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Voi parlate della grande strategia Eni. Noi dell’inchiesta di Report

23 Dicembre 2015 43 min lettura

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Voi parlate della grande strategia Eni. Noi dell’inchiesta di Report

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di Angelo Romano, Antonio Scalari, Andrea Zitelli

Aggiornamenti

Aggiornamento 20 dicembre 2017: Rinviati a giudizio i vertici di Eni.
Aggiornamento 21 settembre 2018: Condannati in primo grado i due mediatori Obi Emeka e Gianluca Di Nardo
Aggiornamento 17 marzo 2021: Il Tribunale di Milano assolve tutti i 15 imputati, società Eni e Shell comprese, a processo per la presunta corruzione internazionale legata all'acquisizione dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria.
Aggiornamento 10 giugno 2021: Il Tribunale di Milano ha presentato le motivazioni della sentenza di assoluzione e ha detto che la Procura di Milano ha nascosto al Tribunale una videoregistrazione a favore degli imputati. 

Dopo la puntata di Report dello scorso 13 dicembre 2015 su Eni (che ha affrontato la controversa vicenda dell’acquisto da parte di Eni e Shell della licenza del blocco petrolifero OPL 245 in Nigeria, le dismissioni del colosso pubblico italiano quotato in borsa e la questione ambientale a Gela) a tenere banco su social e giornali è stato come l’ufficio stampa di Eni sia intervenuto su Twitter, durante la trasmissione, pubblicando la propria versione sui fatti. Sia chiaro quella di Report non è una vera e propria inchiesta, ma una ricostruzione di ciò che è già emerso giornalisticamente in questi anni. E sia altrettanto chiaro che quello che Eni ha fatto su Twitter durante la trasmissione non è un fact-checking o un debunking (né tanto meno un "bel dibattito") come in molti si sono affrettati a definire.

Noi abbiamo deciso di porre al centro del nostro lavoro la complessità degli argomenti che non possono di certo ridursi a #EnivsReport. La vicenda del blocco OPL 245, ad esempio, non nasce con Report e non è un “litigio” tra un programma d’inchiesta giornalistica e un colosso petrolifero. La partita inizia molto prima, circa 20 anni fa, e si è giocata (e si continua a giocare) su più campi: in Nigeria, negli Stati Uniti, a Parigi, a Londra, a Napoli e a Milano. Tanti sono anche i soggetti coinvolti in una storia intricata tra rapporti di affari, di amicizia e potere. Una questione complessa, affrontata negli anni passati da alcuni dei migliori giornalisti italiani d’inchiesta, dove per ora non c’è un'unica verità accertata da verificare con un lavoro di fact-checking, ma piuttosto un lavoro di analisi che tenga conto di tutte le questioni emerse in questi anni per provare a mappare e comprendere i contesti in cui si dipana.

Un lavoro, il nostro, che non vuole e non può essere un’inchiesta, ma che cerca appunto di approfondire, tramite l'utilizzo di documenti ufficiali e articoli dettagliati, i passaggi compressi dal racconto televisivo o trasformati in comunicati stampa da un’azienda direttamente interessata:

OPL 245, la storia del blocco petrolifero
Gela e la questione ambientale

OPL 245, la storia del blocco petrolifero

 

SAGAENISHELL

La vicenda intorno al blocco petrolifero OPL 245, uno dei più ricchi giacimenti offshore nigeriani di petrolio, inizia quasi 20 anni fa. Nella primavera del 1998, durante l’ultimo anno del governo del generale Abacha, le cui politiche favorirono in Nigeria miseria, violazione di diritti umani e una grande corruzione (nel 2004, nella classifica dei capi di stato più corrotti della storia arrivò in quarta posizione): il suo ministro del Petrolio, Dan Etete, assegnò la licenza del giacimento in questione alla società “Malabu Oil e Gas Limited”, fondata pochi giorni prima, in cui, racconta Gabriele Capolino su Milano Finanza, erano soci Mohammed Sani Abacha (figlio del dittatore), Kweku Amafagha (lo stesso Etete sotto falsa identità) e un terza persona.

Il prezzo per la “signature bonus” (un sistema di pagamento comune nei paesi che producono petrolio) fu di 20 milioni di dollari, dei quali la Malabu pagò sempre e solo 2 milioni.

L’anno successivo, però, il generale morì e un nuovo governo, guidato da Obasanjo, prese il potere. Nel 2001, il nuovo presidente revoca la concessione alla società nigeriana: «Etete ed Abacha hanno abusato della loro posizione in passato, quando in carica, hanno assegnato a loro stessi l’OPL 245 a un prezzo ridicolo». La licenza per il pozzo petrolifero fu messa di nuovo in vendita. Alla gara parteciparono varie compagnie tra cui Shell, che vinse con un’offerta di 210 milioni di dollari, un valore dieci volte superiore rispetto a quello stabilito per Malabu da Etete nel 1998.
La società petrolifera anglo-olandese, però, scrive l’Economist, «non pagò immediatamente, per ragioni mai spiegate, ma iniziò a spendere molti soldi per le attività di esplorazione del blocco».

La Malabu non si arrese e citò in giudizio il governo. Dopo numerose controversie legali, nel 2006 si arrivò a un nuovo accordo che prevedeva la restituzione del blocco alla società nigeriana allo stesso prezzo pagato dalla Shell.

Accordo Malabu
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Fonte: Royaldutchshellplc.com.

Shell rimase incredula, pur avendo, continua il giornale finanziario britannico, «una profonda conoscenza di come si lavora in Nigeria grazie alla sua lunga e spesso accidentata storia nel paese». Reagì portando il governo di Obasanjo davanti all’Icsid (International Centre for the Settlement of Investment Disputes) della Banca Mondiale.

La Malabu, una volta tornata in possesso del blocco petrolifero OPL 245, cercò investitori tramite l’aiuto di un ex diplomatico russo, Ednav Agaev. Alcune società mostrarono interessamento ma poi si allontanarono spaventate dalle controversie legali tra il governo nigeriano e la Shell.
Nel frattempo, Dan Etete nel novembre del 2007, venne condannato in Francia per riciclaggio a tre anni di carcere e a una multa di 300mila euro: per il giudice, al termine di un processo incentrato su tangenti ricevute da investitori stranieri quando era al governo, aveva infatti usato questi soldi per acquistare una villa in Francia e mobili in stile art deco per il valore di un milione di euro.

Eni, Shell e l’affare da 1,3 miliardi di dollari

Eni, guidata all’epoca da Paolo Scaroni entra in gioco nell’affare, in quanto era titolare di un pozzo petrolifero limitrofo. Spiega l’Economist che l’ingresso del colosso petrolifero italiano avviene tramite «Emeka Obi, un nigeriano rappresentante della “Energy Venture Partners” (ndr società creata nelle British Virgin Islands)». Per tutto il 2010 ci furono vari incontri a Milano e a Parigi tra Eni, Obi, Agaev e la Malabu per discutere della compravendita della licenza, dove la società italiana presenta due offerte non vincolanti. Il 30 ottobre del 2010 Eni fa una terza offerta a Malabu, del valore di 1 miliardo e 260 milioni di dollari per rilevare il 100% della licenza. Ma la proposta fu rifiutata perché ritenuta troppo bassa.

Le trattative proseguono, fino al mese successivo, quando le parti in causa vengono a conoscenza del fatto che il figlio dell’ex generale Abacha, Mohamed (con una quota di società nella Malabu insieme ad Etete), aveva avviato un procedimento di ingiunzione in relazione alla vendita del blocco, per ottenere il riconoscimento della sua partecipazione nella società. Una richiesta che mostrava lotte interne alla Malabu tra gli azionisti e che metteva in dubbio la piena titolarità della licenza del blocco petrolifero. Ciò spinse Shell ed Eni a rinunciare e ad abbandonare il tavolo di un possibile accordo con la Malabu.

Alla fine del 2010 partirono le negoziazioni finali con un nuovo schema di contrattazione: non più con la Malabu e l’intermediazione della EVP di Obi, ma direttamente tra Eni, Shell e il governo nigeriano. La nuova ipotesi di accordo prevedeva la revoca della licenza alla Malabu (con un risarcimento economico) e una nuova da rilasciare a Eni e Shell.

L’affare si concluse nell’aprile del 2011. La Malabu firma un contratto con il governo nigeriano in cui rinuncia ai suoi diritti su OPL 245 in cambio di un compenso di 1 miliardo e 92 milioni di dollari.
Inoltre, scrive Financial Times, «in un contratto separato con le autorità nigeriane, sempre firmato a fine aprile, le due compagnie si impegnavano a pagare una “signature bonus” di 207 milioni di dollari (oltre a 1,1 miliardi di dollari), che avrebbero depositato in un conto presso la banca JP Morgan a Londra» per ottenere la licenza del blocco petrolifero. La conclusione positiva dell'operazione portò anche alla rinuncia del procedimento contro il Governo nigeriano aperto da Shell davanti alla Banca Mondiale con la Malabu, su richiesta presentata dalle parti in causa.

L’accordo quindi è stato diviso in due operazioni. «Shell ed Eni – spiega l’Economist – hanno pagato 1,3 miliardi di dollari il governo nigeriano. Poi, una volta che Malabu ha ceduto i suoi diritti sul blocco, il governo ha tolto 207 milioni di dollari di “signature bonus” mai precedentemente pagati e trasferito poco meno di 1,1 miliardi di dollari a Malabu». Agaev, ex intermediario di Malabu, spiega così al giornale finanziario britannico questa operazione: «è stata come una transazione “a sesso sicuro”, con il governo che ha agito come un preservativo tra i compratori e il venditore».

Raccontava infatti il procuratore generale della Federazione Mohammed Adoke Bello, nel maggio del 2012, che lo Stato ebbe un “ruolo di facilitatore” per risolvere le questioni rimaste aperte tra la Malabu, Shell ed Eni: «a sostegno dell'accordo, Shell ed ENI hanno accettato di pagare Malabu attraverso il governo federale in qualità di debitore, la somma di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per la risoluzione e a rinunciare a qualsiasi pretesa, interessi o diritti in connessione al blocco 245».

Anche il giudice americano Bernard J. Fried, nel corso del procedimento legale alla Corte degli Stati Uniti, avviato da ILC (una compagnia registrata alle Isole Vergini britanniche) contro Malabu, ha descritto così il ruolo svolto nella trattativa dal governo della Nigeria: le autorità nigeriane hanno agito come «una “testa di legno” (ndr nel testo originale “straw man”) che gestiva 1,1 miliardi di dollari per il pagamento finale per Malabu».

Le due compagnie europee, fin dal 2011, hanno sempre respinto queste ricostruzioni, affermando di aver effettuato il pagamento solo al governo nigeriano, in conformità con le leggi del paese.

A chi vanno i soldi dell'accordo?

Anche la destinazione dei soldi dell’accordo è stata oggetto di indagini (giornalistiche e non). Il procuratore generale Adoke nel 2012 definì “senza fondamento” la accuse della stampa locale nigeriana secondo cui i soldi girati al governo sarebbero finiti nelle tasche di funzionari pubblici. Ma Premium Times, quotidiano online nigeriano, rispose che Adoke stava mentendo, confermando la notizia delle tangenti.

Nello stesso anno il giornalista Idris Akinbajo, sullo stessa testata, pubblicò un articolo in cui raccontava come la Malabu una volta ottenuto i soldi abbia «successivamente trasferito il denaro ad altre società fasulle con indirizzi falsificati». Al riguardo, sempre nel 2012, la Commissione Economica e Finanziaria di Crimini (EFCC) in Nigeria aveva spiegato come le indagini condotte fino a quel momento avevano rivelato «un quadro nuvoloso associato a rapporti fraudolenti».

Anche in questo caso Eni e Shell hanno sempre specificato di essere «estranei ai flussi finanziari successivi alla corresponsione del pagamento fatto al governo nigeriano in cambio del rilascio della licenza OPL 245».

Il ruolo di Bisignani e la causa di Obi alla Malabu

In Italia, nell’estate del 2010 intanto, l’inchiesta della Procura di Napoli sulla P4, che tocca una presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell'ambito della pubblica amministrazione e della giustizia, riempie le pagine dei giornali. Uno degli indagati di spicco è Luigi Bisignani, faccendiere e uomo con potenti conoscenze politiche-istituzionali attivo fin dalla prima Repubblica.

Proprio dalle intercettazioni (ambientali) pubblicate dai giornali, emergono le telefonate tra Bisignani e il numero uno di Eni, Paolo Scaroni. I due, come confermeranno entrambi nei rispettivi interrogatori, sono amici, con le proprie famiglie che si frequentano da anni. Dicono i pm che i due, «oltre a sentirsi e vedersi spesso», scrive Andrea Greco su Repubblica, «hanno rapporti d'affari»:

«A fine 2010, tramite intermediari, proprio Bisignani cercò di far concludere un affare all'Eni in Nigeria, dove la società è presente da mezzo secolo. Si trattava di comprare la parte contigua del giacimento 245, di fianco a un altro campo petrolifero dove il Cane a sei zampe opera».

Bisignani venne a conoscenza dell’affare che in quel periodo stava tenendo banco in Nigeria, tramite Gianluca Di Nardo, un finanziere lombardo che nell’ottobre del 2010 aveva patteggiato con la Sec americana per insider trading sul corso delle azioni Finmeccanica, e amico di Emeka Obi della Energy Venture Parteners.

Di Nardo spiega agli inquirenti come, dopo aver saputo che un «suo contatto africano Dan Etete voleva cedere una concessione petrolifera e si era già rivolto a Eni, Total e a Shell», avesse chiamato «proprio Bisignani (ndr che conosceva da 15 anni) perché era noto il suo legame con i vertici Eni». Durante l’inchiesta della procura di Napoli emerge con forza la pratica di contattare Bisignani per informarsi e chiedere di appalti e contratti pubblici, anche per quanto riguarda grandi gruppi come Enel, Poste, Rai e appunto Eni che lo stesso Bisignani definisce «l’ente più grosso amico mio».

Proprio riguardo il colosso petrolifero italiano, dalla carte emergono le chiamate tra Luca Cordero di Montezemolo e Bisignani: «Ho chiamato Bisignani (ndr spiega Montezemolo ai magistrati) per chiedere un intervento sull'Eni perché per me e nella mia prospettiva il Bisignani da sempre è quello che si occupa delle relazioni esterne dell'Eni e in particolare di Scaroni, cioè per me è sempre stato l'interfaccia di Scaroni e dell'Eni...».

Bisignani, quindi, una volta contattato da Di Nardo, chiama l’ad di Eni per parlargli dell’affare OPL 245. È lo stesso Scaroni che, durante l’interrogatorio con i pm, racconta come andò la telefonata, escludendo, anche, “categoricamente” che il suo storico amico svolgesse un qualche ruolo all’interno di Eni:

«Circa un anno fa il Bisignani mi disse che c’era una piccola banca d’affari inglese capeggiata da un nigeriano cattolico che diceva di avere un mandato per vendere una quota della Malabu; al riguardo io presentai il Bisignani al Descalzi che è il responsabile del settore Oil dell’Eni e cioè il soggetto Eni che doveva occuparsi della vicenda».

Ma, prosegue poi Scaroni, tale trattativa non andò «a buon fine». Come si è letto sopra, infatti, il ruolo di intermediazione di Obi (e quindi di Di Nardo e Bisignani) per l’Eni nell’acquisto di OPL 245 salta dopo i possibili problemi legali all’intervento del figlio dell’ex generale Abacha.

L’obiettivo dell’operazione partita dalla telefonata di Di Nardo, spiega Bisignani ai magistrati, era il guadagno: «Di Nardo avrebbe lucrato una mediazione se l’affare fosse andato in porto e anche io sicuramente avrei avuto la mia parte».

Emeka Obi, però, non si arrende e si rivolge alla High Court di Londra contro la Malabu per farsi riconoscere una quota (200 milioni di dollari) nell’affare concluso con Shell ed Eni e quindi certificare il ruolo di intermediazione giocato dalla sua “Energy Venture Partners” durante le operazioni di acquisto della licenza del giacimento petrolifero.

La campagna anti-corruzione di Global Witness e la sentenza di Londra a favore di Obi

Agli inizi del 2013 Global Witness - una ong britannica che si occupa di corruzione e si batte per leggi sulla trasparenza nelle transazioni internazionali, insieme ad altre associazioni (la compagnia britannica no-profit The Corner House, l’ong italiana Re:Common e l’attivista anti-corruzione nigeriano Dotun Oloko, che nel 2008 aveva denunciato una frode da parte di compagnie legate a James Ibori, governatore dello stato del Delta della Nigeria, che riciclavano fondi provenienti da vari governi occidentali e dalla Banca Europea per gli Investimenti), scrivono alla polizia britannica, documentando le diverse fasi dell’intero affare e ipotizzando la possibile natura corruttiva dell’accordo finale su cui Emeka Obi si stava rivalendo presso l’Alta Corte di Londra.

Nella lettera presentata alla polizia britannica si leggeva, infatti: «Per quanto riguarda il nostro impegno nella lotta contro la corruzione in Nigeria vogliamo chiedere formalmente un'indagine completa sulle attività di aziende e privati ​​negli appalti della OPL 245, in Nigeria».

In buona sostanza, scriveva la Reuters, le associazioni si chiedevano di fare luce sulla possibilità che il governo nigeriano fosse stato usato come intermediario per nascondere qualsiasi forma di accordo con Dan Etete, personaggio, come abbiamo visto, sospettato in diversi episodi di corruzione e condannato dalla Corte di Parigi nel 2007. A seguito di questo intervento, nel mese di giugno dello stesso anno, la polizia avviò un’inchiesta formale sulle trattative che portarono all’accordo e sul ruolo dei diversi soggetti coinvolti.

L’esposto non giungeva improvviso. Già dal 2012, infatti, Global Witness aveva iniziato ad acquisire documentazione e a ricostruire la “saga del blocco petrolifero OPL 245”. L’ong britannica, scriveva all’epoca Financial Times, pur non sostenendo illegalità da parte di Shell o Eni, si interrogava sull’impegno per la trasparenza delle due compagnie.

Tutto il caso OPL 245, scriveva Global Witness in un comunicato stampa di maggio 2012, costituisce un esempio chiaro e convincente del perché siano necessarie leggi che esigano maggiore trasparenza sulle proprietà aziendali e sui pagamenti che le compagnie fanno per il petrolio, il gas e i minerali.
Global Witness, pertanto, chiedeva a Shell ed Eni di rendere pubblici tutti i dettagli sugli accordi presi per acquistare la licenza del blocco petrolifero, di sostenere e non indebolire leggi e direttive sulla trasparenza negli USA e nell’Unione Europea.

In particolare la Global Witness si stava concentrando su quanto stava emergendo dalle ricostruzioni condotte dalla giudice Gloster nella disputa tra “Energie Venture Partners” e “Malabu Oil & Gas” presso l’Alta Corte britannica.

Nel corso del processo, infatti, Dan Etete aveva accusato di corruzione l’Eni, facendo i nomi dei vertici e di manager della compagnia italiana: Scaroni, Descalzi, Armanna e Casula. Durante la deposizione, Etete, come riporta Paolo Biondani sull’Espresso, lo scorso maggio, «ha giurato di aver subito una “frode criminale”, orchestrata dai quattro massimi dirigenti del gruppo italiano». Inoltre, Etete aveva negato il ricorso a intermediari (e, quindi, a Emeka Obi), perché, a suo dire, aveva conosciuto in precedenza Eni, quando era ministro del Petrolio. Anzi, Obi, secondo l’ex ministro nigeriano, era un intermediario della compagnia petrolifera italiana.

Nella ricostruzione di Etete, prosegue Biondani, la richiesta della tangente sarebbe avvenuta a Lagos, nel dicembre 2009, quando l’allora vicepresidente dell’Eni in Nigeria, Vincenzo Armanna, avrebbe confidato di voler alzare di 200 milioni il prezzo dell’offerta per poter pagare Obi. Ma l’Eni ha sempre smentito qualsiasi accusa di corruzione.

Il 17 luglio viene emessa la sentenza. La giudice Gloster non diede credito alla deposizione di Etete (e alle sue accuse nei confronti dei manager Eni) e accolse parzialmente le richieste di Obi, disponendo il pagamento da parte di Malabu di 110 milioni di dollari (pari all’8,5% dell’intero ammontare dell’affare, ovvero 1,3 miliardi di dollari) per le sua intermediazione nell'affare, con grande stupore di Global Witness, Re:Common e The Corner House, esposte in prima linea nella lotta alla corruzione durante il processo.

«È stato uno scandalo – affermò a caldo Simon Taylor di Global Witness – che la Corte non sia posta il problema della legittimità dell’affare e l’intera vicenda sia stata liquidata come una questione di parcelle e compensi da riconoscere». Facendo riferimento alla documentazione presentata alla polizia britannica agli inizi del 2013, Taylor si disse convinto che il denaro sarebbe dovuto restare congelato fino a quando le autorità investigative inglesi non avessero terminato il loro lavoro.

La procura di Milano indaga Scaroni e Descalzi per corruzione internazionale

A inizio del 2014 una commissione speciale d’inchiesta del Parlamento nigeriano, creata due anni prima per indagare proprio sull’affare OPL 245, chiede, al termine del proprio lavoro, che la Nigeria revochi a Shell ed Eni la licenza del blocco petrolifero perché l’accordo con cui era stata assegnata è «contrario alla legge nigeriana» e non trasparente.

In Italia, il mese successivo la richiesta della commissione, esce la notizia che la procura di Milano, con il pubblico ministero Fabio De Pasquale, sta indagando “in gran segreto” Eni proprio riguardo la questione blocco petrolifero. Scrive Marco Lillo su il Fatto Quotidiano che i magistrati di Milano si sono incontrati con i colleghi di Napoli per acquisire le intercettazioni dell’inchiesta sulla P4 in cui «Bisignani parlava dell’affare nigeriano con il suo amico Paolo Scaroni, ad di Eni». Nel fascicolo del pm De Pasquale, spiega ancora Lillo, ci finiscono anche le carte del processo londinese in cui sono state ricostruite «la cena del direttore generale Eni Claudio Descalzi il 4 febbraio 2010 all’hotel Principe di Savoia di Milano con Etete, Obi e Agaev; le due offerte inviate a Malabu da Eni per il 40 per cento; gli incontri tra Obi e Descalzi nel periodo agosto-ottobre 2010 e l’offerta a Malabu per il 100 per cento di OPL 245 presentata a Malabu e non al governo il 30 ottobre del 2010».

In aprile, Paolo Scaroni (accompagnato dal capo dell’ufficio legale dell’Eni, Massimo Mantovani), presenta davanti alla Commissione Industria al Senato, i risultati del gruppo. Nell’occasione, tra le altre cose, gli uomini dell’Eni rispondono anche ad alcune domande dei senatori proprio sull’affare nigeriano.

Mantovani spiega che il colosso petrolifero italiano «non ha avuto alcun tipo di rapporto contrattuale con la società Malabu», né di «aver utilizzato alcun tipo di intermediario» ma di aver fatto «unicamente delle transazioni con lo Stato nigeriano»: «i pagamenti [...] sono andati, e ci siamo assicurati, in un conto del Tesoro della Nigeria. Per essere sicuri che i pagamenti fossero fatti lì». Dal canto suo, invece, Scaroni nega di aver parlato con Bisignani, «nè al telefono né in altro modo del blocco 245».

Contraddicendosi però, in questo caso, con quanto sostenuto da lui stesso davanti ai pm di Napoli nel marzo di tre anni prima. A maggio, comunque, l’azienda fa sapere di aver affidato a uno studio legale americano indipendente le indagini sulla transazione di Eni e Shell con il governo nigeriano nel 2011. Il risultato è che «non sono state rivelate evidenze di condotte illecite».

A luglio dello stesso anno, quella che a marzo era solo un'indiscreazione di stampa, diventa ufficiale: Eni è indagata per l’acquisizione nell’aprile del 2011 del giacimento petrolifero OPL 245 al largo della Nigeria: «l’ipotesi contestata è la corruzione internazionale» per responsabilità di tipo amministrativo. La notizia esce su il Fatto Quotidiano sempre a firma di Marco Lillo. Eni, in una nota conferma la notizia, ribadendo però la correttezza del suo operato e garantendo la «massima collaborazione» con la magistratura. Il gruppo afferma anche che «nessun accordo commerciale è stato raggiunto da Eni con la società Malabu precedente titolare della concessione».

Spiega infatti Luigi Ferrarella, sul Corriere della Sera, che a essere contestato dai magistrati è l’intero pagamento di 1 miliardo e 98 milioni di dollari nell’aprile 2011, perché secondo l’ipotesi accusatoria «il pagamento, benché effettuato da Eni su un conto del governo nigeriano [...] sin dall’inizio fosse in realtà destinato a beneficiare poi una società (la Malabu Oil & Gas Ltd) dietro la quale si nascondevano interessi dell’ex ministro nigeriano del petrolio, Dan Etete». Inoltre, è indagato Gianluca Di Nardo, legato da un lato a Emeka Obi, l’uomo di affari che si relazionava con i nigeriani, e dall’altro a Luigi Bisignani, che garantiva un contatto diretto con Paolo Scaroni.

Un’ipotesi accusatoria che, scrive ancora il giornalista, deve “quasi tutto” all’impulso delle azioni della Global Witness e Re:Common, alle carte depositate nel processo civile davanti la High Court di Londra tra il mediatore Obi e la Malabu, agli atti del Parlamento nigeriano che lo scorso 18 febbraio ha chiesto al governo di revocare la concessione per scarsa trasparenza e alle intercettazioni della procura di Napoli sulla P4.

A settembre c’è un’ulteriore svolta che arriva dalla procura di Milano. Paolo Scaroni, ex ad di Eni dopo il nuovo giro di nomine stabilito dal governo Renzi, e Gianluca Descalzi, sono indagati (insieme, tra gli altri, a Bisignani, Etete, Armanna e Casula).
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ribadisce la fiducia nella scelta fatta.

Secondo i magistrati milanesi, i due manager avrebbero «organizzato e diretto l’attività illecita» di corruzione in Nigeria. Si apprende, inoltre, che dalla procura di Milano era arrivata la richiesta alla Southwark Crown Court di Londra del congelamento di 83 milioni di dollari (in aggiunta a già 110 milioni in Svizzera) del mediatore nigeriano Emeka Obi e dell’ex ministro nigeriano del petrolio. Secondo infatti quanto scritto dal pm Fabio De Pasquale:

«Eni ha ottenuto un profitto dalla partecipazione allo schema di corruzione: questa non è una asserzione implicita, ma un fatto storico. Eni ha ottenuto la licenza a condizioni molto favorevoli e senza gara»

E riguardo al pagamento del 2011 effettuato dal colosso italiano allo Stato nigeriano di 1 miliardo e 90 milioni di dollari, il magistrato, spiega Ferrarella, aggiunge che «mentre oltre 800 milioni sarebbero rimasti in Nigeria “destinati in considerevole parte a remunerare pubblici ufficiali”, la somma invece di 215 milioni, contesa a Londra nella causa civile tra Obi ed Etete, “era certamente destinata a remunerare pubblici ufficiali e a pagare tangenti a manager Eni e agli intermediari Obi/Agaev e Di Nardo/Bisignani.

Questa è la ragione per cui le somme ancora giacenti debbono essere bloccate come profitto di un complesso schema di corruzione set up by Eni, cioè “messo in atto da Eni” per “garantirsi la concessione OPL 245”». Si viene inoltre a conoscenza che la giudice inglese, che aveva deciso sulla causa di Obi contro la Malabu, quando definiva le accuse di Etete di corruzione riguardo l’accordo con Eni e Shell non supportate da fatti, non era a conoscenza né delle intercettazioni napoletane del 2010 né dell’interrogatorio di Bisignani a Milano nel 2014, in cui afferma che con Di Nardo, con cui avevano «svolto un’attività nelle trattative», aspettavano che Obi gli riconoscesse «una parte dei compensi che avrebbe ricevuto da Etete». Un riconoscimento che «non poteva provenire da Eni perché Eni non paga commissioni…».
Frasi che, spiega Paolo Colonnello su La Stampa, per i pm «insieme ai “contatti” di Scaroni e Descalzi con il mediatore nigeriano, non depongono a favore della difesa di Eni che rivendica di aver agito con trasparenza».

Insomma, per la procura di Milano il pagamento diretto da parte di Eni e Shell al governo nigeriano era solo tattica. «Una mossa (niente più intermediari, apparente rapporto esclusivo con lo Stato) – racconta il Corriere della Sera – finalizzata a vestire di maggiore trasparenza il perfezionamento nel 2011 di un accordo tra Eni e Malabu che invece in sostanza garantisse i medesimi impegni tangentizi sottesi per i pm alla prima fase della negoziazione quella abortita nel 2010», cioè quella in cui avevano lavorato a vario titolo gli «allora numeri uno e due di Eni, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi (oggi amministratore delegato), il loro manager operativo Roberto Casula, i mediatori italiani Luigi Bisignani e Gianluca di Nardo, l’intermediario nigeriano Obi e l’ex ministro Etete».

Eni, da parte sua, tramite un comunicato stampa, fa sapere di stare prestando la massima collaborazione alla magistratura e che la correttezza del proprio operato emergerà nel corso delle indagini. La società ribadisce inoltre «di aver stipulato gli accordi per l'acquisizione del blocco unicamente con il governo nigeriano e la società Shell» e che «l’intero pagamento per il rilascio a Eni e Shell della relativa licenza è stato eseguito unicamente al governo nigeriano». Descalzi, pochi giorni dopo la notizia, invia anche una lettera ai dipendenti Eni per affermare la correttezza dell’azienda nell’affare.

Il 22 settembre, sul proprio sito, Global Witness, pone 10 domande a Eni sul caso OPL 245, alla luce degli ultimi sviluppi dopo la richiesta del Parlamento nigeriano di revocare la licenza, le ipotesi d’accusa formulate dalla procura di Milano e il congelamento dei fondi destinati a Obi ed Etete da parte della Southwark Crown Court di Londra. Non era la prima volta che la ong britannica chiedeva alla compagnia petrolifera italiana di fare chiarezza sul suo operato riguardo la vicenda nigeriana.

Come fa notare Stefano Pasta su Famiglia Cristiana, da almeno due anni, infatti, era intervenuta, insieme a Re:Common, Amnesty International e la Fondazione di Banca Etica, per denunciare l’opacità dell’intera vicenda, sia pubblicamente sia intervenendo alle assemblee degli azionisti Eni del 10 maggio 2013 e dell’8 maggio 2014. Solo in quest’ultima occasione Eni aveva provveduto a rispondere alle numerose questioni sollevate.

Le domande, come riportate in questi due report (uno a pp. 45-50, l’altro a pag. 61-63 e 104-106), riguardavano i rapporti tra Scaroni, Bisignani e Descalzi, il ricorso a intermediari (Obi e Di Nardo) da parte della compagnia nel corso delle trattative, la destinazione dei soldi, il ruolo avuto dal governo nigeriano nelle contrattazioni e quello di Descalzi nelle negoziazioni. Eni si era difesa sottolineando una volta di più la sua estraneità alle controversie su OPL 245, che riguardavano esclusivamente Malabu, Shell e governo nigeriano e che, di fronte alla situazione caotica all’interno di Malabu, aveva deciso di ritirarsi da ogni trattativa diretta.

Rispetto alle domande sui rapporti tra Bisignani, Scaroni e Descalzi, la compagnia aveva fatto notare di non essere in alcun modo implicata nei procedimenti penali condotti dal pubblico ministero di Napoli e che Descalzi non aveva avuto alcun ruolo operativo nell’operazione. Risposte, quest'ultime, date prima degli sviluppi dell'inchiesta milanese.

A ottobre, infine, esce un articolo su Repubblica a firma di Carlo Bonini, un’intervista a un ex-manager indagato di Eni che, con gli altri, gestì l’affare del blocco OPL 245: Vincenzo Armanna. L’uomo dice che Descalzi era stato al servizio di Dan Etete e conferma le accuse dell’ex ministro del petrolio nigeriano, secondo cui parte dei soldi (200 milioni) pagati per l’acquisto della licenza del giacimento erano una tangente per i dirigenti italiani. L'ex manager di Eni, però, nega di essere coinvolto nella spartizione. «Armanna – scrive Bonini – avrebbe insomma a quel punto "la certezza che Obi avrebbe retrocesso parte della somma della sua mediazione agli italiani"». «E a rafforzarla – si legge ancora nell’articolo – sostiene contribuisca l'Attorney general (ndr il procuratore generale Adoke Bello) nigeriano che, nell'autunno 2010, quando la trattativa per l'acquisizione del giacimento sembra arenarsi, decide di fare la faccia feroce. "Minacciò di arrestarci tutti. E mi disse che sapeva che i 200 milioni di dollari di mediazione di Obi erano insieme "bribes", tangenti, e un ricatto a Etete"».

A quanto sostenuto da uno dei suoi ex uomini, Eni risponde ribadendo «l'estraneità dell'azienda da qualsiasi condotta illecita in relazione all'acquisizione del blocco OPL 245 in Nigeria. Prende atto delle dichiarazioni di Armanna a Repubblica che hanno evidenti profili diffamatori e che daranno seguito a tutte le azioni legali a tutela dell'immagine di Eni e dei suoi manager».

La puntata di Report, i tweet di Eni e le ultime notizie di Gatti

Poco più di un anno dopo, il 13 dicembre scorso, Report con un lungo servizio del giornalista Luca Chianca racconta la saga dell’acquisto della licenza del giacimento petrolifero OPL 245. Il programma di Milena Gabanelli parte dai soldi contesi nel processo civile a Londra tra la Energy Venture Partners di Obi e la Malabu di Etete per «ricostruire il percorso di quella che si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al mondo». Tramite interviste ad alcuni protagonisti della vicenda come Bisignani sul proprio ruolo svolto nell’operazione, alle ong Global Witness e Re:Common, a giornalisti che si occupano della vicenda da anni come Claudio Gatti del Sole 24 ore, vengono toccati i punti più dibattuti e controversi.
Durante il servizio, che non contiene falsità, non vengono comunque rivelati fatti nuovi della questione nigeriana, trattandosi appunto di una ricostruzione giornalistica.

Eni, dopo aver ricevuto le domande di Report nel periodo precedente la messa in onda della puntata, decide di non rispondere. Prepara però una raccolta ordinata di comunicati stampa e documenti e li lancia su Twitter poco prima la messa in onda del programma, con vari tweet che mostrano tabelle riassuntive delle posizioni del gruppo industriale italiano ribadite in questi anni sulla vendita del blocco petrolifero.

Secondo Gatti, però, la versione dei fatti presentata da Eni in risposta a Report non rappresenterebbe correttamente la realtà. Documenti “interni a Eni” in suo possesso, dimostrerebbero, scrive il giornalista del Sole 24 ore, che non è del tutto vero che «Eni e Shell sono estranei ai flussi finanziari successivi alla corresponsione del pagamento fatto al governo nigeriano in cambio del rilascio della licenza OPL 245», come la compagnia spiega sul suo sito, e «che l’operazione d’acquisto era stata costruita a tavolino in quei giorni da ENI assieme a Malabu, Shell e al governo nigeriano in una serie di incontri in cui erano stati definiti i termini dell’accordo e soprattutto i termini dei pagamenti».

Eni ha risposto a Gatti prima su Twitter domandandosi se i documenti da lui mostrati fossero veri e dicendo quanto già sostenuto in altre occasioni: le email pubblicate dal giornalista pochi giorni prima sarebbero vecchie e datate. Noi avevamo chiesto spiegazioni al riguardo senza però ottenere chiarimenti.

L’ufficio stampa di Eni ha risposto privatamente al giornalista dichiarando che le email da lui divulgate si riferivano al periodo in cui si sono interrotte le trattative con Malabu, alla luce dei dubbi sollevati da contenziosi tra i suoi azionisti. «In sostanza», scrive l’ufficio stampa, «tali email sono riferite a una potenziale transazione tra Eni, Shell e Malabu che non si è mai realizzata».
Questa versione, ribatte Gatti sul suo blog, sarebbe accettabile se Malabu fosse stata totalmente esclusa dall’accordo finale. Invece, conclude il giornalista, i testi delle mail da lui pubblicate farebbero pensare che Malabu è stata coinvolta nelle negoziazioni fino alla fine.

La conferma del sequestro dei soldi di Obi dal tribunale inglese e la richiesta di una commissione d'inchiesta su Eni

Intanto, il 15 dicembre, esce la notizia che il tribunale di Londra ha confermato il sequestro (qui il testo della decisione) di circa 85 milioni di dollari su un conto bancario riferibile a Emeka Obi, bloccati oltre un anno fa su richiesta della procura di Milano nell'ambito dell'inchiesta sulle presunte tangenti per l'acquisizione da parte dell'Eni della licenza per l'esplorazione di un giacimento petrolifero OPL 245.

Scrive Paolo Biondani su l’Espresso che i giudici «nella breve motivazione dell'attesissimo verdetto, chiariscono di non essere competenti a valutare il reato di corruzione, giudizio che spetterà alle autorità italiane, ma riconoscono che la Procura di Milano ha fornito molti gravi indizi sulla effettiva sussistenza di una "enorme corruzione che coinvolge il governo nigeriano in carica dal 2011 fino al 2015"». L’azienda petrolifera italiana ha commentato la decisione del tribunale inglese dichiarando di non essere parte nel procedimento in questione e che pertanto risulta «difficile che possa essere una decisione 'contro Eni' (ndr Eni si riferisce a come la notizia era stata lanciata da Report su Twitter)».

Dopo la puntata del programma della Gabanelli anche la politica si è mossa. Dal M5S è stata sollecitata la ripresa (una prima volta era stata richiesta a giugno scorso) dell'esame della proposta di istituzione di una “Commissione parlamentare di inchiesta sull'ENI”.
Il senatore Tomaselli (PD) ha rassicurato i senatori dei Cinque Stelle che non vi è alcuna resistenza nei confronti dell'iniziativa in questione, annunciando la massima disponibilità alla ripresa del suo iter, che non è proseguito per l'intensa attività delle due Commissioni coinvolte.

La richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Milano per De Scalzi e Scaroni e l’inchiesta di Buzzfeed e Il Sole 24 Ore

Durante l’assemblea degli azionisti Eni, a maggio del 2016, Re:Common e Fondazione Responsabilità Etica rivolgono nuove domande all’azienda petrolifera riguardo il giacimento OPL 245, in particolare sull’indagine interna condotta – come rivelato da Eni nel 2015 – “da uno studio legale americano, che nei procedimenti giudiziari nel Regno Unito viene indicato come Pepper Hamilton”. Per capire se i risultati del rapporto sono affidabili, i quesiti si concentrano in particolare sulle modalità dell’indagine condotta e su quali documenti è stata effettuata. Lo stesso giorno l’Eni comunica, in una nota di risposta a un articolo del Fatto Quotidiano, che “lo studio americano che ha svolto la verifica indipendente ha preso in esame tutta la documentazione interna a Eni (oltre a quella acquisita dalla Procura), inclusa la corrispondenza email dei manager della società” e ribadisce quanto già detto un anno prima: “tale analisi non ha trovato evidenza di condotte illecite”.

Secondo, però, un articolo pubblicato il 15 gennaio 2017 da Stefano Feltri e Carlo Tecce sul Fatto Quotidiano, la versione di Eni sarebbe incompleta perché ometterebbe di segnalare alcuni punti presenti nel rapporto dello studio Pepper Hamilton. Dal documento, scrivono i due giornalisti, emergono tre punti in particolare: 1) Eni sapeva già dal 2007 che dietro la società Malabu c’era Dan Etete, che nel 1998, da ministro del petrolio del governo nigeriano, aveva assegnato proprio alla Malabu (la cui proprietà era schermata) il blocco OPL 245. Dal 2010, inoltre, il Risk Advisory Group (cioè l’intelligence interna) di Eni, aveva ricostruito i rapporti stretti tra Etete e l’allora presidente della Nigeria, Jonathan Goodluck; 2) nel 2009 Eni inizia a trattare con l’intermediario Emeka Obi. A lui viene dato un “gettone di partecipazione” (participation fee) di 500mila euro per poter avere accesso a una data room virtuale relativa a OPL 245. Un pagamento che destò dubbi nel collegio sindacale dell’azienda petrolifera, che chiese un’inchiesta supplementare allo studio legale, che a sua volta coinvolse gli investigatori della Fg International Solutions. La nuova indagine non trovò evidenze credibili per stabilire che quei soldi erano una tangente e che finirono al governo nigeriano; 3) nel 2011 “durante i negoziati e l’esecuzione dell’accordo, il personale di Eni era consapevole del vincolo contrattuale in base al quale il 100% di 1,092 miliardi di dollari da pagare al governo nigeriano doveva poi essere pagato a Malabu”.

Sempre lo scorso gennaio, il giudice John Tosho dell’Alta Corte federale di Abuja, in Nigeria, stabilisce che il controllo del giacimento OPL 245 debba essere trasferito in via cautelare al governo in attessa dello sviluppo delle indagini sui sospetti di corruzione per l’accordo che sei anni fa ha concesso i diritti di sfruttamento del giacimento a Eni e Shell. Un provvedimento emesso dopo la richiesta della Economic and Financial Crimes Commission (Efcc), l’agenzia nigeriana che indaga sui crimini finanziari. Cinque giorni dopo la decisione dell’Alta Corte, le due compagnie petrolifere presentano un ricorso alla Federal High Court nigeriana per chiedere l’annullamento del provvedimento di sequestro, ritenendolo illegittimo.

Intanto, a febbraio l’inchiesta della Procura di Milano sul presunto pagamento di tangenti in Nigeria arriva a una svolta, con la chiusura delle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio, per il reato di corruzione internazionale, dell’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, la stessa Eni e altre 10 persone: “oltre a Descalzi – scrive Il Sole 24 Ore – ci sono anche il suo predecessore alla guida dell'Eni, Paolo Scaroni, l’ex capo della divisione esplorazioni, Roberto Casula, l’ex vicepresidente di Eni Nigeria, Vincenzo Armanna, Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo, oltre a cittadini stranieri considerati tra gli intermediari delle tangenti”. Sulla richiesta di rinvio a giudizio, si dovrà ora pronunciare un Gup (giudice dell’udienza preliminare) del tribunale di Milano. Il prossimo 20 aprile dovrebbe iniziare l’udienza preliminare.

Secondo la ricostruzione dei Pubblici ministeri milanesi il miliardo e 92 milioni di dollari pagati nel 2011 da Eni e Shell e versato su un conto ufficiale del governo della Nigeria per ottenere la concessione petrolifera OPL 245 sono stati così divisi: “almeno 250 milioni sono (...) andati all’ex ministro del Petrolio Dan Etete, che quel giacimento si era in precedenza fatto assegnare schermandosi dietro la società Malabù; 466 milioni a politici nigeriani quali il presidente Jonathan Goodluck, i ministri della Giustizia Adoke Bello, del Petrolio Diezani Alison Madueke e della Difesa Aliyu Gusau; 10 milioni all’ex ministro della Giustizia Bajo Oyo, 11 al senatore Ikechukwu Obiorah, 54 ad Abubaker Aliyu, tesoriere dei corrotti locali; e ancora 215 milioni fatti sequestrare dai pm nel 2014 fra Gran Bretagna e Svizzera nelle diatribe legali tra Etete e il mediatore nigeriano Emeka Obi”, scrivono Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella sul Corriere della Sera.

Nella stesso mese della richiesta di rinvio a giudizio, Eni comunica i risultati di ulteriori “verifiche forensi” – basate su nuovi atti e sulla documentazione ottenuta dalla chiusura delle indagini della Procura di Milano nel dicembre 2016 – sull’acquisizione del giacimento svolte da uno “studio legale statunitense indipendente”. Nel comunicato si legge che “vengono confermate le conclusioni già raggiunte nel 2015”, con la precisazione “che non sono emerse evidenze di condotte corruttive in relazione alla transazione”. A marzo, inoltre, Eni e Shell riacquisiscono il controllo del blocco OPL 245, dopo che il ricorso, presentato all’Alta corte federale di Abuja contro la decisione di gennaio scorso, era stato accolto. Una decisione contro cui, annuncia a fine dello stesso mese, il presidente della Efcc, Ibrahim Magu, in un’intervista all’Espresso, verrà presentato ricorso (qui la replica di Eni). Magu, inoltre, afferma anche di avere le prove che «nella vendita dell’Opl 245, fin dall’inizio, c’è stata corruzione, abuso di potere e conflitto d’interessi» e che per questo chiederà che le due compagnie vengano sanzionate con «una multa almeno di 2 miliardi di dollari».

Il 9 aprile Buzzfeed e Il Sole 24 Ore pubblicano due articoli, frutto di un’inchiesta congiunta, che porta alla luce centinaia di comunicazioni tra funzionari della Shell (che insieme a Eni ha acquistato il blocco petrolifero OPL 245). Gli scambi via email mostrano come, al momento dell’accordo con il governo nigeriano, alti dirigenti della compagnia petrolifera olandese fossero a conoscenza che il denaro sarebbe andato alla Malabu, la società di facciata collegata all’ex ministro del petrolio Dan Etete, scrive Buzzfeed. Per anni Shell ha negato che l’accordo coinvolgeva Etete sostenendo di aver trattato esclusivamente con il governo nigeriano.

Stando alla ricostruzione del sito americano e del quotidiano italiano, dalle email, datate tra il 2008 e il 2010, verrebbe fuori che i dirigenti della compagnia olandese sapevano che i soldi della transazione con il governo nigeriano sarebbero finiti a Etete (o a una società a lui collegata), che l’ex ministro del petrolio avrebbe girato quei soldi ad altre persone (molte delle quali vicine al governo della Nigeria) e che – scrive Claudio Gatti sul Sole 24 Ore – “quella struttura di accordo aveva il sostegno di tutti, incluso Peter Voser (ndr: l’allora amministratore delegato), Simon (ndr: l’allora direttore finanziario Simon Henry) e Peter Rees (ndr: l’allora direttore legale)”. In un’email del 2009, si legge su Buzzfeed, un dipendente della Shell descriveva l’accordo come “una grande mela”, aggiungendo che la compagnia petrolifera “non poteva permettersi di perderlo”.

Le email più significative sono quelle inviate da alcuni funzionari, ex membri del MI6 (ora indagati per corruzione internazionale dai pm milanesi), i servizi segreti britannici, che informavano i loro superiori di quanto appreso da loro fonti locali sulla destinazione finale del denaro. Il 5 gennaio 2009, John Copleston, un ex agente segreto passato a lavorare per Shell, scriveva:

Ho incontrato il mio uomo nel Delta. Ha parlato alla signora E(tete) questa mattina. Secondo lei, E(tete) va dicendo che potrà tenere solo 40 dei 300 milioni che gli vengono offerti - il resto servirà a pagare gli altri.

Ancora più diretto, prosegue Gatti, è il suo collega Guly Colegate che, in email successive, raccontava che Etete “aveva bisogno di forzare la mano perché aveva promesso regalie ad altri”, che “il presidente (ndr: della repubblica nigeriana) vuole concludere la questione 245 in fretta, spinto dall’aspettativa dei fondi che Malabu riceverà e dei contributi politici che ne deriveranno di conseguenza” e che era in possesso di “una lettera del Presidente che conferma il 100% della licenza a Malabu, (...) chiaramente un tentativo di far arrivare una montagna di soldi a GLJ (ndr: Goodluck Jonathan) come parte di qualsiasi transazione. La nostra fonte dice che questa lettera ‘ha seriamente danneggiato la trattativa’ in quanto Etete è adesso ‘incontrollabile’”.

I dirigenti di Shell, però, si legge negli articoli di Buzzfeed e Il Sole 24 Ore, non erano preoccupati del contesto in cui si stava consolidando l’affare. In un’email del 16 dicembre 2010, il direttore legale per l’esplorazione e la produzione, Keith Ruddock, raccontava di essere stato contattato dai rappresentanti di alcune Ong impegnate nella Extractive Industries Transparency Initiative (un’iniziativa internazionale che coinvolge governi, Ong e società private, lanciata per promuovere standard di trasparenza e responsabilità nel settore minerario-petrolifero e sottoscritta sia da Shell sia da Eni) per essere rassicurati che Etete non traesse benefici dall’accordo e di aver spiegato loro che “Shell era consapevole del passato del Capo E. e che si comporterà di conseguenza”.

Sentita da Buzzfeed e Il Sole 24 Ore, Shell ha risposto tramite un suo portavoce che, sulla base delle informazioni loro disponibili, le accuse della procura di Milano sono prive di fondamento giuridico e che “qualora, in ultima analisi, ci fossero prove di pagamenti impropri da parte di Malabu o di altri a favore di funzionari governativi, la nostra posizione è che nessuno di questi pagamenti è stato effettuato con la conoscenza, l'autorizzazione o per conto di Shell”.

L’11 aprile, dopo che Global Witness ha diffuso un nuovo rapporto su quanto emerso dalle email pubblicate due giorni prima da Buzzfeed e Sole 24 Ore, la Shell ha modificato la propria posizione e ammesso di essersi impegnata con Malabu ed Etete prima di firmare il contratto con il governo nigeriano, riporta BBC.

Dicembre 2017: Rinviati a giudizio i vertici di Eni, l'ex ministro del petrolio nigeriano e le società Eni e Shell

La giudice per le indagini preliminari Giusi Barbara ha rinviato a giudizio l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex direttore esecutivo di Shell, Malcom Brinded, e altri tre ex dirigenti, l’ex dirigenti di Eni, Vincenzo Armanna, il mediatore Luigi Bisignani, l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete, e le società Eni e Shell in quanto persone giuridiche.

L’ipotesi è di “corruzione internazionale”, scrive Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. Secondo la Procura, lo schema di acquisto che vide protagonisti Eni, Shell e il governo nigeriano – che portò al pagamento della concessione su un conto vincolato del governo e non della società venditrice Malabu (dietro la quale c’era l’ex ministro Etete) – non sarebbe altro che una copertura formale per “replicare” la transazione saltata in precedenza, secondo la quale Shell ed Eni stavano per pagare Malabu attraverso due intermediari, l’ex diplomatico russo Ednav Agaev e il nigeriano Emeka Obi, “quest’ultimo suggerito a Scaroni (e da questi all’allora direttore Descalzi) da Bisignani, a sua volta in affari con il socio Gianluca Di Nardo”, ricorda Ferrarella.

Per l’accusa, “Descalzi avrebbe «personalmente tenuto i contatti» con Obi e con gli allora due dirigenti operativi Eni in Nigeria, Roberto Casula e Vincenzo Armanna; e, «informato della richiesta di commissioni, e ricevendo da Bisignani indicazioni» sulla trattativa, avrebbe poi «coordinato con Brinded in Shell la posizione delle due società, incontrando con Scaroni il presidente Jonathan per definire l’affare»”.

In un comunicato il Consiglio di amministrazione dell’Eni “ha confermato la massima fiducia in Descalzi”, convinta della “sua totale estraneità alle ipotesi di reato contestate”. Inoltre, Eni ha espresso “piena fiducia nella giustizia e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

Condannati i due mediatori Obi Emeka e Gianluca Di Nardo

Il Tribunale di Milano ha condannato in primo grado a 4 anni più la confisca di 140 milioni di euro per concorso in corruzione internazionale in Nigeria nel 2011 Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, i due mediatori nell’operazione di acquisto del blocco Opl 245 da parte di Eni e Shell.

Questa condanna, pur riguardando i due mediatori, “è una campana giudiziaria che suona pessimi rintocchi anche per Eni”, scrive Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera: “La sentenza su Obi e Di Nardo è, infatti, una indiretta pessima notizia per la società (e per i suoi coimputati vertice ed ex vertice, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, a giudizio con l’ex ministro nigeriano del Petrolio Dan Etete e una decina di altre persone nel rito ordinario iniziato l’altro ieri per la presunta corruzione nell'acquisto del giacimento Opl 245 in Nigeria) perché (...) presuppone che vi sia stata davvero corruzione internazionale di politici e burocrati nigeriani".

In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, Eni ha ribadito la correttezza del proprio operato nell’acquisizione di Opl 245 e di aver trattato e concluso l’operazione direttamente con il Governo nigeriano. La società ha confermato “la propria totale fiducia nell’operato dei giudici del dibattimento che si sta svolgendo presso la settima sezione dello stesso Tribunale” e ritiene che “in tale sede verrà effettuata una ricostruzione dei fatti completa ed esaustiva, rispetto a quella di cui disponeva il giudice del rito abbreviato, che poteva utilizzare solo le acquisizioni della pubblica accusa. Eni è certa che tale ricostruzione potrà definitivamente consentire di provare la totale estraneità della società a qualsiasi ipotesi corruttiva”.

Il Tribunale di Milano assolve tutti gli imputati e le due società

Il 17 marzo 2021, i giudici di Milano hanno assolto in primo grado tutti gli imputati, comprese le società Eni e Shell, per la presunta corruzione internazionale legata all'acquisizione dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245. Il tribunale ha così scagionato oltre all'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, anche il suo predecessore Paolo Scaroni, gli ex manager operativi in Nigeria, i presunti intermediari, Shell con i suoi quattro ex dirigenti e l'ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete. Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera scrive che questa assoluzione nel filone principale "non si concilia con la condanna che - nel settembre 2018 ma con rito abbreviato in uno stralcio giudicato prima - proprio per la medesima corruzione internazionale fu invece inflitta al coimputato intermediario Emeka Obi e al suo socio Gianluca Di Nardo (partner d’affari di Bisignani)". Il giornalista aggiunge che "neanche a farlo apposta, il processo d’appello (i cui atti non coincidono con quello del filone principale odierno, perché in più ha le dichiarazioni rese in abbreviato da Obi e le intercettazioni napoletane di Scaroni-Bisignani non acquisibili dal processo principale) inizierà la settimana prossima".

Nelle 500 pagine di motivazione dell’assoluzione depositate il 9 giugno 2021, i giudici hanno scritto che la Procura di Milano ha celato al Tribunale di Milano una prova rilevante a favore degli imputati. Si tratta di una videoregistrazione (effettuata in maniera clandestina il 28 luglio 2014 dall’avvocato esterno di ENI Piero Amara in una società dell’imprenditore Ezio Bigotti) che mostra come, appena due giorni prima di presentarsi spontaneamente in Procura, l’ex manager ENI Vincenzo Armanna, coimputato ma al tempo stesso accusatore (molto valorizzato dal procuratore aggiunto De Pasquale e dal pm Spadaro) di ENI e dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, pianificasse di «ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia. «Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto — scandisce il Tribunale — la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza», scrive il Tribunale di Milano.

Nell’udienza del 23 luglio 2019, ricostruisce sempre Ferrarella sul Corriere, sollecitato dal Tribunale, il pm De Pasquale ammise di essere in possesso del documento da tempo, ma ne minimizzò i contenuti, affermando che il video “a suo avviso mostrava soltanto il lato «spaccone» di Armanna, visto che poi i due manager Eni evocati per nome da Armanna in quel video (Donatella Ranco e Ciro Pagano) o non erano mai stati indagati (Ranco) o lo erano stati solo molto tempo dopo (Pagano), senza che Armanna avesse in realtà reso dichiarazioni particolarmente accusatorie a loro carico”. All’epoca della trattativa Opl245, infatti, Donatella Ranco era la responsabile dei negoziati internazionali e riportava direttamente al direttore generale Claudio Descalzi, il cui coinvolgimento nella vicenda sarebbe quindi stato un’inevitabile conseguenza delle dichiarazioni di Armanna.

Tuttavia, il Tribunale spiega che la Procura avrebbe dovuto saper leggere il linguaggio ricattatorio di Armanna, la cui intenzione «era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni dell’acquisizione della concessione di prospezione petrolifera, in modo da ottenere, attraverso l’intervento di Amara, l’allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio, in particolare di Pagano, sostituendolo con qualcuno di più accomodante verso la conclusione dell’affare in corso. Tale aspetto, soprattutto con riguardo agli affari perseguiti da Vincenzo Armanna e dai suoi sodali in Nigeria nel periodo in esame, non è stato oggetto di alcun approfondimento istruttorio» da parte della Procura.

Gela e la questione ambientale

 

Fonte: Wikimedia.
Fonte: Wikimedia.

Nel secondo servizio, Report si occupa del piano industriale di Eni, che prevede dismissioni per 11 miliardi di euro. Nel piano, tra l'altro, ci sarebbe la vendita di parte di Versalis, la società che opera nel settore della chimica.

Il servizio accenna anche alla questione delle bonifiche dei siti contaminati dove sono presenti stabilimenti Eni e alla questione dell'impatto ambientale degli impianti di Gela. La raffineria ha chiuso le attività nel 2014, per essere avviata a un piano di riconversione “verde” in bio-raffineria, secondo il modello applicato a Porto Marghera.
Ma dopo diversi decenni di attività, come in molti altri siti contaminati di interesse nazionale (SIN), rimangono da effettuare le bonifiche per rimediare alla situazione di contaminazione ambientale del sito (che comprende sia suolo che superficie marina), essendo state applicate, finora, solo misure di messa in sicurezza.

La contaminazione ambientale causata dalle attività del sito di Gela è stata chiamata in causa per spiegare i casi di malformazioni congenite che vengono diagnosticati da diversi anni nell'area. Report raccoglie la testimonianza di due famiglie con bambini affetti da due diversi tipi di malformazione e parla delle denunce e delle perizie svolte dal Tribunale di Gela. Sulla questione Eni ha commentato direttamente su Twitter:

Nel tweet l'azienda rimanda all'opinione del genetista Bruno Dallapiccola (che però, per quanto autorevole, non può essere assimilata all'espressione di un vero consenso scientifico – se questo si intende per “scienza” – almeno non su tutto ciò su cui si pronuncia).

Secondo Dallapiccola «non c'è alcuna prova che la frequenza di difetti genetici sia superiore a Gela rispetto ad altri posti d'Italia». «C’è sicuramente una componente genetica – spiega il genetista – ma per nessuno di questi casi esiste un fattore ambientale noto, sicuro, certo, che agisca da agente causale».

Dallapiccola dice anche che c'è «un eccesso di campionamento, finalizzato a cercare certi risultati», riferendosi al caso dell'ipospadia, un difetto congenito causato da un non corretto sviluppo embrionale dell'uretra, in cui lo sbocco del canale si colloca in una posizione anomala sui genitali esterni. «Ad oggi non c'è nessuna evidenza che vi sia una sostanza ambientale allo stesso modo responsabile di tutti i difetti oggetto di queste patologie», afferma il genetista.
L'Eni, in un altro documento, ribadisce quanto affermato da Dallapiccola:

- Non è stato trovato un nesso di causa-effetto tra le malformazioni e qualsiasi sostanza contaminante presente nel SIN di Gela o nell'area limitrofa.

- Tra le emissioni degli impianti dell’Eni non ci sarebbero sostanze capaci di provocare quelle malformazioni e «tutti i rilievi effettuati negli anni sull’ambiente dove vive la popolazione né sulle acque di Gela non hanno documentato livelli di allarme.

- Non c'è un aumento della frequenza dei difetti congeniti nell’area di Gela, tranne nel caso dell’ipospadia. E la frequenza di questa malformazione non verrebbe correttamente stimata.

- La causa delle malformazioni andrebbe ricercata nell'uso massiccio di pesticidi e anticrittogamici nell'area di Gela, che alcuni studi mettono in correlazione con lo sviluppo di alcuni di questi difetti.

Dal momento che l’Eni non riporta nessun dato bibliografico a sostegno di quanto scritto, è necessario verificare queste affermazioni ed esaminare alcuni studi e rapporti che hanno avuto come oggetto questi temi, in particolare per quanto riguarda i casi di ipospadia, il difetto più frequente tra quelli registrati.

Il primo studio che ha esaminato il problema delle malformazioni nell'area di Gela è stato pubblicato nel 2006 su Epidemiologia & Prevenzione (rivista dell'Associazione italiana di epidemiologia). Uno degli autori, Fabrizio Bianchi, lavora presso il CNR di Pisa e si è occupato dell'argomento sia come ricercatore che come perito della Procura della Repubblica.

Lo studio riporta i risultati di un'indagine sui nati con malformazioni congenite nel comune di Gela tra il 1991 e il 2002. Su 13060 nati in questo periodo è stato possibile confermare 520 individui portatori di malformazioni, per un totale di 572 difetti rilevati. La prevalenza generale alla nascita (cioè la proporzione di soggetti che in un determinato momento presenta la malattia) è stata calcolata pari a 398 su 10000 nati. Una cifra due volte superiore a quella riportata dal registro siciliano e da quelli nazionali.

I difetti cardiovascolari sono risultati superiori ai dati relativi alla Sicilia e di poco superiori ai dati nazionali. I difetti dell'occhio sono superiori ai dati dei registri siciliani, ma non a quelli nazionali, così come quelli del sistema respiratorio e i difetti degli arti superiori. Sono risultati superiori al confronto i casi di ernia diaframmatica. L'aumento delle malformazioni del sistema nervoso è dovuto soprattutto ai casi di microcefalia che però potrebbero essere stati rappresentati da falsi positivi, cioè casi non correttamente diagnosticati. Gli autori avvertono che l'aumento di casi di malformazioni a Gela può «essere dovuto, almeno in parte, a una maggiore attenzione diagnostica dei clinici locali, che si trovano a operare in una situazione critica di rischio, reale o percepito che sia».

Ma è sui casi di ipospadia che vengono raccolti i dati più eclatanti. Viene riconosciuto che può essere difficile diagnosticare questa malformazione e questo può portare sia a sottostimare che a sovrastimare il numero di casi. Ma, scrivono gli autori, la frequenza di ipospadie a Gela è risultata essere «tra le più elevate mai riportate in letteratura».

Va sottolineato che sull'origine dell'ipospadia siamo nel campo delle ipotesi. L’origine si ritiene sia multifattoriale, cioè dovuta a più cause, sia genetiche (diversi geni potenzialmente coinvolti) che ambientali. E all’interazione tra questi fattori. Sono state trovate associazioni con mutazioni in diversi geni e con diverse sostanze, ma la maggior parte dei fattori di rischio rimane sconosciuta.
I sospetti si sono concentrati su quei composti capaci di interferire con il sistema endocrino. Nel 2010, per esempio, uno studio ha trovato un'associazione tra una elevata concentrazione plasmatica di esaclorobenzene e un'insorgenza di ipospadia nei figli.

Gli autori dello studio del 2006 riportano alcuni composti che, al momento in cui scrivevano, si ipotizzava potessero essere causa di alcune di queste malformazioni. Ma concludono che lo studio condotto a Gela, non essendo note le sostanze a cui ogni individuo può essere stato esposto, non permette di stabilire se i casi osservati siano da attribuire a qualche fattore ambientale presente sul territorio.

In un aggiornamento svolto nel 2014, Bianchi e alcuni degli autori della ricerca precedente, hanno esaminato i casi di anomalie congenite diagnosticate nei nati a Gela tra il 2003 e il 2008, per verificare se fosse confermato l'aumento dei casi di ipospadia. Oltre a segnalare un numero di difetti cardiovascolari e degli arti in eccesso superiore al dato nazionale, lo studio ha confermato un eccesso di ipospadie pari a 1,7 e 2,3 volte rispetto al dato medio europeo e italiano.

Gli autori scrivono che sono stati individuati diversi composti che potrebbero favorire l'insorgere del difetto durante lo sviluppo embrionale. Tra questi ci sono anche i pesticidi, contro cui puntava il dito Eni nella risposta a Report. Viene sottolineato inoltre il ruolo dell'arsenico, perché già associato a diversi gruppi di anomalie congenite e perché la sua presenza è stata documentata nelle acque del SIN di Gela ma anche nelle urine di un campione di residenti nell’area di Gela. Ma anche altri contaminanti ambientali, presenti nello stesso SIN, potrebbero interferire con il corretto sviluppo embrionale, dalle diossine agli idrocarburi policiclici aromatici.

Del caso di Gela si occupa anche lo studio SENTIERI, coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità, che svolge una rassegna degli studi sulle popolazioni residenti vicini ai siti contaminati. Nel rapporto del 2011 la scheda relativa al SIN di Gela, oltre alla mortalità per malattie tumorali, cita uno studio dove veniva avanzata l’ipotesi di una associazione tra le malformazioni ed eventuali esposizioni ambientali o stili di vita: «Per le ipospadie e il totale delle malformazioni [..] sono risultati forti eccessi di rischio per i consumatori di pesce, frutta e verdura se acquistati da venditori ambulanti o pescati/prodotti in proprio [...]. Nonostante i limiti dell’indagine, i risultati conseguiti rappresentano un segnale di preoccupazione a carico della catena alimentare e dei possibili effetti sulla salute».

Lo studio SENTIERI evidenziava anche la «grave contaminazione del suolo e delle acque e di accertata, ma non ancora caratterizzata, contaminazione dell’aria» e la «contaminazione da metalli pesanti dei prodotti locali che può essere associata prevalentemente all’uso irriguo di acqua di falda contaminata e all’inquinamento atmosferico».

Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si è occupata del SIN di Gela, nel rapporto Human Health in Areas with Industrial Contamination, pubblicato nel 2014 dall'ufficio regionale per l'Europa, che analizza la situazione di diverse aree affette da contaminazione industriale in Sicilia. Il rapporto, che cita i risultati del primo studio del 2006, afferma che non si può escludere che l'aumento di malformazioni sia l'effetto di una sovra-segnalazione di casi. Ma aggiunge che «è difficile credere che i difetti nei meccanismi di registrazione possano avere portato a un aumento artefatto di due volte in diverse categorie di malformazioni». Anche per l'OMS l'alto numero di ipospadie sembra in accordo con l'ipotesi di un'associazione causale con sostanze che interferiscono con i meccanismi endocrini.

Rimane ancora complesso trarre delle conclusioni definitive sul caso di Gela. Ma non possiamo affermare, come fanno Dallapiccola e l'Eni, che gli studi non hanno mostrato un aumento della frequenza delle malformazioni. E non è possibile escludere che nell’insieme dei diversi fattori ci siano anche uno o più contaminanti presenti nel SIN. Come ha ripetuto in un recente intervento lo stesso Bianchi: «tra gli inquinanti ambientali per i quali è stata dimostrata un’azione di interferenza endocrina, come arsenico, policlorobifenili, diossine, idrocarburi policiclici aromatici, ftalati, bisfenolo A, pesticidi, alchilfenoli e metalli come cadmio, piombo e mercurio, alcuni sono documentati nell’area del SIN di Gela».

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In conclusione:

1) Eni sbaglia a dare per scontato che le cause vadano ricercate «fuori dalle emissioni dello stabilimento», per esempio nel consumo di pesticidi, che comunque non si esclude che, come altri composti, possano avere un ruolo.
2) Così come non si può stabilire un rapporto di causa ed effetto tra le testimonianze raccolte da Report e la vicinanza della popolazione al SIN.

(Foto apertura tratta dal documentario "Oil for Nothing" di Luca Tommasini, 2011)

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