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Cosa hanno in comune le code da Trony, le borse di Vuitton e London Riots

27 Novembre 2011 5 min lettura

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Cosa hanno in comune le code da Trony, le borse di Vuitton e London Riots

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Qualche giorno fa sono stato a Roma per lavoro. Tornando in aereo ho voluto fissare un'immagine su Facebook e su Twitter.


La densità di borse di Louis Vuitton su un volo Roma-Bari apre la strada a numerosi interrogativi antropologici.

Ho scritto questo aggiornamento pochi secondi dopo essermi imbattuto in una strana coincidenza statistica: camminavo in mezzo a cinque viaggiatori che avevano preso lo stesso volo e tutti avevano una borsa di Vuitton. Uomini o donne, giovani e meno giovani, borse standard o colorate si mescolavano. Fossi stato un uomo del marketing della nota casa di moda francese, avrei scattato una fotografia e l'avrei pubblicata sul profilo Facebook dell'azienda.

Il mio aggiornamento era, chiaramente, una provocazione. E come spesso accade quando vuoi stimolare una reazione, un confronto, un dibattito, non riesci a prevederne gli esiti. Non avevo nessuna intenzione di porre quegli interrogativi in modo esplicito né avevo alcuna ricetta pronta per rispondere. Volevo imparare dai miei amici sui social media.

L'andamento dei feedback all'aggiornamento ha seguito un'evoluzione tipica delle discussioni online: inizialmente arrivano i 'mi piace' e i commenti generalmente critici nei confronti dei cinque inconsapevoli protagonisti, probabilmente motivati dal convincimento che quell'aggiornamento esprimesse una qualche critica verso qualcuno o qualcosa da parte mia. 

Progressivamente sono emerse alcune dinamiche interpretative prevedibili ("È che non c'è crisi"; "più che altro mi preoccuperei della totale mancanza di personalità...") e altre che devono necessariamente indurre a una riflessione, che hanno formato questa lista di argomenti:

- una parte, anche consistente, di quelle borse erano false (o comunque, una quota statisticamente significativa di borse Vuitton in giro per l'Italia non è acquistata in un negozio);

- non importa come, ma esiste un bisogno insopprimibile di possedere quel tipo di oggetti che va soddisfatto;

- l'acquisto, il possesso, il consumo di alcuni beni non risponde a necessità strumentali ma piuttosto al bisogno di acquisire simboli di status sociale;

In sintesi, la nostra identità è sempre più spesso collegata alle nostre abitudini di consumo: siamo quello che indossiamo, quello che compriamo, quello che beviamo. E spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. E altrettanto spesso compriamo per sentirci dentro uno status, un modello, una nicchia di cui vorremmo far parte e che ci è preclusa per motivi di 'casta', di 'censo', di 'cultura' o più semplicemente perché non abbiamo le amicizie giuste.

Tra i commenti ne ho trovato uno, in particolare, a mio avviso particolarmente efficace: 

Non è una questione di marche, è una questione di omologazione. A Bari ci sono diverse marche che sono "Status symbol" nel senso più ampio del termine. Così come Vuitton, anche Hogan identifica un certo tipo di classe sociale e anche Peroni è un brand trattato allo stesso modo. Per quanto possano essere belle le borse, comode le scarpe o buona la birra, la forza e il significato del brand supera di gran lunga le qualità in sè del prodotto.

Il caso barese merita uno stralcio per non schiacciare l'analisi sul caso specifico e, anzi, per permettere di rilanciare questa analisi su una dimensione più estesa: la mia città ha una storica tradizione di commercio e di media borghesia (salita agli onori della cronaca per il caso Lavitola-Tarantini), e per questi motivi è ritenuta la Milano del Sud. Ogni anno, durante le feste di Natale, è possibile osservare un'immagine impressionante, sempre uguale, proprio davanti al negozio di Vuitton in Via Sparano, il salotto buono della città. È una fila di persone, ordinatamente in mezzo alla strada a dicembre inoltrato, che copre quasi tutta la larghezza della via aspettando di poter entrare nel negozio. A distanza di anni, non ho ancora capito se quella coda sia composta da gente che fa acquisti, da gente che valuterà se fare acquisti, da gente che sogna di far acquisti e va nel negozio in pellegrinaggio, o ancora da persone che hanno piacere nel farsi vedere in coda da Vuitton.  

Non ho ragioni per credere che queste dinamiche siano tipiche di Bari, della Puglia, del Sud, anche perché molti commenti raccontavano analoghe e insolite densità di beni di lusso nella propria città. 

La conversione a più voci è proseguita con aneddoti (A Odessa c'è il mercato nero delle borse LV rubate. Roba vera col 70% di sconto), estensioni del ragionamento ad altri beni-status ("a me lo stesso effetto lo fa anche il possesso dell'iPhone. Sentire persone dire "non so come si utilizzi, che farne, ma lo volevo comprare a tutti i costi" o vedere le persone in coda fuori l'Apple store dopo morte di Jobs, mi fa capire che il dio consumismo è nella carne di molti") e confronti piuttosto piccati tra utenti che dipingevano profili antropologici e di consumo con un tono fortemente critico verso chi possiede beni di lusso o oggetti non per soddisfare un bisogno ma per marcare la propria identità, e altri utenti che possiedono quel tipo di beni e che raccontano le loro personali motivazioni, criticando la volontà di tratteggiare analisi di natura sociologica. 

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Proprio ieri abbiamo assistito alla formazione di code sin dall'alba, in tutta Italia, davanti ai negozi Coin impegnati nella vendita di piumini a basso costo, e solo poche settimane fa abbiamo letto dell'assalto al nuovo Trony di Ponte Milvio, che ha portato addirittura all'apertura di un fascicolo di indagine. Le analisi di queste invasioni si sono concentrate quasi esclusivamente su due opposte interpretazioni del concetto di 'crisi': da un lato la corsa ai negozi è stata letta come la prova di una nazione in profonda crisi economica, aggrappata agli sconti per non compromettere il proprio stile di vita; dall'altro si è ritenuto che questa corsa ai consumi rappresentasse una spia di una 'falsa crisi economica', o comunque di un mix di risparmi privati, evasione, e indebitamento che rende possibile tutto ciò. 

Questa storia, però. mi ha indotto a riflettere su un'improbabile, bizzarra, beffarda teoria: e se le borse di Vuitton, i piumini di Coin, le lavatrici e i cellulari di Trony e, perché no, i London Riots fossero accomunati da un'unica dinamica, ossia dalla richiesta insopprimibile di una parte di società esclusa socialmente di entrare nel ceto medio e della soddisfazione almeno parziale di questa richiesta attraverso l'acquisto (dell'originale o del tarocco) o il furto degli oggetti-simbolo di quella appartenenza? Se il consumo avesse sostituito il concetto di rappresentanza sociale? 

Dino Amenduni
@valigiablu
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