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Diffamazione, una legge in contrasto con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo

7 Novembre 2012 5 min lettura

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Diffamazione, una legge in contrasto con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo

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È ripresa al Senato la discussione sul disegno di legge di riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa, ormai comunemente conosciuto come Salva Sallusti, dato che la vicenda del direttore de Il Giornale è l'episodio che ha innescato il dibattito, richiamato ampiamente anche nella relazione accompagnatoria della legge. Ne abbiamo già discusso, quanto meno per evidenziare le imprecisioni contenute nella relazione.
In realtà la discussione si è ampliata a dismisura rispetto al nucleo originario della legge, cioè "carcere si-carcere no", finendo per creare, a seguito di un profluvio di emendamenti, un vero e proprio provvedimento monstre, che ingloba di tutto e di più.

Fermo restando che la scelta delle sanzioni da applicare ad un illecito è squisitamente politica, conviene rimarcare l'errore di fondo che serpeggia nel dibattito per come si sta sviluppando, e che potrebbe portare all'emanazione di una normativa già in contrasto con le sentenze della Corte dei diritti dell'uomo (CEDU).

La Corte dei diritti dell'uomo

Come è noto, le sentenze della CEDU sono direttamente applicabili nell'ordinamento italiano, ed un giudice ha il dovere di interpretare le norme in modo conforme alla Convenzione dei diritti dell'uomo. Questo è quello che ha stabilito anche la Corte Costituzionale con la sentenze n. 348 e 349 del 2007.
Molti degli emendamenti confluiti sul ddl di riforma sembrano animati dall'intenzione di sostituire la pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa con pene pecuniarie e interdittive comunque repressive, mantenendo un certo grado di dissuasività della sanzione.
A questo punto occorre ricordare che la normativa in materia di stampa risale, per lo più, ad un periodo storico nel quale era molto sentito come valore il prestigio delle istituzioni (e quindi a cascata dei suoi rappresentanti) piuttosto che le libertà dei cittadini. Oggigiorno, invece, il rapporto si è invertito e gli ordinamenti moderni tendono a porre al centro l'individuo più che l'istituzione.
È anche vero che col tempo l'interpretazione adeguatrice della magistratura, sia ordinaria che costituzionale, ha mitigato notevolmente le norme in materia di stampa in fase di applicazione, ma al contempo spesso si è dovuto ricorrere alla CEDU, che ormai per i reati a mezzo stampa è divenuta quasi un quarto grado di giudizio, dopo la Cassazione.

La sentenza Riolo

Tutto ciò per evidenziare la necessità di un ripensamento della normativa sulla stampa, in special modo in relazione alle sanzioni, ma di contro anche l'importanza di incamminarsi nella direzione giusta, nel solco tracciato dalla CEDU.
Tra le tante sentenze giova ricordare quella del 17 luglio 2008 (ricorso 42211/07, caso Riolo c. Italia), che a fronte di una condanna di un cittadino al pagamento di 41.000 euro per una diffamazione nei confronti di un politico, condanna lo Stato italiano al risarcimento di ben 72.000 euro al ricorrente.
Non solo la CEDU non ravvisa nel caso in questione l'utilizzo di espressioni gratuitamente offensive, ma, più importante, puntualizza che anche una condanna a pena pecuniaria eccessiva può rivelarsi altamente dissuasiva rispetto all'esercizio della libertà di informazione.
In particolare, in detta sentenza la Corte sostiene che vi è un difetto di proporzionalità tra i diritti, anche in considerazione del “carattere eccessivo del risarcimento del danno cui il ricorrente è stato condannato, tenuto conto della situazione finanziaria del ricorrente”.

Non è, quindi, o non solo, un problema di tipo di sanzione, laddove la CEDU ha chiarito che in casi eccezionali è ammissibile una pena detentiva, il problema invece è della proporzione tra il diritto esercitato (libertà di espressione e di informazione) e i suoi limiti, quali il diritto alla reputazione e alla privacy.
Ciò che la CEDU ha autorevolmente sostenuto è che qualsiasi tipo di pena in detta materia, se è in grado di dissuadere chi esercita attività giornalistica dall'esercizio della sua professione o attività, potrebbe finire per essere in contrasto con l'articolo 10 dalla Convenzione dei diritti dell'uomo. Ed è questo il rischio che corrono molti degli emendamenti in discussione al Senato, poiché tendono ad aggravare la sanzione pecuniaria o interdittiva.
Giusto per chiarire con un esempio, possiamo considerare quegli emendamenti che, eliminando il carcere, tendono a sostituirlo con pene pecuniarie elevatissime (es. fino a 100.000 euro), in alcuni casi aggiungendo delle misure interdittive dalla professione.
Una sanzione di questo tipo potrebbe portare a risultati paradossali, in quanto potrebbe finire per favorire il giornalista prezzolato le cui multe sarebbero pagate da un editore mandante dell'articolo diffamante, e di contro sfavorire invece il giornalista onesto che, purtroppo, non ha alle spalle un editore danaroso. In un caso del genere anche una sanzione soltanto pecuniaria potrebbe risultare in contrasto con la Convenzione dei diritti dell'uomo per il suo effetto dissuasivo.

Ovviamente ciò non deve portare all'eccesso opposto, l'eliminazione di sanzioni per la diffamazione a mezzo stampa, poiché la stessa CEDU ha sempre sostenuto che

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il diritto dei giornalisti di comunicare informazioni su questioni di interesse generale è protetto a condizione che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscano informazioni “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica, e cioè nel rispetto dei “doveri e delle responsabilità” di cui al par. 2 dell’art. 10 CEDU, specie quando sia in gioco la reputazione di altri individui.

Insomma, occorre un corretto bilanciamento tra i valori in gioco: il diritto di informare da un lato e la reputazione e la privacy dall'altro, laddove tutti gli elementi del caso devono essere tenuti in considerazione allorché si tratta di valutare la proporzionalità della sanzione, e quindi la legittimità della limitazione al diritto di espressione. Per cui la questione non può essere semplificata ad una diatriba sull'opportunità di tenere od eliminare il carcere, quando anche una pena pecuniaria può, in rapporto alle condizioni finanziarie, determinare una limitazione eccessiva alla libertà di espressione, tale da “dissuadere i mezzi di comunicazione dall’adempiere al loro ruolo di allertare il pubblico in caso di abusi visibili o presunti dei pubblici poteri”.

È chiaro che spetta solo al legislatore riformare un reato, ma forse il percorso più “europeista” - in un periodo nel quale il “ce lo chiede l'Europa” viene utilizzato anche a sproposito - si potrebbe trovare nel solco di una rimodulazione dell'istituto della rettifica, facendolo assurgere a scriminante del reato.
In tal modo il giornalista onesto e coscienzioso, che è purtroppo incappato in un errore, rettifica ripulendo la macchia sulla reputazione del soggetto leso, mentre il giornalista prezzolato, che non può rettificare perché non può ammettere di aver detto il falso, è punito ad una pena che sia realmente adeguata al danno causato.

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