Charlie Kirk, perché non ha senso confrontarsi con chi diffonde discorsi d’odio
9 min lettura“Prove me wrong”, dimostrami che ho torto. Oltre che un meme, il titolo di un brano del 2008 e una chiosa da social network, questa era la frase che giganteggiava alle spalle di Charlie Kirk il giorno in cui è stato assassinato. Quella alla Utah Valley University era la prima delle dieci tappe previste per il suo The American Comeback tour, nuova edizione dell'ormai consueto format in cui Kirk si recava nei campus universitari statunitensi per farsi sfidare dagli studenti in gare di dibattito. Gli incontri erano ripresi e ripubblicati in rete, dove poi venivano ulteriormente sezionati e ricondivisi dagli utenti, tra miniclip e maxicompilation che mostravano gli scambi più viralizzabili. Buona parte della fama di Kirk derivava proprio da questi dibattiti-show, da cui sembrava sempre uscire vincitore non solo grazie alle proprie doti dialettiche ma anche in virtù di interlocutori spesso assai meno allenati di lui e dell’editing.
Negli Stati Uniti la tradizione dei dibattiti accademici affonda le sue radici nel XIX secolo, quando nelle literary societies delle università gli studenti discutevano di temi culturali, politici e morali in incontri formali già regolati. Con il tempo, questo confronto orale ha assunto forme più definite e oggi sono ancora molto popolari gli intercollegiate debates (gare intercollegiali), in cui squadre di studenti si sfidano sistematicamente secondo formati codificati. Fanno parte di questa tradizione organizzazioni come la National Debate Tournament e la Cross Examination Debate Association (CEDA) hanno contribuito a stabilire regole rigorose in fatto di tempi, argomentazioni, arte retorica e giudizi finali, in cui eccellono, per esempio, team storici come quelli di Yale o della University of Southern California. Tuttavia, ciò che un tempo era principalmente un esercizio educativo (allenamento del pensiero, della ricerca, della dialettica) corteggia oggi evoluzioni che accentuano la competitività e la spettacolarizzazione, talvolta a scapito della cura del contenuto o del confronto riflessivo. E qui si inserisce la versione ancora più “pop” degli ultimi tempi, inclusa la forma ibrida del format portato da Kirk (che non aveva mai terminato i propri studi universitari) nei campus americani.
Ma la contemporanea arte del dibattito, anche nella sua spettacolarizzazione spinta all’eccesso, non va certo ascritta al solo Charlie Kirk: dai campus è migrata su YouTube, riproducendosi in nuove forme sempre più votate all'intrattenimento. La scorsa estate, il giornalista britannico-statunitense Mehdi Hasan è diventato virale sui social media per un video intitolato “1 progressista contro 20 conservatori di estrema destra". Nel video, Hasan siede al centro di un cerchio composto da venti persone pronte a scattare al segnale stabilito per correre a posizionarglisi di fronte e intavolare con lui una discussione. Mentre un partecipante parla, gli altri hanno la possibilità di sventolare una bandierina rossa (sì, proprio una “red flag”, ma senza ironia) e quando queste bandiere raggiungono la maggioranza scatta il cambio: avanti il prossimo.
Per un'ora e quaranta minuti, si vede un sempre più sbalordito Hasan confrontarsi con estremisti vari, tra chi si dichiara fieramente fascista e nostalgico di Francisco Franco e chi giustifica a più riprese l'uccisione dei bambini palestinesi da parte dell'esercito israeliano. Tra le persone che si alternano nei brevi faccia a faccia, non manca chi ricorda al giornalista di venire da una famiglia di immigrati (Hasan è di origine indiana), chi dice che i bianchi sono nativi americani e chi lo invita ad andarsene dagli Stati Uniti. Da notare che Hasan non è uno sprovveduto, quando si tratta di dibattiti: oltre a essersi formato al Christ Church College di Oxford e distinto nella stessa Oxford Union, la società di debating dell’Università britannica, è anche autore del libro Win every argument. The art of debating, persuading and public speaking (Henry Holt and Company, 2023). Infatti il suo sconcerto non era tanto dovuto alla difficoltà di argomentare quanto al trovarsi di fronte a simili argomenti su una pubblica arena.
“1 progressista contro 20 conservatori di estrema destra” fa parte della serie Surrounded, format di punta della casa di produzione Jubilee Media, specializzata in game show e, appunto, gare di dibattito. In un solo anno di vita (da notare che il primo video della serie vedeva al suo centro proprio Charlie Kirk), il modello “uno contro tutti” di Surrounded ha già sfornato perle come “un repubblicano contro 25 elettori di Kamala Harris”, con l'influencer di estrema destra Ben Shapiro nel ruolo del repubblicano, o “Un conservatore contro 20 femministe”, laddove il conservatore in questione è Candace Owens, commentatrice politica e youtuber anch'essa di estrema destra che lo stesso Kirk a un certo punto ha dovuto allontanare da Turning Point Usa, di cui era stata direttrice della comunicazione, per un commento in cui poco velatamente simpatizzava con Hitler. Non tutti i video di questa serie puntano sul personaggio celebre: bastano anche titoli su temi divisivi come “Un teenager liberal contro 20 trumpiani” o spericolati come “Un poliziotto contro 20 criminali”.
Oltre a Surrounded, il canale YouTube di Jubilee offre anche il format “Middle Ground”, in cui si sfidano due opposte fazioni: “Con o senza figli”, “Sinistra contro MAGA”, “Pro o contro Elon Musk”, “Femministe contro trad wives”. Ovviamente gli altri canali non stanno a guardare e si adattano allo spirito dei tempi: il New York Post ospita la serie Face your hater, Vice ha il proprio format di dibattiti, l'attivissima content creator cristiana Michelle Daf ha sul proprio YouTube un format di debating, chiamato The Bridge, assolutamente indistinguibile (se non per l'enfasi su temi religiosi) da Middle Ground, e via dicendo. Tra i titoli più sorprendenti di quest'ultimo, troviamo Scienziati contro terrapiattisti, divisione che sembrerebbe indurre a pensare che le due posizioni siano sullo stesso piano di legittimità.
E qui arriva il primo problema: format come questi rischiano di creare false equivalenze tra fazioni opposte che, però, equivalenti non sono. Mettere, come ovviamente è già stato fatto, “un dottore contro 20 antivaccinisti” o “no vax contro vaccinisti”, è sicuramente garanzia di spettacolari scambi di battute, ma è anche un modo abbastanza subdolo di delegittimare principi e posizioni sostenute dai fatti e dalla scienza aprendosi al confronto con teorie del complotto e antiscientiste. Uno spettatore informato e in vena di un certo tipo di intrattenimento può anche godersi lo spettacolo per poi andare oltre, ma una persona con pochi strumenti culturali e scarsa capacità di discernere tra notizie fondate e fake news diventa preda dell'argomentazione più suggestiva. E poiché stiamo pure sempre parlando (anche) di intrattenimento, questa idea del dibattere con tutti, unita al bisogno di fare visualizzazioni, regala visibilità a personaggi estremi e troll vari, sdoganandoli come interlocutori politici e personaggi pubblici.
E arriviamo al secondo problema. Dibattere di un argomento, mettendo gli uni di fronte agli altri pro e contro una determinata posizione, ha un ruolo “educativo” o è spettacolo puro? E poi: nelle discussioni, specie in quelle pubbliche e destinate al consumo di un pubblico generalista, ha davvero la meglio chi riporta i fatti e offre le argomentazioni più solide, il rigore dei dati, il sostegno della statistica? Banalmente, basterebbe dare uno sguardo a qualche flame da social network per constatare che raramente si verifica questa felice circostanza. Ma anche molti studi, soprattutto nella branca della psicologia comportamentale, ribadiscono che a portarci verso una determinata opinione, tantomeno ad avvicinarci a una sorta di verità, non bastano il ragionamento e la logica.
Secondo Daniel Kahneman, premio Nobel e autore del classico dell'economia comportamentale Pensieri lenti e veloci, la mente umana arriva a un'opinione e opera una scelta in base a un impasto di emozioni, esperienze personali, presentazione delle informazioni, bias, euristiche e poi, sì, anche il ragionamento logico. Assieme al collega Amos Tversky, già vari decenni fa Kahneman ha elaborato una “teoria delle decisioni”, più nota come “teoria del prospetto”, che, benché originariamente delimitata al campo economico, può essere facilmente estesa ed è infatti stata ripetutamente ripresa e citata, anche riguardo al modo in cui, nel corso di una discussione, ci facciamo influenzare dall'una o dall'altra parte. Tra i principali fattori che fanno sì che un argomento risulti vincente, ci sono, per esempio, il bias di conferma (cerchiamo informazioni che consolidano quella che è già la nostra opinione di base), il cosiddetto “effetto di mera esposizione” o “principio di familiarità” (tendiamo a prendere maggiormente in considerazione un argomento che abbiamo già sentito ripetere in precedenza), la tendenza innata a semplificare questioni complesse, il “framing”, ovvero i tanti modi in cui una stessa informazione viene presentata (Una frase come «La possibilità di sopravvivenza un mese dopo l'operazione è del 90%» non fa lo stesso effetto di «La mortalità a un mese dall'operazione è del 10%»). Insomma decidere se si è pro o contro un certo principio o un dato assunto non dipende solo da fatti oggettivi ma da chi ne parla, da come ne parla, da quando ne sentiamo parlare, dalla cornice che racchiude determinate affermazioni e da tutte le approssimazioni, emozioni e scorciatoie mentali che abitano la nostra mente anche quando pensiamo di stare ragionando lucidamente.
Oltre a ciò bisogna considerare l'aggressività, l'inseguimento del rage-baiting, la facile tentazione di cavalcare rabbia e tensioni sociali, che i partecipanti a questi confronti-spettacolo, pur tra saluti cordiali, strette di mano e apparente aderenza a regole di confronto civile, cavalcano più che fieramente. Ed ecco quindi che, più che palestre di idee, le gare pubbliche di dibattito e i dibattiti-show su YouTube diventano arene dove contano la performance e la vittoria, non la comprensione, alimentano logiche da tifoseria, riducono temi delicati e complessi a contenuti virali da consumare, rendono plausibili altrimenti opinioni aberranti. Contano la risposta veloce, la domanda a trabocchetto, la frase sopra le righe che strappa l'applauso, il momento gotcha (“ecco, ti ho fregato”) da rendere virale. Non è un caso che i video più popolari abbiano titoli che promuovono la logica dell'annientamento dell'avversario, con keywords come “distruggere” ed “eviscerare”.
Questa spettacolarizzazione del dibattito e della dialettica non solo condiziona i nostri consumi culturali, ma produce un immaginario politico in cui discutere equivale a lottare fino ad annientare chi la pensa diversamente. Una deriva che non può non riguardare molto da vicino la parabola di Kirk, che di questo sistema è stato figura centrale. Hasan Piker, influencer turco-statunitense e commentatore politico di sinistra che avrebbe dovuto partecipare a un faccia a faccia con Kirk alla fine del mese, è il primo a mettere in dubbio l'efficacia di questi dibattiti. O quantomeno a mettere in guardia sul significato che avevano i dibattiti-show del fondatore di Turning Point USA, come ha dichiarato di recente al Guardian. «Bisogna essere cauti nell’interpretare la predilezione di Kirk per i dibattiti come un autentico tentativo di impegnarsi in un argomento significativo», spiega Piker al quotidiano britannico, aggiungendo che «Lo scopo ultimo di questo tipo di cultura del dibattito, fatta di sequenze video focalizzate, non è in realtà quello di raggiungere una qualche verità nascosta attraverso il discorso o il metodo socratico, ma piuttosto quello di umiliare ritualisticamente i propri interlocutori». Eppure, ancora oggi, nel paese in cui la libertà di parola ha appena subito l'ennesimo colpo autoritario con la cancellazione del programma Jimmy Kimmel Live! proprio in seguito a un'analisi delle reazioni repubblicane all'omicidio Kirk, sono in tanti a ricordare le tournée dell'estremista come lodevoli occasioni di confronto dialettico e di scambio di idee.
Per esempio lo ha fatto, all’indomani dell’assassinio, il giornalista Ezra Klein sul New York Times, con un articolo intitolato “Charlie Kirk praticava la politica nel modo giusto” che ha suscitato molte critiche, proprio in virtù dei discorsi d'odio che caratterizzano quella politica, mettendo in pericolo persone o gruppi marginalizzati. Come scritto su Liberal Currents da Cameron Cummins-Smith:
Kirk non era dalla parte di chi sosteneva la possibilità di fare politica in America. Era dalla parte di chi promuove gli obiettivi politici della destra attaccando i suoi avversari di sinistra con ogni mezzo necessario.
In un recente articolo del New Yorker, il critico culturale Brady Brickner-Wood spiega che ciò che rende i video-dibattiti in stile Surrounded o Prove me wrong particolarmente attuali «è il modo in cui cercano di antropomorfizzare internet, trasformando il discorso incendiario in una sorta di gioco di ruolo dal vivo». L'articolo, datato 8 agosto, prosegue con delle domande: «E se l’account di meme che pubblica contenuti radicali di destra potesse parlare? - si chiede Brickner-Wood - E se il thread su Twitter che descrive la misoginia perenne di Trump fosse una persona? E se queste forze si incontrassero, nella vita reale, per un po’ di combattimento linguistico malriuscito?».
Un mese dopo la risposta è arrivata, e il combattimento è andato molto oltre il piano linguistico. Il “dimostrami che ho torto” non è arrivato con una fine argomentazione dialettica, ma con un colpo d'arma da fuoco. E il giochino di mettere costantemente in risalto posizioni sempre più estreme e discorsi di odio sempre più legittimati, per intrattenimento o calcolo politico, potrebbe avere contribuito non poco a togliere allo scambio di idee un ulteriore strato di umanità.
(Immagine anteprima via WikiMedia Commons)








Jack
Temo che i discorsi di Trump, Kirk, Netanyahu, Smotrich, Vannacci e imitatori al seguito non siano più discorsi di odio dinanzi ai quali si provano spontaneamente indignazione e rabbia: non sono eccezioni che rinviano ad una norma da riaffermare ma sono diventati la norma stessa, sono il “politicamente corretto” dell’era dell’egemonia culturale delle destre neofasciste globali. Desensibilizzando gradualmente il pubblico attraverso un lento, molecolare avvelenamento verbale quotidiano (sul blog di un noto giornalista molto vicino al nostro governo è presente una rubrica dal titolo “Caffè avvelenato. Ogni giorno un po’ di veleno sulle cose del mondo”) sono stati sdoganati linguaggi sempre più estremi: la “fasciosfera”, come è stata efficacemente definita, impiega quotidianamente un martellante campionario linguistico attinente alla distruzione dell’avversario, alla sua medicalizzazione o animalizzazione; non c’è dibattito che non sia uno scontro nel quale il paladino del buon senso, della natura, della libertà, delle brave persone rispettabili e ben vestite ecc. ecc. non “distrugga” o non “metta a cuccia” l’avversario, o questi non si mostri “fuori di testa”, “malato”, “pazzo”, ecc.: non serve ricordare, ovviamente, a quali immondi ambiti politici attingano retoriche di questo genere. Non proseguo, anche se si potrebbe a lungo, causa nausea suscitata da codesti apologeti della “libertà”: la libertà del lupo, che è quella di divorare la pecora, o (italicamente!) la libertà del superuomo dannunziano (anche se fa davvero ridere evocare il Vate a proposito di certa gente, più versata nell’arte delle urla e degli insulti che in quella dell’eletto eloquio del “Notturno”), che è il privilegio del singolo costruito sul disprezzo nichilista della massa; non certo la libertà che è diritto di tutti, e che viene palesemente violata da questa continua intimidazione e disumanizzazione dell’altro. Dinanzi a questo politicamente corretto di marca neofascista, tuttavia, a me non sembra che evitare il confronto sia la strategia appropriata: finché sarà ancora possibile occorre ribattere punto su punto, non opponendo slogan gladiatori e spettacolari ma confutando con solidità di argomenti e chiarezza di esposizione, come non è difficile essendo la retorica neofascista votata alla scossa emotiva e non alla persuasione razionale. In altre circostanze avrei condiviso il suggerimento del titolo dell’articolo, riconoscendone il buon senso di fondo, ma non oggi: rinunciare al confronto non fa sparire gli avversari ma serve solo a lasciare loro totalmente libero il campo, non ad elevarne la qualità etico-politica ma a rendere il loro linguaggio l’unico linguaggio, e dunque il linguaggio della “normalità”.
Roberto Simone
In linea di principio sono d'accordo con te. In pratica faccio quello che suggerisce il titolo. Per mia manifesta incapacità ovviamente. Ma faccio anche di peggio: neppure li guardo i dibattiti (non ho neppure la tv: già questo probabilmente fa di me un appartenente "all'elitarismo intellettuale"). Proprio perché sono solo una gara (non a caso si decreta un "vincitore). Alla fine il "vincitore" non è quello che ha portato le argomentazioni migliori ma quello che è apparso più sicuro di sé (ergo "sa di cosa parla") si è reso più simpatico o è stato più efficace nel ridicolizzare l'avversario. Ovvero quello meglio costruito o che ha meglio studiato i trucchetti non solo retorici ma anche attoriali (postura, tono della voce, movenze). Alla fine è solo una forma moderna di uno spettacolo al Colosseo (e anche qui non sarà mica un caso se si parla di arena). Ma hai ragione: è un po' come ritirarsi sull'Aventino e tutti sappiamo com'è finita. D'altra parte partecipando a certi dibattiti il rischio è di legittimare scempiaggini che neppure hanno la dignità per essere chiamate "idee". E anche la scelta di ricalcarne metodi e toni mi lascia perplesso anche se nel caso del governatore della California Newsom almeno al momento sembra pagare. Di certo a me danno solo la nausea.
Jack
Condivido anch’io le tue riserve (nausea compresa): il rischio di invischiarsi in una diatriba puramente teppistica, o di accreditare una falsa equidistanza fra posizioni che non possono essere poste sullo stesso piano, è molto reale, dato che i confronti in tv o in rete si svolgono spesso nei modi e con gli esiti che descrivi. Cerco di seguire una logica del male minore, ma soprattutto confido nella capacità di non lasciarsi imporre le regole del gioco: se ci si limita a mimare il comportamento dell’avversario, tanto sul terreno programmatico come su quello comunicativo, magari solo smussandone alcuni oltranzismi, si è sconfitti in partenza, poiché si rinuncia ad essere alternativa. Si va a rimorchio, e fra l’originale e la copia è ovvio che la gente preferisca il primo. La conquista dello spazio comunicativo da parte delle destre, a mio avviso, è passata da qui: attraverso uno sforzo poderoso favorito dall’emergere dei nuovi spazi comunicativi digitali, inizialmente non ancora colonizzati e abbastanza ampi da bilanciare e sopravanzare quelli tradizionali, hanno raggiunto una massa critica sufficiente per imporre l’agenda della comunicazione, focalizzando l’attenzione (che è una risorsa limitata) dell’opinione pubblica su pochi temi facilmente esasperabili e marginalizzando o negando tutto il resto; Salvini che ritiene i migranti una minaccia più grave di Putin e ammonisce l’Europa a non parlare di guerra quando i droni russi saggiano le reazioni della NATO in Polonia è un esempio (uno solo) di questa visione assurdamente rovesciata. In un certo senso, meno paradossale di quanto potrebbe apparire, le destre hanno sottoposto le democrazie liberali ad una sorta di “sovietizzazione”: la propaganda ha preso il posto della realtà. Quello che vorrei vedere da parte di chi realmente crede in un’alternativa, perciò, non è la rincorsa dell’avversario sul suo stesso terreno, ma la scelta convinta di un’agenda in cima alla quale figurino due obiettivi ai quali la propaganda ha dimostrato di non poter resistere: glasnost e perestrojka.
Roberto Simone
Anche in questo caso condivido tutto. Ma vedo almeno due difficoltà, belle grosse però, che ho sperimentato quando ancora avevo un account su facebook (ora non ho più nessun social, escluso whatsapp di cui faccio uso parsimonioso) e che hanno a che fare con la nostra natura. La prima è che vogliamo sentirci dire che abbiamo ragione anche quando abbiamo torto. Quindi se provi a spiegare a qualcuno che sta diffondendo una bufala nel migliore dei casi ti darà del professorino o dell'intellettualoide che vive fuori dalla realtà o magari del radical chick (anche se è passato un po' di moda) e continuerà a diffonderla tranquillamente, tanto più se si tratta di pregiudizi ben radicati. Mi viene in mente il caso di Angelica, la ragazzina rom di 15 anni che nel 2008 fu accusata a Ponticelli di un rapimento mai neanche immaginato. Nessuno mise in dubbio la parola dell'accusatrice italiana e questo non solo portò alla devastazione del campo Rom a cui Angelica apparteneva, ma anche a 4 anni di galera per lei perché secondo la corte d'appello "è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom": che avesse o meno commesso il fatto era evidentemente un optional. La seconda difficoltà è che i messaggi che puntano alla pancia sono molto più facili da assimilare di quelli che puntano al cervello perché come recitava una canzone di qualche anno fa "lo slogan è fascista per natura". Questi due fattori messi insieme danno alla peggiore destra un vantaggio notevole nella comunicazione. Credo sia per cercare di aggirare questo "vantaggio" che a sinistra si è quasi sempre cercato di scimmiottare lo stesso linguaggio quando non gli stessi temi della destra. Quasi sempre, perché vent'anni fa Vendola in Puglia vinse anche grazie ad una campagna che capovolgeva i pregiudizi di cui era bersaglio (per esempio: "Estremista! Nell'amore per la Puglia"). Ovviamente non c'è nulla di nuovo in tutto ciò: nel secolo scorso abbiamo già visto quali danni può fare la propaganda al servizio dei totalitarismi. Ora i social hanno amplificato il fenomeno anche perché i devices sono quasi diventati un'estensione del nostro corpo. Saremo in grado di sviluppare gli opportuni anticorpi prima che sia troppo tardi?
Jack
Le due difficoltà che individui sono purtroppo reali: ne faccio esperienza anch’io, pur non avendo mai avuto profili social salvo whatsapp, di cui faccio a mia volta un uso ridotto all’essenziale. Non c’è modo di scavalcare questi ostacoli, poiché si tratta di reazioni collegate a tendenze psicologiche profonde, individuali e collettive: io credo che una via plausibile per aggirarle risieda nel non assecondarle, evitando cioè di combattere il fuoco con il fuoco ma, come accennavo nei commenti precedenti, replicare facendosi portatori di una narrativa e di una prassi diverse, accettando il confronto anche sapendo di essere forse perdenti, almeno all’inizio, ma senza mai rinunciare a condurlo con la consapevolezza che la democrazia è mediazione razionale degli interessi, e dunque è basata sulla persuasione e non sull’ingiuria o sulle fake news. È questo per me il senso di un’autentica alternativa: disattivare pazientemente la “normalità” di un discorso basato sull’odio (Vannacci è arrivato a teorizzare un inconcepibile “diritto all’odio”, come se esistesse in capo a qualcuno l’obbligo di farsi odiare) facendo leva sempre e comunque su un discorso razionale e su emozioni diverse, più sane e costruttive; sono questi i nostri anticorpi, a mio avviso, poiché la democrazia ha bisogno non solo di un’infrastruttura istituzionale e di un assetto economico che combatta le disuguaglianze, ma anche di solide fondamenta emotive oggi oltremodo bisognose di manutenzione. Avrai senz’altro notato come la mercanzia elettorale della destra comprenda non solo paura, odio e risentimento ma anche nostalgia: una carta sicura, quest’ultima, perché diversamente dalla speranza non delude mai; il futuro può smentire qualunque speranza ma la nostalgia trasporta nel passato, alla cui idealizzazione nessuno può porre limiti. È tipico di società a corto di energie coltivare quella che Bauman ha chiamato “retrotopia”: quando non si ha la forza per puntare sul futuro (ed è impossibile averne se al futuro si deve guardare solo attraverso il filtro della paura, che rende un qualche scenario di finis mundi l’unica aspettativa sensata) l’utopia si trasferisce nel passato, al riparo da ogni smentita della realtà. Ricordo un’intervista ad un anziano Gorbaciov, pochi anni prima della morte, nella quale l’intervistatore chiese se sarebbe stato possibile introdurre la democrazia in Russia: sorrise, e rispose con una sola parola: pazienza, occorre molta pazienza. Credo che occorra anche a noi lo stesso: essere capaci di un approccio “für ewig”, che mira alla paziente costruzione di una credibilità alternativa molto più che alla vittoria immediata negli agoni gladiatori mediatici, se vogliamo introdurre una discontinuità razionale ed emotiva nella “normalità” dalla quale siamo circondati.
Mirko
Sono incappato in questo sito, ma lo trovo molto di parte, alla faccia del fatto che vi fregiate di non essere sponsorizzati e di basarvi sui fatti. I fatti che leggo io sono diversi, boh? Mi sa che è il solito gioco di chi vuol vedere solo quello che vuole. Ma del resto capisco che sforzarsi di essere super partes in un qualunque dibattito è molto difficile da parte di chi ha già scelto a priori da che parte stare.
Mirko
Aggiungo, che il problema che si pone l'autore circa la legittimazione di teorie che non gli piacciono, che lo trovo un falso problema. Lo scopo di questi format è proprio quello di far emergere, se c'è, una sorta di verità, o di far propendere gli ascoltatori per la fazione più convincente. E' sottointeso che la fazione che poggia su verità solide e teorie maggiormente condivise dal buon senso, dovrebbe emergere naturalmente. Terra tonda vs terrapiattisti non mette sullo stesso piano entrambi, nel momento in cui questi secondi vengono schiacciati dal peso di argomentazioni e spiegazioni assolutamente incontrovertibili anche agli occhi della sciura Pina. Se così non dovesse essere, chi le propugna dovrebbe porsi qualche domanda, non trovate?
Valigia Blu
Ciao, premesso che è autrice, non autore, è un falso problema nella misura in cui quelle opinioni non mettono a repentaglio la tua incolumità, lavorativa, mentale o fisica. Altrimenti sappiamo bene entrambi che assisteremo a un altro tipo di commenti. C’è un motivo se condotte come l’apologia di reato, la minaccia, l’istigazione a delinquere e alcune forme di discorso d’odio (come l’antisemitismo) sono reato. Sdoganare l’odio è un format solo in una società che ritiene profittevole mettere a repentaglio l’incolumità di cittadini evidentemente considerati di “serie b”. A parte questo: non essere d’accordo con un articolo fa parte naturalmente del gioco, tuttavia bollare “come fazioso” tutto quello che non piace ha poco senso, onestamente. Ma se anche fosse, per noi non esiste un punto mediano tra “le persone trans sono un abominio” o “i diritti umani vanno rispettati”: se non altro perché, da persone che hanno studiato storia e i discorsi d’odio, sappiamo che un certo sdoganamento è sempre propedeutico alla repressione, per via legislativa o attraverso la violenza. Ci fermiamo qui con gli esempi per brevità, ovviamente.
Silvia B
Quanti troll nei commenti. Gli articoli belli come questo fanno sempre emergere le code di paglia e i troll redpill/incel. Quanta rabbia repressa che avete...
Angelo
I social servono solo ad aggravare il surriscaldamento globale
Maurizio
L'immigrazione, l'aborto, l'islam, il politicamente corretto, la teoria generale, i cosiddetti diritti delle minoranze non sono l'olocausto. Chi pensa che sono fatti acquisti da togliere dal dibattito non ha capito nulla. Se ne faccia una ragione.
Roberto Simone
"i cosiddetti diritti delle minoranze": secondo lei cosa sono in realtà? Ma occhio alla risposta: un giorno potrebbe scoprire di essere parte di una minoranza anche lei. PS: cos'è la "teoria generale"?
Matteo Pascoletti
Grazie per la precisazione, quindi persecuzioni/molestie o discorsi d'odio contro neri, persone lgbtq+, donne che abortiscono, musulmani ok, contro ebrei no. Registro che la mia soglia di umanità è più ampia e include tutti questi gruppi, a posto così. Immagino sia inutile fare notare che, per esempio, in paesi come il Regno Unito il matrimonio egualitario è stato concesso da un premier conservatore. Ma questo è anche il problema di bersi la propaganda di estrema destra come uno schema fisso del mondo, per cui "destra -> disumanizzare gay". Per tua sfortuna il mondo è pieno di conservatore decenti da questo punto di vista, e non voglio certo io fare i conti col tuo livore. Al massimo mi organizzo all'interno della comunità in cui vivo per proteggere e tutelare le persone più esposte da gente che la pensa come te.
xavier
riporto da Vatican news, spero che chi viene da una cultura laica abbia la curiosità di accostarsi a un pensiero che vanta una tradizione millenaria: Papa Francesco avverte e ripete più volte: "Con il diavolo non si dialoga". Con lui "non si deve discutere mai". Così ha fatto Gesù nel deserto: "lo ha cacciato via". E alle sue provocazioni ha risposto solo con le parole della Sacra Scrittura. Papa Francesco ripete: State attenti: il diavolo è un seduttore. Mai dialogare con lui, perché lui è più furbo di tutto noi e ce la farà pagare. Quando viene una tentazione, mai dialogare. Chiudere la porta, chiudere la finestra, chiudere il cuore. E così, ci difendiamo da questa seduzione.
cassandra
lo sapeva bene, era il suo padrone
Miki
"prove me wrong" è un format fazioso e polemico già dal nome, e costringe un interlocutore a inseguire e confutare le asserzioni dell'altro, presentate come intrinsecamente giuste; "prove me you're right" sarebbe la risposta corretta, visto che sei tu a salire su un palco universitario a proporre la tua idea;