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La riforma europea del copyright è da bocciare, la posizione di Di Maio è una buona notizia. Ecco perché

26 Giugno 2018 6 min lettura

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La riforma europea del copyright è da bocciare, la posizione di Di Maio è una buona notizia. Ecco perché

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La bocciatura, secca e senza appello, della riforma europea del copyright da parte del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio è la vera notizia dell’Internet Day 2018. Nessuno si attendeva toni così netti, né l’impegno – a nome del governo italiano – di opporsi alla norma che vorrebbe introdurre una tassa sui link e filtri all’upload dei contenuti in rete.

Eppure è accaduto, ed è una ottima notizia. Prima di tutto perché Di Maio usa gli argomenti giusti. Sì, costringere le piattaforme a pagare un obolo agli editori per la semplice condivisione di titolo e riassunto di una notizia è non solo contrario all’essenza stessa di Internet, fondata sull’idea di link ipertestuale, ma è anche controproducente per gli editori stessi, come dimostrano i fallimenti in Germania e Spagna - tra l'altro andrebbe ricordato che con una semplice stringa di codice da inserire nei loro prodotti gli editori hanno libertà di scegliere se essere o meno indicizzati su motori di ricerca come Google o Bing.

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Sì, l’idea di trasformare Google, Facebook e qualunque altro colosso della condivisione online in sceriffi delle proprie sterminate distese di contenuti digitali, intervenendo con filtri automatici ancora prima che vengano pubblicati, equivale davvero a “un controllo ex ante” di tutti i contenuti caricati dagli utenti. E sì, delega ulteriori poteri di vita e di morte su ciò che è dicibile o meno online a soggetti di cui si lamenta già oggi l’eccessivo potere di vita e di morte sul dicibile online.

Ancora, è vero: se le grandi piattaforme possono trovare in qualche modo una soluzione — per esempio, riversando il grosso del lavoro sull’intelligenza artificiale — le realtà più piccole si vedrebbero ulteriormente penalizzate rispetto ai monopolisti dei dati, visto che “non avranno mai la potenza economica per affidarsi ad un algoritmo che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato”.

Ma è una buona notizia soprattutto perché vincola, almeno nelle intenzioni, il governo italiano a una posizione che, per una volta, ci mette dalla parte giusta della barricata, e lo schiera con le principali organizzazioni per i diritti digitali — dall’Electronic Frontier Foundation a Index on Censorship, passando per Public Knowledge, Civil Liberties for Europe e molte altre —, oltre 70 tra i massimi esperti di politiche tecnologiche al mondo, e con quella parte della politica che da sempre si batte per far sì che il diritto d’autore non diventi una scusa per limitare la libertà di espressione, cronaca e satira.

Su questo, a dirla tutta, non c’è nessuna sorpresa: storicamente, il Movimento 5 Stelle ha sempre concepito il copyright in modo diverso dagli editori tradizionali, che sponsorizzano una visione del mondo in cui le piattaforme digitali devono essere responsabili dei contenuti dei loro utenti. E anche in Commissione, nell’ultimo voto prima del passaggio alla plenaria del Parlamento Europeo ai primi di luglio, l’esponente M5S Isabella Adinolfi ha espresso parere contrario alla riforma.

In una delle pochissime dichiarazioni della politica italiana dopo quel voto, Adinolfi aveva parlato di una “mannaia sulla libertà di Internet” e promesso che il movimento si opporrà anche a Strasburgo, “per difendere gli interessi dei cittadini”.

Di indirizzo contrario, invece, l’ALDE, il PPE e tra i socialisti europei, spaccati, il Partito Democratico. Il suo esponente al Parlamento UE, Enrico Gasbarra, ha infatti votato a favore, e anche l’eurodeputato David Sassoli ha commentato positivamente la vittoria in Commissione: un risultato “molto importante”, ha dichiarato a Lo Speciale, “poiché è riuscito ad assicurare un testo con maggiori garanzie a favore degli autori e degli editori”. Nessuna menzione, invece, dei diritti fondamentali degli utenti, o delle ricadute sui comportamenti delle piattaforme che, strette all’angolo tra censura preventiva e lo spettro di sanzioni continue, preferirebbero — come sta già accadendo in Germania con la norma sui contenuti illeciti, NetzDG — di certo filtrare che pagare.

Non è un caso, infatti, che Giorgia Abeltino di Google e Laura Bononcini di Facebook abbiano accolto con favore, durante l’Internet Day”, la presa di posizione di Di Maio. Così come non dovrebbe sorprendere il giudizio positivo espresso anche dal Garante Privacy, Antonello Soro, che ha parlato del “rischio di una distorsione del sistema informativo che cambia la natura di Internet”, affidando ai colossi privati la decisione di quali informazioni debbano essere accessibili e quali no.

Il tema è complesso, e di certo il diritto d’autore va riformato per aggiornarsi alla mutata realtà della società della condivisione. Ma la soluzione proposta dall'UE non aiuta gli editori e gli artisti, e complica il quadro già disperato dei diritti digitali nell'era post-Snowden e post-Cambridge Analytica.

Una discussione seria sarebbe insomma più che benvenuta. E invece i giornali sembrano avere trovato un diverso motivo di interesse, nelle parole di Di Maio, preferendo titolare e concentrarsi sugli “almeno" trenta minuti al giorno di accesso a Internet gratuito che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico ha annunciato di "immaginare" per ogni cittadino italiano.

Il dibattito in rete, così, ha subito deviato verso lo sfottò, la derisione. Ed è un peccato, perché anche limitandosi al tema dell’accesso alla rete, molto ci sarebbe di concreto da discutere: dovrebbe essere un diritto “primario”, come lo chiama Di Maio, o “fondamentale”, come secondo Rodotà e gli estensori della Dichiarazione dei diritti in Internet elaborata dalla Commissione Boldrini la scorsa legislatura?

E non è un problema reale, in un paese ancora tragicamente indietro rispetto alla media europea, quando si parli di connettività?

A quanto pare, no. Molte testate preferiscono sostituirsi all’opposizione, assumendo un ruolo che non dovrebbe competere al giornalismo, e servendo ai polemisti da tastiera di ogni risma l’ennesimo assist sull’ennesima dichiarazione-choc da irridere. L’Huffington Post si spinge fino a definire quello di Di Maio “populismo col web”; ma cosa è se non populismo ridurre questioni complesse come il diritto all’accesso alla rete, così da garantire pari opportunità di sfruttare la rivoluzione digitale a ogni cittadino, a una sparata dal sapore folkloristico ed estemporaneo?

Ancora, l’intero iter della riforma del copyright ha potuto procedere senza una reale messa in discussione del suo impianto. Mesi e mesi di spettri di censura preventiva e tasse sui link senza un’adeguata trattazione critica, senza incentivare un dibattito franco, aperto e basato sui dati; anzi, molto spesso, negli anni, si sono potute leggere le dotte disamine della materia da parte di rappresentanti della FIEG o della SIAE — non a caso, gli unici espostisi davvero a favore della norma, a parte i proponenti — finite in pagina senza contraddittorio o contestualizzazione.

Ora, trattamento mediatico a parte, resta da capire quali fatti faranno seguito ai propositi di Di Maio. Di certo, la storia di Internet, seppur giovane, è piena di esempi in cui il diritto d’autore ha cercato di imporsi a discapito di tutti gli altri. Si pensi alle proteste scatenate dai progetti di legge liberticidi statunitensi SOPA e PIPA nel 2012, o contro ACTA, lo stesso anno. Norme che ipotizzavano peraltro qualcosa di meno radicale di quanto in discussione oggi: non un filtraggio già in upload, ma un intervento più tempestivo — troppo — a seguito di debite segnalazioni.

Anche in Italia il dibattito si è svolto sulle stesse linee, in passato. Ed è qui che potrebbero sorgere delle complicazioni per il governo gialloverde. A proporre quello che fu soprannominato il “SOPA italiano”, negli stessi mesi, era stato infatti un leghista, Giovanni Fava. Allora a votare l’emendamento alla legge comunitaria che i critici non avevano esitato, giustamente, a definire un “bavaglio”, era stata la sola Lega. E a dare parere favorevole c’era anche l’allora ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, oggi agli Esteri.

Certo, era un’altra Lega. Ma il silenzio dell’alleato di governo rispetto all’attivismo dei Cinque Stelle lascia comunque spazio alle domande.

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