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Come riconoscere e affrontare il burnout sul posto di lavoro

10 Marzo 2024 7 min lettura

Come riconoscere e affrontare il burnout sul posto di lavoro

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Sempre più scattanti, sempre più connessi e reperibili a ogni ora del giorno, sempre disponibili con un sorriso, sempre pronti a “fare team”, a elargire stelline per valutare il benessere aziendale, il più delle volte solo per far contento il capo, che è lo stesso che ci subissa di richieste di report da compilare, perché a sua volta riceve pressioni dall’alto, ma che sappiamo non leggerà nessuno. Ore di lavoro per cose che sentiamo inutili ma che sembrano fondamentali. Situazioni relazionali difficili, con una grande competitività mors tua-vita mea per garantirsi uno step di carriera, anche se significherà solo lavorare anche nel weekend. E in tutto questo dover dimostrare un legame con l’azienda durante i team building.

Qualche mese fa, Serenis, una piattaforma che mette in contatto le persone in cerca di aiuto con specialisti nel settore della psicologia ha condotto un sondaggio su 3.000 suoi utenti dal quale è emerso che per una persona su cinque spinta a cercare aiuto dallo stress percepito sul luogo di lavoro, alla fine della terapia era davvero il contesto lavorativo il principale responsabile del malessere. Senza contare tutte le persone che vivono male la propria quotidianità lavorativa ma che non ne parlano.

Questo dato è interessante perché ci spinge a riflettere sull’incidenza di un fenomeno che oggi chiamiamo burnout, che è ben più articolato di un “semplice” stress o di quello che chiamiamo genericamente “esaurimento nervoso”. Non è detto, infatti, che ogni persona che vive un periodo di forte stress sia in burnout. In breve, la differenza che ci aiuta a distinguere il burnout è che una persona stressata sul lavoro – o anche in famiglia - appare sovraeccitata, molto reattiva; si sente pressata e vive con fretta i suoi compiti, dandovi molta importanza. La persona in burnout, invece, è a uno stadio che la porta a reagire nel modo opposto: con disaffezione e apatia rispetto al lavoro e alle persone con cui ha a che fare. L’impegno emotivo, che si aggiunge a quello proveniente dalle proprie relazioni familiari o amicali, può richiedere un tale apporto di energia da prosciugare la persona, che continua a lavorare, a produrre, ma iniziando a difendersi dalla richiesta emotiva eccessiva.

In ogni caso, sia che rientri nella condizione descritta sia che non rientri appieno, si tratta di un problema che non si può risolvere solo con il “da oggi mi prendo cura di me”, cioè caricando la responsabilità completamente sulle spalle del singolo individuo, il burnout non è una malattia personale, ma una situazione che va affrontata lavorando a 360 gradi anche sul contesto.

“Sì bello, ma come si fa a parlarne sul luogo di lavoro? Che cosa posso fare intanto io per me stesso/a per stare meglio a breve termine?”. Ne abbiamo parlato a lungo con Laura Dal Corso, psicologa del lavoro, psicoterapeuta e ricercatrice presso l’Università degli Studi di Padova.

Cosa è il burnout

Il burnout è uno fra i fenomeni occupazionali più studiato nel corso del tempo dalle primissime formulazioni degli anni Settanta. Solo dal 2019, tuttavia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito la sindrome di burnout tra i disturbi lavoro-correlati nell'11esima revisione dell'International Classification of Disease (ICD).

Oggi la definizione ancora in uso è la cosiddetta definizione di Maslach, ricercatrice che nel 1982 pubblica un libro dal titolo “Burnout – The Cost of Caring” nel quale raccoglie testimonianze di lavoratori colpiti da job burnout. Qui elabora la sua celebre definizione di burnout da lavoro come sindrome da stress cronico caratterizzato da tre dimensioni: esaurimento emotivo, disaffezione lavorativa e percezione convinta di non essere in grado di svolgere il proprio compito. 

Ci si sente scarichi, inefficaci, piatti e inutili, una sensazione che fino a prima non avevamo mai vissuto. Un elemento che può favorire questo aspetto è non vedere concretizzati i risultati del proprio lavoro, percepire, ad esempio, che il proprio capo non riconosca il proprio contributo, che non reputi all’altezza di un compito assegnato, che sarebbe lo stesso esserci oppure no. Nel caso degli insegnanti, convincersi che ciò che facciamo non serve a nulla, che ci saranno sempre i “casi persi”, che non riusciamo a trasmettere alcunché. Siamo delusi. “Al di là delle risorse emotive, ci si sente davvero meno capaci di fare le cose, che peraltro è potentissimo predittore di insuccesso”, spiega Dal Corso. 

Oggi per la misurazione si utilizza ancora il Maslach Burnout Inventory (MBI), un questionario di 22 domande iniziali per accertare la presenza delle tre dimensioni, nella sua più attuale versione (MBI-General Survey). “Devono sussistere tutti e tre questi aspetti per parlare di burnout, anche se la presenza anche solo di uno o due di essi è indice che qualcosa non va”, spiega Dal Corso. “L’aspetto centrale è l’esaurimento emotivo, la base della depersonalizzazione rispetto alle relazioni sul posto di lavoro, e non a caso fra le professioni più interessate dal fenomeno di burnout ci sono gli insegnanti e il personale sanitario, che sono fra i lavori che più richiedono empatia nel contatto con gli altri”. 

A questo, continua Dal Corso, “si aggiunge una sensazione di vuoto e di inutilità, si avverte la privazione di emozioni forti e non si sente alcuna speranza per il cambiamento della situazione; manca la motivazione e si assiste a complicazioni di distacco e di depressione fino alla perdita di senso e significato nella vita. Il problema è che spesso la persona non si rende conto da subito di ciò che vive: sono gli altri ad accorgersi di un cambiamento di atteggiamento”.

Cosa fare per uscirne?

Che si tratti di vero e proprio burnout o di stress, la soluzione è la stessa: chiedere aiuto, ma non solo per capire come lavorare su se stessi per stare meglio, ma anche per provare a cambiare le cose sul posto di lavoro. “Il self care non basta: non è possibile trattare davvero il fenomeno come un problema individuale”. È difficilissimo, specie nei contesti privati, ma non è vero che non ci sono delle possibilità. “Esistono misure organizzative e di stile manageriale che riconosca l’importanza di interventi di prevenzione per intercettare queste difficoltà prima che si verifichino”. 

Forse non tutti sanno che nei contesti pubblici – ASL, ospedali, scuola, università – esiste una figura chiamata Consigliera di fiducia, definita come “una figura atta a garantire a tutte e tutti coloro che studiano e lavorano all'interno di un ente pubblico il diritto alla tutela da qualsiasi atto o tipo di comportamento discriminatorio, soprattutto per quanto riguarda le molestie di tipo sessuale o morale”.

Nel caso dell’Università di Padova, ad esempio, la consigliera di fiducia è una persona esterna all’Ateneo, nominata dal rettore o dalla rettrice dopo una selezione pubblica volta ad accertarne l’esperienza umana e professionale. Il suo compito è fornire consulenza e assistenza, anche ai fini di una completa tutela legale, a chi denuncia di essere vittima di molestia sessuale o morale. Nell’esercizio del suo incarico può accedere agli atti e ai documenti dell’amministrazione e può avvalersi di consulenti interni o esterni (come avvocati/e, psicologi/ghe e assistenti sociali). Ogni anno la consigliera di fiducia presenta una relazione sulla propria attività al rettore, al Senato accademico e al Comitato pari opportunità, proponendo azioni e iniziative di informazione e formazione volte a promuovere un clima organizzativo idoneo ad assicurare la pari dignità e libertà delle persone all'interno dell'Università.

“Nella mia esperienza la chiave per muovere le cose è non aver paura di parlarne e non sentirsi scoraggiati dal ‘tanto non serve a nulla, non cambierà nulla’. Si prendono in carico le situazioni e richieste di cambiamento se emerge che il problema è veramente di natura strutturale organizzativa. Nel privato la situazione è più difficile per certi versi perché questa figura non è prevista ed è ancora poco comune, ma esiste sempre la possibilità di rivolgersi, come nel pubblico, alla direzione delle Risorse Umane e al sindacato, che è un presidio importantissimo nelle aziende”, spiega ancora Dal Corso.

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Infine, serve una formazione – in primis manageriale ma non solo - che renda ogni lavoratore consapevole dei rischi di burnout, educato al rispetto dei tempi di conciliazione fra lavoro e famiglia, e allenato a riconoscere i primi segnali di sovraccarico lavorativo ed emotivo. “Si parla molto di burnout nei corsi per la gestione delle risorse umane ad esempio, meno in altre realtà formative”. Dobbiamo toglierci dalla mente l’idea novecentesca che il sovraccarico di lavoro sia positivo perché predittore di successo. Il team che funziona è un team dove non c’è rischio di burnout.

Detto questo c’è comunque il lavoro personale da fare, che è il primo passo per proteggersi dagli effetti di una situazione negativa, come un capoufficio o dei colleghi che sentiamo come tossici per noi. “La prima cosa che faccio quando una persona arriva da me è lasciarla libera di raccontare, di descrivere in modo spontaneo e anche non controllato la sua situazione e come si sente, in una dimensione priva del giudizio” spiega Dal Corso. “Spesso l’unica prospettiva che la persona vede è il ‘mi licenzio’, che però non è così semplice se il lavoro è necessario per vivere o se non ci sono molte altre possibilità. All’inizio proponiamo interventi brevi di counselling psicologico su come si affronta il contesto lavorativo per favorire la consapevolezza del qui e ora e per aiutare la persona a non vedere come soluzione solo il licenziamento. Poi raccogliamo sintomi psicofisici, se presenti, come dormire male, svegliarsi presto di notte, problemi di stomaco e via dicendo, consigliando di rivolgersi al medico. La durata del percorso dipende da quanto presto la persona è stata intercettata e soprattutto dall’eventuale presenza di altre problematiche accanto a quella originata dal peso del lavoro. Ognuno di noi ha una sua storia pregressa, le proprie caratteristiche e difficoltà: lavorare anche su quelle è fondamentale per fare un percorso efficace di supporto”.

Immagine in anteprima via lavocedinewyork.com

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