno o del funzionario del tribunale mostra quanto poco scientifica sia l’applicazione di una legge che prevede in primo luogo di riportare all’originaria forma italiana quanto “corrotto” e slavizzato durante la dominazione asburgica. Ma è anche il risultato di una richiesta da parte dell’interessato, che pur di lavorare o di evitare un marchio d’infamia – e di aver problemi con un potere pubblico non certo accomodante – si piega.

Nota è la vicenda di Lojze Bratuž (italianizzato in Luigi Bertossi), organista e maestro di musica, morto nel 1937 per i postumi di un’aggressione fascista dopo aver fatto cantare un coro in sloveno durante una celebrazione liturgica (cosa del resto autorizzata!) a Piedimonte/Podgora presso Gorizia.

La gestione del territorio è un altro problema. Nel passaggio tra Austria e Italia si mantengono i limiti comunali e provinciali, con qualche variazione a seguito dei trattati e dei nuovi confini. Il 1923 è un momento di svolta: viene soppressa la provincia di Gorizia (con rimostranze anche da parte dei fascisti locali) e divisa tra Udine e Trieste. C’è anche da dire che nelle elezioni del 1921 la circoscrizione che corrispondeva alla provincia di Gorizia aveva dato un risultato non proprio in linea con le aspettative del fascismo (4 deputati slavi e uno comunista!).

Nel 1927 vengono accorpati molti comuni, affidati alle cure dei podestà di nomina governativa. Questo investe anche la città di Gorizia, non più capoluogo provinciale. Al comune vengono aggregati Lucinico (a grande maggioranza friulana), Piedimonte/Podgora (uno dei pochi villaggi mistilingui), Salcano/Solkan, S. Pietro/Šempeter, S. Andrea/Štandrež e nel 1928 anche Vertoiba/Vrtojba (questi tutti a maggioranza slovena). 

La provincia viene ripristinata sempre nel 1927, ma ora lo stato non ha più bisogno di consigli provinciali e comunali elettivi. Il prefetto controlla come massimo rappresentante dello stato, mentre i podestà di nomina governativa guidano le amministrazioni comunali.

La tragedia della guerra si abbatte pesante su queste terre: le truppe dell'Italia fascista oltrepassano il confine occupando direttamente parte della Jugoslavia, istituendo la provincia di Lubiana (1941-1943) e poi, dal 1943, il Goriziano è inserito nella Zona d'operazioni del Litorale Adriatico controllata direttamente dal Terzo Reich; la resistenza italiana e quella jugoslava hanno sul territorio reti ramificate e radicate. Le occupazioni militari, gli scontri armati e le uccisioni e deportazioni di civili si susseguono. A guerra finita la destinazione di queste terre è oggetto di trattative di difficile soluzione. Nazionalità, ideologie, diverse prospettive di ricostruzione (sociale, economica e politica) vengono a sovrapporsi e a scontrarsi.

Il confine del 1947 viene a rompere un’unità secolare, i cui equilibri sono stati però corrotti dalle contrapposizioni nazionali di fine Ottocento e compromessi dal fascismo.

Nella Slovenia parte della Jugoslavia socialista vengono comprese terre compattamente slovene (almeno nel Goriziano). Entro i confini italiani la comunità slovena è una minoranza. Molti emigrano anche per ragioni politiche: la non accettazione del nuovo regime comunista è una motivazione forte.

Nasce accanto a Gorizia una città nuova, Nova Gorica. Il confine attraversa una piazza, quella prospiciente la stazione ferroviaria della linea Transalpina; il nuovo asse viario principale di Nova Gorica viene a connettersi con una strada della città vecchia, realizzando una continuità che vista allora come oggi segna quasi un passaggio d’epoca, riconoscibile fin dagli spazi della nuova città e dalle scelte architettoniche. Non è stata una separazione netta: Nova Gorica città giovane capace di attirare parecchi immigrati inizia dal cemento, trasformandosi dopo l’autonomia della Slovenia in una città verde. Gorizia era città storica, tutt’altro che giovane e attrattiva. 

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Per più di mezzo secolo il confine tra le due città dallo stesso nome rimane segnato da reti e muri bassi, un segno di penna simile a quelli disarmanti della geografia africana. “Un confine assurdo”, lo ha definito Paolo Rumiz nel salutarne l’abbattimento datato primo maggio 2004. Quasi come opposti che si attraggono, i due centri rimangono sempre vicini e nasce un rapporto di frontiera; non crediamo di esagerare se affermiamo che proprio nel momento dell’artificiosa divisione qualcuno ha gettato l’impensabile seme di una comunanza destinata a essere celebrata con la designazione a capitali della cultura europea 2025.

*Claudio Ferlan è ricercatore in Storia del cristianesimo presso la Fondazione Bruno Kessler (Trento). È anche giornalista, soprattutto come direttore responsabile di FBK Magazine (comunicazione della scienza) ed editorialista del quotidiano locale "Il T". Ha pubblicato alcuni libri con il Mulino e ne ha curati degli altri. Due di questi lavori sono dedicati a Gorizia.
Ivan Portelli è docente di storia e filosofia presso l’Educandato Uccellis di Udine, presidente dell'Istituto di Storia Sociale e Religiosa di Gorizia e autore di due monografie dedicate a particolari aspetti della storia goriziana dei secoli XIX e XX, oltre che di altri saggi.

Immagine in anteprima: La targa del confine tra Gorizia e Nova Gorica e tra Italia e Slovenia

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