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Freelance, i consigli di un editor

17 Luglio 2013 6 min lettura

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Freelance, i consigli di un editor

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direttore AGL, agenzia nazionale dei quotidiani gruppo Espresso

Caro Freelance,

Io sono un editor (che poi sarebbe un direttore pro tempore, nel caso specifico, insomma il suo primo e ultimo referente dentro al sistema dei media). Uno di quelli che lei probabilmente mette tra i cattivi, quindi non garantisco obiettività in ciò che sto per  scrivere, ma nemmeno una difesa d’ufficio dei miei colleghi “editors”. Parlo per me – e già qui infrango una regola aurea del giornalismo per come lo intendo io: al lettore / utente non deve fregare niente di “noi” ma di ciò che raccontiamo e per questo è buona norma non usare la prima persona – e mi permetto di darle qualche consiglio, semmai un giorno le nostre strade dovessero incrociarsi (ma penso che valga anche se ciò non dovesse accadere).

Perché lo faccio? Innanzitutto perché me lo ha chiesto Valigia Blu, un luogo nel quale si pratica l’ecologia dell’informazione, nell’ambito di un dibattito che ogni giorno si arricchisce di contributi e spunti.

In secondo luogo perché io ho avuto buoni consigli dagli “editor” con i quali ho avuto la fortuna di lavorare e credo che questo sia ancora uno dei modi più efficaci per tramandare virtù e conoscenza.

Poi perché vorrei dare un altro punto di vista – mi auguro altrettanto dignitoso quanto quello dei freelance – sulle dinamiche in corso nel mondo dell’editoria e dell’editoria italiana in particolare.

Infine perché ho seguito fin dal primo giorno il dibattito suscitato dal pezzo scritto da Francesca Borri per la Columbia Journalism Review, tradotto, pubblicato e condiviso in almeno 4 lingue (oltre alle versioni inglese e italiana ne ho incrociate una in spagnolo e una in tedesco sulla Welt). Se il suo scopo era suscitare un dibattito, mi pare sia stato ampiamente centrato.  E allora, se ne ha voglia, colga anche lei questi miei spunti di riflessione non richiesti come una possibilità di dialogare, pubblicamente e virtualmente, su un tema caro a entrambi.

Punto primo. Aggiorni i suoi modelli di riferimento. Terzani, Kapuściński hanno scritto pagine incantevoli per ciascuno di noi. Ma oggi il mondo – anche quello dei media – non è più il mondo di Terzani e Kapuściński.

Scrivere ciò che si vede è un punto di partenza, ma non basta, soprattutto se si pensa che il frutto della nostra fatica, della nostra passione, possa e debba avere un valore commerciale. Dico una cosa scontata, ma oggi un giornalista o è digitale o non è. E quando dico digitale, parlo innanzitutto di cultura. Ma parlo anche, necessariamente, di tecniche, strumenti e prodotto, come altri prima di me hanno già fatto notare proprio qui.

Se io oggi dovessi stanziare un budget per una corrispondenza dall’estero  – non rientra tra le mie incombenze, posso e devo accontentarmi delle agenzie per il tipo di target al quale mi rivolgo, che sono i lettori dei quotidiani locali, ma le dinamiche non sono molto diverse  –  dovrei  immaginare una cifra complessiva per articolo, foto, possibilmente video e tutto ciò che serve per uno storytelling multimediale e multipiattaforma. E non posso ignorare che la realizzazione di un video ha dei costi vivi superiori alla scrittura di un pezzo.

Lei mi offre un articolo scritto, un reportage, mentre preferisce appoggiarsi alla professionalità di qualcun altro per le immagini (e immagino valga lo stesso ragionamento per eventuali video). Scelta legittima, a patto che lei sappia che il budget complessivo sempre quello è. Quindi se non vuole fornire il prodotto completo – perché le competenze sono diverse – il mio consiglio è di mettersi  in “società” con fotografi e videomaker e contrattare il prezzo del servizio complessivo: starà poi a voi decidere come dividervi il compenso. In questo modo agevolate anche il mio, di lavoro, in quanto posso rivolgermi ad un solo “fornitore”, gestire la trattativa una volta sola, sapendo di aver acquistato un prodotto che nasce già multimediale nel concept, anziché essere assemblato successivamente (la differenza mi pare sostanziale).

Quello che invece non può esulare dai suoi compiti è la copertura live e digitale dell’evento, attraverso tweet e/o blog, così come il lavoro di “curation” sul campo, attraverso la selezione e la scrematura delle fonti sui social network.

A proposito di social network. Non trascuri la sua presenza attiva su twitter e  facebook. Se ancora non ce l’ha apra una sua pagina nella quale un “editor” possa vedere i suoi lavori precedenti, ma soprattutto si costruisca una rete sempre più solida e ampia, perché la forza di quella rete avrà sempre più un valore economico. Se devo valutare quanto pagarle un servizio, mi preoccuperò di capire qual è il suo potere di condivisione, quanto il “pezzo” può girare su twitter e facebook grazie ai suoi contatti personali.

Inoltre, vorrò valutare la sua capacità di gestire gli sviluppi della notizia, sia nel circuito mainstream ma soprattutto all’interno dei social network, fornendo delucidazioni, accogliendo suggerimenti, integrazioni, creando insomma un rapporto paritario con l’utente / lettore, senza supponenza. Come si fa a “quantificare” questo lavoro supplementare? Non lo so, ma so che è e sarà sempre più indispensabile.

Più in generale, sono d’accordo con lei quando invoca maggiore solidarietà e collaborazione tra freelance. E mi spingo più in là, immaginando un modello economico che oggi in Italia non esiste o è solo abbozzato, ma verso il quale si va inevitabilmente a parare: l’utilizzo di “service” da parte delle aziende editoriali.

Unitevi, create delle società, delle cooperative, studiate forme di co-working:  vi servirà ad abbattere i costi, ad avere più potere contrattuale e ad offrire prodotti più competitivi, magari non ad un solo “cliente”, come ci raccontano i colleghi di China Files. Certo, è un mestiere che già svolgono le agenzie, ma uno dei pochi vantaggi della concorrenza innescata dalle (nuove?) tecnologie è che tutti i rapporti – anche quelli di forza – possono essere ridisegnati. Soprattutto, dovete  imparare a diventare agenti di voi stessi.

Non è questione – solo – di concorrenza al ribasso, di guerra tra poveri. È che oggi, purtroppo o per fortuna, le notizie in sé si usano definire “commodities”, cioè beni fungibili. Quindi sta a a voi convincermi del valore aggiunto della vostra offerta, del motivo per il quale io dovrei pagare proprio a voi ciò che posso trovare anche altrove. Senza vendere fumo, nella consapevolezza che tra di noi si instaura un rapporto di fiducia, per cui ciò che mi proponete dev’essere a prova di errore, anche se la verifica finale spetta a me.

Siate dunque affidabili: nel giornalismo, checché ne dica De Gregori, si giudica anche e soprattutto dai particolari. Perché se voi mi date una bufala e io la do in pasto ai lettori, il primo a risponderne è il sottoscritto. Quindi un dettaglio gonfiato, inventato, romanzato rischia di rovinare un buon servizio. E badate bene che il giudice non è il sottoscritto, come il prof che corregge i compiti a scuola. Il giudice, il vostro unico riferimento, è e sarà sempre il lettore, l’utente. A lui dovete, dobbiamo, rispondere delle vostre / nostre imprecisioni. Sempre.

Un altro consiglio, caro freelance che ha avuto la pazienza di leggere fino a qui: se ama questa professione e ha capito che le aziende editoriali non hanno abbastanza risorse, voglia, coraggio per finanziare la sua passione, cerchi una strada alternativa.

Qualcuno ci ha provato, qualcuno ci è anche parzialmente riuscito. Una possibilità è quella del crowdfunding: se lei è convinta di avere un pubblico interessato ai suoi reportage, chieda a questo pubblico di sostenerla economicamente. Un’altra strada sono i contributi istituzionali a fondo perduto. Cominci a bussare alle porte di tutte le fondazioni, degli enti pubblici e privati che potrebbero essere interessati ai suoi progetti. Non è facile, me ne rendo conto, ma è un’alternativa all’essere in balia degli “editor” e della loro crudeltà.

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Infine l’ultimo ma più importante consiglio. Non smetta mai di studiare, questa professione (ma sarebbe meglio chiamarla “funzione”, perché la professione giornalistica potrà anche morire, ma la funzione quella no, mai) richiede aggiornamento costante e continuo. Guai a credere di essere esperti di qualcosa, guai a cercare di ingannare il lettore: la si può passare liscia una o due volte, ma là fuori qualcuno che ne sa più di noi, o che è più attento degli altri, lo si trova sempre.

Good night, and good luck.

(foto via @lorenzomonfreg)

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