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L’accordo con gli USA farà perdere all’Europa 600mila posti di lavoro

10 Dicembre 2014 6 min lettura

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L’accordo con gli USA farà perdere all’Europa 600mila posti di lavoro

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L'accordo di libero scambio su commercio e investimenti tra Unione europea e Stati Uniti (TTIP Transatlantic trade and investiment partnership) continua ad essere il tema più controverso all'interno delle istituzioni di Bruxelles.

Proteste
I negoziati sono partiti nel 2013 ma procedono con scarsa trasparenza. Mentre le aziende sono coinvolte direttamente (ai negoziati del 19 dicembre 2013 erano presenti: TimeWarner, Microsoft, Ford, Eli Lilly, AbbVie, LVMH, Nike, Dow, Pfizer, GE, BSA e Disney), ai cittadini questo privilegio non è concesso.
Le proteste dell'opinione pubblica si sono, però, fatte sempre più pressanti, a partire dalla manifestazione di ottobre fino alla campagna Stop Ttip, che ha raccolto oltre un milione di firme di cittadini europei contrari al trattato. La Commissione non vuole riconoscere la legittimità dell'iniziativa, così l'organizzazione Stop Ttip ha deciso di presentare un ricorso alla Corte di Giustizia europea. Anche se l'iniziativa non ha solide fondamenta legali, rappresenta comunque un enorme problema politico per la Commissione e le istituzioni europee.

Le proteste montanti hanno comunque convinto la Commissione europea a rilasciare alcuni dei documenti inerenti le negoziazioni e una bozza del testo. In realtà questa apertura appare un mero espediente di una strategia di comunicazione tesa a superare il crescente scetticismo del pubblico circa i negoziati e la reale utilità del TTIP.
In questa prospettiva la Commissione ha anche indetto una consultazione pubblica su uno degli aspetti più controversi del trattato, cioè le clausole investitore-Stato, consultazione che si è rivelata un vero e proprio boomerang, visto che oltre 115mila interventi hanno reso evidente che il pubblico teme che queste clausole possano minare la democrazia nei paesi europei.

Assunti
L'idea alla base del TTIP (e generalmente degli accordi per la realizzazione delle FTA, aree di libero scambio) è che l'eliminazione della barriere tariffarie e non tariffarie determina un maggiore volume di scambi, e quindi porta a maggiori benefici economici. La Commissione europea e l'USTR americano sostengono che entrambe le economie trarranno benefici, così suggerendo che l'accordo non determinerà “perdenti” nell'economia globale.
Ma le previsioni della Commissione europea appaiono fin troppo ottimistiche, e risultano basate su una serie di premesse di lungo periodo che difficilmente si realizzeranno.

Secondo gli studi presentati a supporto del trattato gli europei dovrebbero ottenere un guadagno di circa 544 euro (45 al mese) a famiglia (gli statunitensi 655), con un aumento dello 0,5% del salario dei lavoratori. Tra 10 anni. In pratica si propongono come vantaggi certi dei vantaggi aleatori e irrisori.
Ma aumenteranno davvero i posti di lavoro? Nei documenti della Commissione non c'è risposta.

Secondo i dati della Commissione il TTIP porterà ad un aumento della esportazioni, e uno studio dell'Economic and scientific policy department del Parlamento europeo chiarisce che i posti di lavoro dipendono dalle esportazioni, ma a patto che l'accordo riesca ad abbattere le tariffe a zero e a ridurre significativamente le barriere non tariffarie di beni e servizi.
Abbiamo già spiegato che le “barriere non tariffarie” sono le misure commerciali non fiscali volte al controllo delle importazioni e delle esportazioni sulla base di svariati interessi, come la sicurezza alimentare, le regole per la sicurezza sul lavoro, le norme ambientali e sanitarie, cioè tutte quelle norme che caratterizzano l’Europa rispetto agli Usa come un luogo che pone maggiore attenzione alla vivibilità e alla sicurezza e ai cittadini.
Insomma, per ottenere, forse, un aumento minimo del PIL (0,05% annuale) e dei posti di lavoro occorre rinunciare agli standard di sicurezza caratteristici dell'Europa. E anche in questo caso si tratterebbe di riallocazione di posti di lavoro da un settore all'altro.

Modelli economici
Gli studi a supporto della posizione della Commissione sono sostanzialmente tre: Ecorys (2009), CEPR (2013) e CEPII (2013). Sono tutti basati sul modello economico della Banca Mondiale (CGE Computable General Equilibrium) sviluppato dalla Purdue University. Un quarto studio della Bertelsmann usa una versione modificata del medesimo CGE.

L'assunto del CGE è che la liberalizzazione del commercio porta ad un nuovo equilibrio macroeconomico, e quindi l'eliminazione delle barriere (o costi commerciali) determina l'apertura dei settori alla concorrenza mondiale. In tal modo i settori in espansione assorbono le risorse (compreso il lavoro) rilasciate dai settori in contrazione. Ma perché ciò accada occorre che i settori si amplino in maniera sufficiente.
Un ulteriore assunto è che le risorse siano immediatamente riallocabili, così, per fare un esempio,  i lavoratori di una catena di montaggio che produce automobili possono passare immediatamente a lavorare in un'azienda di software, oppure, chiude un'acciaieria e gli operai vanno a lavorare la terra.
L'intero processo è guidato dalla riduzione del costo del lavoro che porta all'espansione dei settori economici, e il CGE prevede che non vi sia disoccupazione. Secondo il modello CGE, quindi, i mercati sono sempre in equilibrio, e c'è sempre equilibrio tra offerta e domanda. Per questo il modello CGE non misura l'impatto sulla disoccupazione (domanda di lavoro - imprese - inferiore all'offerta - famiglie -), ma misura come la forza lavoro verrà riallocata da un settore all'altro.

Il limite del modello economico CGE si è palesato con le liberalizzazioni degli anni '80 e '90. Tale modello appare puramente teorico considerando che il passaggio immediato dei lavoratori da un settore ad un altro è impossibile, occorre un certo tempo (specializzazione) per cui un settore generalmente si contrae più velocemente rispetto all'espansione degli altri, lasciando così migliaia di lavoratori disoccupati, cosa che comporta una riduzione della domanda, svantaggio che il modello CGE tende a trascurare.

Basta guardare l'esperienza europea degli ultimi decenni per comprendere che gli studi a supporto del TTIP si basano sulla cieca fede nella capacità riequilibrante del mercato e nell'assunto, tutt'altro che provato, che i mercati non sbagliano mai.

Modello economico dell'ONU
Nell'ottobre 2014 il ricercatore Jeronim Capaldo del Global development and environment Institute, si è occupato del problema, usando il Global policy model (GPM) delle Nazioni Unite per simulare l'impatto del TTIP sull'economia globale. Il titolo è illuminante:
The Trans Atlantic Trade and Investment Partnership: European Disintegration, Unemployment and Instability”.

Lo studio di Capaldo non contesta le proiezioni di espansione commerciali proposte dalla Commissione, ma propone una diversa valutazione dell'impatto sull'economia. Lo studio simula l'impatto del TTIP in un contesto di prolungata austerità e bassa crescita (come l'attuale).
La principale differenza del GPM rispetto al CGE è che il primo assume che l'economia sia guidata dalla domanda aggregata (il Pil è determinato da quanto si compra) piuttosto che dall'efficienza produttiva (il Pil è determinato da quanto si produce, vedi CGE), per cui il taglio dei “costi” può anche avere effetti negativi sull'economia se ciò che si taglia è il reddito da lavoro che supporta la domanda aggregata. Inoltre il GPM include una valutazione delle dinamiche di occupazione.

L'utilizzo di un modello economico più realistico cambia drasticamente i risultati. Secondo lo studio di Capaldo, infatti, l'impatto del TTIP sull'economia europea sarà il seguente:

- contrazione del PIL, in particolare i paesi del nord Europa soffriranno maggiormente (riduzione del 2,07%), seguiti dalla Francia (-1,9%) e dalla Germania (-1,14%);
- riduzione dei salari, tra i 165 e i 5.500 euro per lavoratore a seconda del paese (5.500 euro in Francia, 4.200 nel Regno Unito e 3.400 in Germania);
- aumento della disoccupazione, all'incirca 600mila posti di lavoro persi, di cui oltre 220mila nel nord Europa, 130mila in Germania e in Francia, e 90mila nel sud Europa, con effetti destabilizzanti sulle dinamiche dei salari;
- alimentazione del trend che ha portato all'attuale stagnazione economica, cioè trasferimento di risorse dal lavoro al capitale, con le immaginabili conseguenze sociali;
- riduzione del ricavato dalle tasse da parte dei governi.

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TTIP scenario

In breve il TTIP porterà una maggiore instabilità finanziaria, e gli investimenti dovranno essere sostenuti tramite l'aumento dei prezzi.

A seguito dell'approvazione del trattato transatlantico il commercio bilaterale tra UE e Usa crescerà (5,9% nel 2027), ma siccome cresceranno anche le esportazioni e le importazioni l'impatto sarebbe ben poco rilevante. Accadrà, però, che i paesi europei sarebbero più portati a commerciare con gli Usa piuttosto che tra di loro, così determinando una dis-integrazione dell'Unione europea. I paesi europei, in tal modo, sarebbero più esposti ad eventuali shock esterni (es. caduta della domanda Usa), a causa dell'eccessivo legame con gli Usa, così legando indissolubilmente il destino economico delle Nazioni europee agli errori di gestione dell'economia americana.
Il TTIP, quindi, ridurrà fortemente il vantaggio principale di una unione economica, e cioè la capacità di assorbire gli shock esterni grazie alla domanda interna.

Ancora una volta viene da chiedersi perché i governanti europei svendono l'Europa, le sue politiche e i suoi standard di sicurezza, solo per consentire ai declinanti Stati Uniti di avere un mercato di sbocco nel momento in cui stanno perdendo quelli dei paesi BRIC.

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