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Accordo commerciale Europa-Canada apripista per favorire le multinazionali ovunque

22 Giugno 2016 17 min lettura

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Accordo commerciale Europa-Canada apripista per favorire le multinazionali ovunque

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Gli accordi di libero scambio dell’Europa con Usa e Canada, il Ttip e il Ceta, “sono fondamentali”, e non si può rischiare di farli saltare per il voto negativo di uno dei Parlamenti dei Paesi membri.

Queste le parole del ministro italiano dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, il quale ritiene che occorrerebbe dare maggiore potere alla Commissione europea per negoziare gli accordi di libero scambio, senza dover passare per la ratifica dei Parlamenti nazionali.
L’Italia, quindi, è schierata con Bruxelles, per evitare che uno Stato membro dell’UE possa bloccare i negoziati in corso. In effetti, il Trattato di Lisbona prevede la possibilità che sia solo l’Unione europea a negoziare un trattato (procedura EU only), se questo riguarda soltanto materie commerciali. Invece, Francia, Germania e Austria sono contrarie, pretendendo una ratifica anche da parte dei Parlamenti nazionali, in quanto considerano CETA e TTIP trattati misti.

Il punto è che l’opinione pubblica è sempre più contraria a questo tipo di trattati.

CETA, cosa prevede l'accordo e i possibili rischi

CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, cioè accordo economico e commerciale globale), si può considerare il fratellino minore del più conosciuto, e dibattuto, TTIP. È un accordo tra Unione europea e Canada che si trova in fase avanzata di negoziazione, e che potrebbe entrare in vigore nel 2017. Lo scopo di Ceta, e dei trattati similari è quello di creare un’area di libero scambio (FTA, free trade area).

Un’area di libero scambio non è altro che l’abbattimento delle barriere (tariffe, quote di importazione, limitazioni normative) che impediscono il libero fluire delle merci e dei servizi tra i paesi contraenti. La realizzazione di una normativa comune e l’abbattimento delle barriere si basa sulla teoria del vantaggio comparato, in base al quale in un mercato senza restrizioni ogni fonte di produzione tende a specializzarsi nell’attività per la quale presenta un vantaggio rispetto alle altre fonti, in tal modo si realizza un benessere globale maggiore per l’intera FTA. Il problema è che si tratta di un benessere complessivo, che non tiene affatto conto della distribuzione all'interno dell’area di libero scambio.

Può accadere, infatti, che determinate regioni, la cui economia si basa su un prodotto unico (pensiamo alla pesca), siano costrette a smettere la produzione perché altre aree sono più competitive, con conseguente aumento della disoccupazione e maggiore povertà dell’area specifica, e successiva migrazione della popolazione locale, fermo restando un vantaggio complessivo dovuto all’abbattimento del prezzo di quel prodotto. Generalmente il vantaggio è, però, a favore delle multinazionali che possono permettersi economie di scala e costi di produzione più bassi.

CETA, quindi, come TTIP, è un trattato economico con l’obiettivo dichiarato di aprire ulteriormente i mercati per favorire crescita e lavoro. Nasce, come anche ACTA, all’interno della strategia globale della Commissione europea fissata nella risoluzione del 22 maggio del 2007 (Global Europe - external aspects of competitiveness).

I negoziati sono iniziati nel 2008 con la pubblicazione di uno studio congiunto sulla valutazione di costi e benefici a seguito di un partenariato economico più stretto, che evidenzia i vantaggi in settori quali la mobilità del lavoro e la cooperazione normativa. Nel 2009 Canada e Unione europea rilasciano una relazione congiunta che delinea l’agenda dei negoziati, e dalla quale si evince un progetto ambizioso che riguarda anche la normativa in materia di concorrenza e la regolamentazione della proprietà intellettuale. Il 6 maggio viene annunciato CETA.

Rimozione delle barriere

All’interno del testo di CETA si ritrovano numerose norme che non riguardano solo le materie economiche, anche se i negoziatori si giustificano dicendo che servono per rimuovere le barriere commerciali tra i paesi firmatari e che quindi sono inquadrabili nell’ambito della regolamentazione commerciale.
In realtà, quando si parla di rimozione di barriere occorre ricordare che le tariffe e i dazi tra Unione europea e Canada (oppure tra UE e Usa per quanto riguarda il TTIP) sono già basse. Col TTIP, ad esempio, si prevede l’eliminazione del 25% degli NTB, cioè delle barriere non tariffarie, vale a dire le misure commerciali non fiscali volte al controllo delle importazioni e delle esportazioni sulla basi di interessi diversi come la sicurezza alimentare, la sicurezza sul lavoro, norme ambientali e sanitarie.

Si tratta di tutte quelle norme che caratterizzano l’ordinamento europeo rispetto agli Usa e al Canada come un luogo che pone maggiore attenzione alla sicurezza dei cittadini (leggi anche L’accordo commerciale Usa-Europa favorirà davvero lavoro e sviluppo?).

Stranamente la Commissione si preoccupa tanto delle barriere commerciale con il Canada e gli Usa, ma molto meno del geoblocking (leggi L’Europa delle barriere digitali in nome del profitto), una barriera commerciale, esistente all’interno del mercato europeo, che impedisce in alcuni casi ad un cittadino europeo di acquistare film in un altro Stato. Il geoblocking non è altro che il risultato di accordi tra gli operatori del mercato, al fine di suddividere artificialmente un mercato (nello specifico il mercato europeo) e così massimizzare i profitti a scapito dei consumatori (price discrimination). Invece i diritti di trasmissione sono stati esclusi dal TTIP.

Proprietà intellettuale

Tornando a CETA, possiamo inquadrarlo nel processo di estensione mondiale del sistema di proprietà intellettuale americano, iniziato un decennio fa con la costituzione del WIPO all'interno del WTO (organizzazione Mondiale del Commercio), e l'adozione dell’accordo TRIPs (l'idea di base del TRIPs è che la proprietà intellettuale è una questione esclusivamente commerciale e in tal senso va regolata).
Il WIPO fissa gli standard per la tutela della proprietà intellettuale, i marchi e i brevetti, incluso regole per ottenere misure provvisorie ed ingiunzioni in caso di violazioni.

Per capire le problematiche sottese occorre ricordare che ai paesi in via di sviluppo fu concesso un termine temporale maggiore di adeguamento alle nuove norme, perché l’applicazione immediata dell’accordo TRIPs avrebbe potuto nuocere alle loro economie. Ad esempio, in materia di farmaci i paesi poveri non possono permettersi di pagarli allo stesso prezzo degli paesi occidentali, e quindi usufruiscono della cosiddetta importazione parallela di beni brevettati da un altro paese (es. India) dove costano meno rispetto al paese produttore (Usa). L’Africa sfrutta spesso l’importazione parallela, ad esempio per i farmaci anti Aids, ma anche molti americani che non si possono permettere i costi elevatissimi di alcuni farmaci li importano dal Canada. Non si tratta di una violazione dei diritti, perché il produttore è sempre lo stesso.

Per capirci è come se Netflix vendesse una serie televisiva ad un prezzo in Italia e un prezzo minore in Germania, e un utente italiano invece di comprare la serie dal sito italiano lo comprasse dal sito tedesco per risparmiare. Per impedire ciò esiste, per le produzioni televisive, appunto il geoblocking.

Nel 2002 ben 40 aziende farmaceutiche fecero causa al governo del Sud Africa sostenendo che l'importazione parallela violasse i loro diritti, e da quell'anno gli Usa sponsorizzano nuovi accordi di libero scambio, che di fatto impediscono o limitano le forme di importazione parallela. Si tratta dei TRIPs plus, come ACTA e CETA.

L'idea di fondo è semplice, realizzare delle norme tra Stati aderenti che siano flessibili, e sottrarre progressivamente la tutela dei diritti delle multinazionali ai governi e ai giudici per affidarla direttamente alle multinazionali, tramite tribunali creati ad hoc (vedi ISDS più avanti). L'idea dietro ACTA, CETA, ma anche TTIP e TPP, è di impostare delle regole comuni per poi andare a negoziare con gli altri Stati con quelle norme, imponendole ai paesi poveri e alle economie emergenti. In tutto questo le libertà dei cittadini risultano un mero accidente destinato a soccombere se in conflitto con i diritti economici delle multinazionali.

CETA e ACTA

In merito a CETA è particolarmente interessante la sua evoluzione. Infatti, dopo la bocciatura di ACTA da parte del Parlamento europeo, la Commissione europea ha inserito all’interno del trattato CETA parte della normativa del trattato anticontraffazione (in realtà alcune norme presumibilmente erano già presenti prima, ma la scarsa trasparenza dei negoziati e l’assenza di testi di riferimento rende difficile comprendere le evoluzioni dei testi).

L’esperto Michael Geist ha fornito articoli, notizie e tabelle comparative dalle quali si evince l’estrema similarità delle norme in materia di proprietà intellettuale tra CETA e ACTA. Ad esempio anche in CETA si sollecitavano misure repressive verso gli intermediari della comunicazione al fine di bloccare contenuti illeciti, introducendo forme di responsabilità degli Isp per semplice favoreggiamento.

In CETA si prevedeva l’obbligo di trasmettere i dati, compresi quelli bancari, di un abbonato ad un contratto di accesso alla rete direttamente alle aziende in casi di semplice accusa di violazione, al fine di consentire ai produttori di contenuti di agire direttamente contro l’abbonato.
Con CETA si introducevano obblighi per gli Isp di monitorare la rete al fine di impedire la ripubblicazione di contenuti illeciti (stay down) con ciò determinando un obbligo di sorveglianza diretta nei confronti dei propri utenti (obbligo tra l’altro ritenuto illegittimo dalla Corte di Giustizia europea).
Quindi CETA, come ACTA, introduceva specifiche sanzioni criminali e questo nonostante il fatto che i trattati di tipo TRIPs non possano prevedere tali misure, essendo di competenza esclusiva dei singoli Stati.

A seguito del trapelamento delle bozze del trattato (potete leggere i testi sul sito EU Investment Policy: Looking behind closed doors) sono state sollevate numerose critiche anche dai canadesi, e i negoziatori hanno fatto parzialmente retromarcia, eliminando alcune delle norme più pericolose dal trattato. Ovviamente è plausibile, come asserisce la Commissione, che alcune norme siano state rimosse semplicemente perché ACTA era stato bocciato e quindi ci si è reso conto che dette norme non sarebbero passate. C’è però da rimarcare la perdurante assenza di trasparenza sui negoziati e sugli stessi testi di questo e di altri trattati internazionali.

I colloqui relativi agli accordi di libero scambio avvengono sempre in gran segreto, perché, ovviamente, ci sono anche interessi aziendali in gioco. Ma è ovvio che la segretezza dei negoziati (il testo di CETA è stato rilasciato solo nel 2014), ai quali spesso sono invitati le grandi aziende (ai negoziati del 19 dicembre 2013 sul TTIP erano presenti TimeWarner, Microsoft, Ford, Eli Lilly, AbbVie, LVMH, Nike, Dow, Pfizer, GE, BSA e Disney, ma nessuna associazione di cittadini), non consente un controllo efficace dell’opinione pubblica e c’è il rischio concreto che le priorità pubbliche siano poste in secondo piano rispetto agli interessi privati delle grandi aziende.

Trattandosi di accordi che finiscono per incidere pesantemente sui diritti fondamentali dei cittadini è d’obbligo che questi non solo partecipino al dibattito, ma siano posti a conoscenza degli elementi per una corretta comprensione delle questioni dibattute. Come si concilia tale segretezza con l’articolo 1 del trattato sull'Unione europea il quale prevede espressamente il diritto di tutti a prendere parte in modo attivo e consapevole ai processi decisionali?

Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un'unione sempre più stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini (art. 1 TUE)

Mercato del lavoro, tutti i dubbi sui vantaggi annunciati

La narrazione della Commissione europea e dei supporters dei trattati di libero scambio si incentra sui mirabolanti vantaggi conseguenti all’adozione dei trattati, quindi la creazione di posti di lavoro, l’aumento del PIL, e così via.
In realtà, la magnificazione dei vantaggi si realizza omettendo alcuni particolari fondamentali, come il fatto che l’aumento del PIL promesso si otterrebbe soltanto a distanza di anni, con aumenti limitati annuali. Ad esempio, col TTIP si avrebbe un possibile aumento dello 0,2% annuale (leggi L’accordo commerciale Usa-Europa favorirà davvero lavoro e sviluppo?), mentre per arrivare ad un aumento più sostanzioso (1%) si dovrebbero annacquare tutte le NTB, cioè eliminare norme in materia di sicurezza del lavoro, sicurezza ambientale e così via, per favorire l’esportazione ed importazione libera (senza barriere e con controlli limitati) da parte delle grandi multinazionali.

Per CETA i numeri sarebbero ancora inferiori, apportando un aumento dello 0,08% dopo 7 anni.

Per quanto riguarda l’aumento dei posti di lavoro, basterebbe guardare ai passati accordi FTA per capire che i conti non tornano. Col NAFTA, ad esempio, si sono persi posti di lavoro a causa del trasferimento delle aziende all’estero, dove la produzione costava meno (vantaggio complessivo ma svantaggio locale). Il problema è che i (scarsi) vantaggi in materia di posti di lavoro dipendono principalmente dall’adozione del sistema econometrico.

Il modello econometrico adottato dalla Banca Mondiale, cioè il CGE Computable General Equilibrium (CGE) assume che la liberalizzazione del commercio (l’abbattimento delle barriere, qualsiasi esse siano) determina l'apertura dei settori alla concorrenza mondiale, che quindi assorbono le risorse rilasciate dai settori in contrazione. Però se le risorse sono i lavoratori, è piuttosto difficile sostenere che siano assorbibili in tempi brevi, prima di tutto perché non tutti i lavoratori sono disposti (o possono permettersi) di trasferirsi da un capo all’altro dell’area di libero scambio (con l’approvazione dei trattati TPP, TTIP, CETA e il trattato col Giappone, l’area di libero scambio sarebbe costituita da tutto il mondo eccetto Russia, Cina, India e Brasile), e soprattutto i lavoratori devono comunque acquisire nuove competenze (specializzazione) prima di essere “riallocati” (immaginiamo lavoratori che vengono da una catena di montaggio e devono essere riallocati in un’azienda di software).
Ecco che l’assunto del CGE, che il mercato sia sempre in equilibrio e che quindi non esiste disoccupazione, appare un assunto puramente teorico. Nella pratica un settore si contrae più velocemente di quanto si espanda un altro, (basta ricordare le liberalizzazioni degli anni ‘80 e ‘90) con conseguente disoccupazione e riduzione della domanda, cosa che non è prevista dal CGE.

Utilizzando il Global policy model (GPM) delle Nazioni Unite per simulare l'impatto del TTIP sull'economia globale (leggi L’accordo con gli USA farà perdere all’Europa 600mila posti di lavoro), un ricercatore ha raggiunto conclusioni piuttosto differenti.
Partendo dall’assunto che l’economica sia guidata dalla domanda aggregata (cioè da quanto si compra) piuttosto che dall’efficienza produttiva (quanto si produce, vedi CGE), per cui il taglio dei costi ha effetti negativi sull’economia se il costo è il reddito di lavoro che supporta la domanda aggregata, il TTIP determinerebbe una contrazione del PIL, una riduzione dei salari e un aumento delle disoccupazione, fino a 600mila posti di lavoro persi in Europa.

Una conseguenza certa dei trattati FTA è lo spostamento della produzione delle grandi aziende nei paesi con costi salariali più bassi. Così le multinazionali hanno potuto permettersi guadagni pari a quelli di uno Stato, dislocando la loro produzione nei paesi poveri, Messico ad esempio, oppure nell’est asiatico. Con i trattati di libero scambio stiamo di fatto aprendo la corsa al ribasso delle condizioni di lavoro nei paesi europei, aprendo un nuovo mercato del lavoro, quello dei paesi poveri dell’Europa dell’est agli Usa.

Infatti, negli accordi di libero scambio i diritti umani generalmente non sono menzionati o comunque sono delle mere eccezioni alle regole commerciali, e la tutela dei diritti, che rientra nella barriere non tariffarie, non porta ad un aumento del Pil, anzi spesso accade il contrario. In tale prospettiva la tutela dei diritti finirà per divenire secondaria rispetto agli interessi economici. È in questo senso che la Commissione europea, e il ministro dello Sviluppo italiano, sostengono che CETA è un accordo puramente commerciale e quindi può essere deciso solo dall’Europa senza dover passare per i Parlamenti nazionali.

Tribunali arbitrali

La Commissione europea si è preoccupata più volte di smentire le principali critiche non solo al TTIP ma anche al trattato CETA, precisando che non hanno intenzione di cedere sugli standard europei, ma anche questa affermazione va corretta. Una volta approvato il testo, di fatto le multinazionali potranno anche sottrarsi alla competenza dei tribunali nazionali, utilizzando tribunali specializzati per intentare azioni legali contro gli stessi governi, con graduale compressione della stessa sovranità di uno Stato.

Esistono già adesso numerosi esempi, come la causa intentata dalla Vattenfall contro la Germania per la politica di progressivo spegnimento delle centrali nucleari. L’azienda svedese chiede un risarcimento di 4,7 miliardi di euro per mancati guadagni. Un governo con risorse limitate, e in tempo di crisi economica, dovrà pensarci due volte prima di avviare delle politiche ambientali, in materia di sicurezza della lavoro, che possano in qualche modo ridurre o impedire alle multinazionali di ottenere profitti.

E tutto ciò è permesso in base alla clausole ISDS.
Le investor-state dispute settlement (ISDS, leggi Quando le multinazionali si fanno Stato e chiedono risarcimenti) sono garantite da oltre 2000 trattati internazionali come il NAFTA, e consentono ad una azienda di tutelare i propri investimenti in un paese contro il governo stesso. Tali clausole nascono per proteggere le aziende da governi poco democratici, ma a partire dagli anni ‘50 si sono evolute ed espanse, e adesso, con i nuovi trattati di libero scambio, finiranno per essere attuate nelle dispute tra aziende e Stati sicuramente democratici come quelli europei. Dovunque c’è una minaccia ai “profitti futuri attesi”, un'azienda potrà agire contro un legittimo governo (per un’analisi completa si legga lo studio di Bernasconi-Osterwalder e Mann dell’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile: A Response to the European Commission’s December 2013 Document “Investment Provisions in the EU-Canada Free Trade Agreement CETA) ed imporgli delle scelte di politica economica.

Per comprendere i possibili abusi di tali clausole, basti ricordare l’azione proposta dalla Eli Lilly, un’azienda farmaceutica americana, contro il governo canadese, azione intentata perché un brevetto dell’azienda è stato invalidato dalla Corte Suprema canadese in quanto i dati sperimentali comunicati dall’azienda sono stati ritenuti insufficienti. L’azienda ha quindi citato in giudizio il governo, in tal modo ritenendo illegittimo l'ordinamento canadese in materia di determinazione dell’utilità di un’invenzione, cioè il diverso standard di concessione dei brevetti del Canada che sarebbe troppo rigoroso rispetto agli Usa. E chi ci dice, invece, che non sia quello americano ad essere troppo permissivo?

Il problema è che questo tipo di azioni contro gli Stati vengono decise da tribunali arbitrali realizzati ad hoc. Le clausole ISDS vengono inserite nei trattati per impedire che uno Stato con un sistema giudiziario non all'altezza espropri illegittimamente i beni di un investitore estero. Ed è significativo che gli Usa pretendono sempre l’inserimento di tali clausole nelle negoziazioni con altri Stati, compreso l’Unione europea che ha un sistema legislativo e giudiziario all'altezza se non superiore, in termini di garanzie, rispetto a quello americano.

È evidente, quindi, che oggi le ISDS servono più che altro a determinare un vantaggio competitivo delle aziende Usa. Del resto tali clausole non si applicano alle aziende interne allo Stato e si reggono sul principio del trattamento nazionale, in base al quale l’investitore straniero deve essere trattato alla stregua di quello nazionale, e quello della nazione più favorita (MFN, most favoured nation). Cioè, un’azienda può invocare la protezione prevista da ogni altro trattato (es. firmato tra UE e Africa), se a lei più favorevole.

I tribunali ai quali saranno demandate tali controversie non sono quelli nazionali, bensì tribunali arbitrali sovranazionali per i quali non esistono obblighi di indipendenza, imparzialità e rispetto del principio della separazione dei poteri. Ognuna delle parti in causa sceglie uno dei membri del tribunale e il terzo, se non è scelto di comune accordo, viene selezionato dal segretario generale del Centro Internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti (ICSID), il quale è scelto a sua volta dal presidente della Banca Mondiale. In caso di appello tutti e tre gli arbitri sono nominati dal presidente della Banca Mondiale. Il presidente della Banca Mondiale è nominato dagli Usa. È evidente lo squilibrio a favore degli Stati Uniti.

Un collegio arbitrale così nominato avrà il potere, non di abrogare una norma legislativa democraticamente emanata, ma di stabilire se quella norma compromette i profitti presenti e futuri di un'azienda straniera e quindi condannare eventualmente lo Stato al risarcimento dei mancati guadagni. Ad esempio, la Gabriel Resources ltd ha citato la Romania perché il legislatore, per motivi di sicurezza dei cittadini, ha impedito la realizzazione di una miniera a cielo aperto, per la quale erano stati spesi dall'azienda 1,4 miliardi. La Gabriel Resources aveva acquisito i diritti nel 1990, quando la corruzione era dilagante nel paese.
Alla fine la norma rimarrà in vigore, ma lo Stato potrebbe essere costretto a pagare fino a 4 miliardi di danni, cioè il 2% del Pil. E tutto questo per consentire un aumento del Pil europeo dello 0,2%.

Consultazione ISDS

Le fortissime critiche alle clausole ISDS, che a detta di molti commentatori avrebbero determinato una lesione dei principi democratici in Europa, ma soprattutto l’opposizione della Germania ai tribunali arbitrali, hanno portato la Commissione europea ad indire una consultazione (leggi Il trattato sul commercio con gli USA e la finta consultazione della Commissione europea). Ma tale consultazione si è poi rivelata più che altro una mossa propagandistica, visto che la domanda, poco chiara tra l’altro, non era “vogliamo le ISDS oppure no?” bensì “che tipo di ISDS vogliamo?”.
Nonostante ciò, la consultazione della Commissione si è rivelata un vero e proprio boomerang, il risultato è stato un plebiscito contro le clausole ISDS.

Comunque, dopo le pesanti critiche la Commissione europea è corsa ai ripari apportando alcune modifiche al sistema di tribunali arbitrali. Secondo la nuova proposta i giudici non saranno più arbitri, bensì veri e propri giudici ripartiti egualmente tra Usa, Ue e paesi terzi, probabilmente giudici in pensione o accademici di alto livello. Rimarrebbero, comunque, tribunali arbitrali, cioè un sistema giudiziario parallelo che consentirebbe alle aziende straniere di sottrarsi alla giurisdizione dei tribunali nazionali.

Questa nuova proposta si applicherebbe al TTIP. Ma se anche le clausole ISDS dovessero essere stralciate dall’accordo TTIP, la situazione non muterebbe. Le ISDS rimangono nel trattato CETA. E questo è importante, perché per agire contro un governo è sufficiente avere una sede secondaria nel paese di riferimento. Quindi alle aziende americane sarà sufficiente l’approvazione di CETA per agire contro i governi europei, attraverso la controllate canadesi.

CETA e privacy

E infine, CETA si occupa direttamente anche di protezione dei dati personali, a smentire che si tratta di un accordo meramente commerciale.
L’articolo 13.15 del trattato CETA prevede espressamente l’obbligo per i firmatari di autorizzare i flussi transfrontalieri finanziari, garantendo nel contempo una “adequate safeguards to protect privacy”, ma il testo non chiarisce il contenuto della tutela adeguata.
Inoltre, CETA contiene una deroga generale (articolo 28.3) in base alla quale le leggi europee in materia di protezione dei dati personali non possono essere in contrasto con altre disposizioni di CETA. Se adottato, CETA diverrebbe, in materia di privacy, norma superiore alla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
È evidente che CETA va ben oltre quanto la Commissione, e il ministro Calenda, ci dicono.

Conclusioni

I trattati di libero scambio appaiono niente altro che un mezzo per costringere altri paesi ad aprire ad ogni costo i propri mercati alle multinazionali, con vantaggio specialmente delle aziende americane. E le clausole ISDS, o le equivalenti modificate del TTIP, sono lo strumento perché le aziende possano sottrarsi alla giurisdizione di uno Stato. Così le aziende potranno trarre profitto dall’abbassamento degli standard (NTB) di sicurezza in materia di salute, ambiente nei luoghi di lavoro, in materia ambientale e di protezione dei dati ed altro.

L’analisi del Canadian Centre for Policy Alternatives (CCPA), un documento intitolato Making Sense of the CETA, evidenzia come il trattato sia sbilanciato a favore della multinazionali e a spese dei consumatori, con grave rischio per i diritti di questi ultimi e per l’ambiente e il pubblico interesse.

Non dimentichiamo che PhRMA, rappresentante delle principali aziende americane sulla ricerca farmaceutica, ha chiesto espressamente di cancellare le norme europee che obbligano la pubblicazione dei dati degli studi clinici. Come del resto nel rapporto dell'USTR americano sugli obiettivi e benefici a seguito dell'accordo TTIP, nella sezione “commercio elettronico”, si sostiene chiaramente che: “free flows of data are a critical component of the business model for service and manufacturing enterprises in the U.S. and the EU and key to their competitiveness”.

Quindi, il libero scambio dei dati è essenziale per il modello di business delle aziende, certo, e i diritti dei cittadini? Ma questa è un’altra storia (leggi Usa vs Unione europea: l’escalation della guerra dei dati).

Il dibattito su ACTA ha dimostrato l’esistenza in Europa di una pubblica opinione che va oltre i confini nazionali. In tutta l’Europa la gente è stata coinvolta in proteste e dibattiti. La mobilizzazione della pubblica opinione è stata senza precedenti. Come Presidente del Parlamento europeo, mi sono impegnato a dialogare coi cittadini e a rendere l’Europa più democratica e comprensibile (Martin Schulz, Presidente del Parlamento europeo)

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Nonostante il ministro Calenda scriva (leggi la lettera su STOP TTIP) alla Commissione europea confermando la disponibilità ad una procedura EU only, che quindi non implichi alcun passaggio al Parlamento italiano, il trattato CETA dovrebbe invece essere discusso da tutti, cittadini compresi, e in maniera approfondita e trasparente, non solo perché è un trattato misto che coinvolge aspetti che vanno ben oltre la mera regolamentazione commerciale, ma anche perché implica una profonda invasione nel campo dei diritti fondamentali dei cittadini.

A fine giugno si pronuncerà il Consiglio d'Europa su un testo che non è più modificabile, può essere solo approvato o respinto. Entro la fine dell'anno la parola passerà al Parlamento europeo. Con la doppia approvazione il trattato entrerà in vigore all'inizio del 2017.

 

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