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Suicidi in carcere e sovraffollamento: una vergogna tutta italiana

18 Luglio 2025 11 min lettura

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Suicidi in carcere e sovraffollamento: una vergogna tutta italiana

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11 min lettura

di Federica Delogu e Marica Fantauzzi

Al suo 180º giorno di detenzione, Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, scrive una lettera dal carcere romano di Rebibbia. Se le lettere precedenti avevano creato un certo dibattito mediatico, questa volta il testo viene letto in Parlamento dal senatore del Partito Democratico Michele Fina: «La politica dorme (con l’aria condizionata) e si dimentica delle carceri sovraffollate e surriscaldate, aspettando indifferentemente che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sanzioni l’Italia per trattamento inumano e tortura delle persone detenute. Nei primi sei mesi del 2025, siamo già a 38, un suicidio ogni cinque giorni, numeri che gridano vendetta, ma che non fanno rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva».

In un’altra missiva, datata 30 giugno, Alemanno e un altro detenuto, Fabio Falbo, scrivono: «Non chiediamo impunità, chiediamo umanità, non chiediamo clemenza, chiediamo giustizia, anche perché nessuna pena può diventare tortura, perché nessuna cella può diventare una tomba, perché nessuna persona mai dovrebbe essere trattata come meno di un essere umano».

Chissà se il giovane Gianni Alemanno si sarebbe mai immaginato che le sue lettere dal carcere, anni dopo, non avrebbero sortito alcun effetto tra i suoi, ora a Palazzo Chigi.

Nato a Bari nel 1958, Alemanno a 12 anni si trasferisce a Roma. Entra giovanissimo tra le file del Movimento Sociale Italiano, diventa presto segretario del Fronte della Gioventù, poi aderisce ad Alleanza Nazionale, ricopre la carica di ministro delle Politiche Agricole nel 2001 e, qualche anno dopo, si candida a sindaco di Roma. È la prima volta che la città viene governata da un militante di area postfascista. Successivamente sarà coinvolto nell’inchiesta “Mondo di mezzo”: in primo grado è condannato per finanziamento illecito e corruzione. Poi arriva la sentenza  definitiva che riformula il reato in traffico di influenze: la condanna è a un anno e 10 mesi. Poiché viola gli obblighi imposti dal magistrato sui servizi sociali, viene condotto in carcere il giorno di Capodanno del 2024. Da quel momento scopre il carcere: sovraffollamento, desolazione, malattia.

C’è chi ha apprezzato la, seppur tardiva, presa di posizione dell’ex primo cittadino di Roma contro lo stato attuale in cui versa il sistema penitenziario italiano e chi, più vicino a lui per storia e identità politica, è rimasto imperturbabile. Per mesi nessuna forma di solidarietà, né per lui né per gli altri reclusi nei penitenziari italiani, dove il tasso di sovraffollamento in alcuni casi supera il 200%.

Per buona parte della destra le lettere di Alemanno rappresentano una scomoda provocazione, che ostacola un progetto politico improntato al controllo e alla repressione a ogni costo. Solo Ignazio La Russa, presidente del Senato, e poi Luciano Fontana, presidente della Camera, hanno infine rotto il silenzio, recandosi personalmente a Rebibbia a trovare Alemanno. 

Il carcere, ancora una volta, sembra creare imbarazzo al potere politico. Non per le sue condizioni inumane ma perché osa parlare tramite la voce di chi lo abita quotidianamente.  Quasi fosse un fastidio ricorrente a cui, altrettanto ciclicamente, non si vuole porre rimedio. Eppure il carcere finisce con il riguardarci sempre, in modo profondo e collettivo, tanto da indurre Papa Francesco a metterlo al centro dell’anno giubilare. Fu proprio quel Papa, del resto, a non esitare nel chiedere, nella sua enciclica, un atto di clemenza. Amnistia e indulto: parole che intimoriscono la politica di oggi e che, invece, sono talmente radicate nella nostra storia da essere previste dalla Costituzione.

I numeri del sovraffollamento e i dati sui suicidi

Per misurare il sovraffollamento, di norma, si fa riferimento al tasso di occupazione in relazione alla capacità detentiva ufficiale di un istituto. Ciò significa che il sovraffollamento esiste ogni volta che il numero delle persone recluse supera il limite di capacità. Quando si è sopra la soglia del 120%, ci si trova davanti a un tasso di sovraffollamento considerato critico. 

Al 30 giugno del 2025 in Italia, i detenuti totali sono 62.728, per una capienza regolamentare di 51.280 posti, di cui 4.500 di fatto inagibili. Su 189 istituti penitenziari, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, solo 36 non sono colpiti dal sovraffollamento. Solo nel 2024 sono entrate in carcere 43.417 persone, praticamente 3.000 in più rispetto agli ingressi dell’anno precedente. E, per la prima volta nella storia italiana, a essere colpiti dal sovraffollamento sono anche gli istituti penali per minorenni: Antigone evidenzia che sono 611 i ragazzi detenuti (una cifra da record se si considera che nel 2022 erano 381).

Nella quotidianità detentiva sovraffollamento significa corpi che condividono spazi ristretti, celle che ospitano spesso sei persone adulte, forzatamente vicine: letti a castello, una sola finestra, un solo bagno che è anche cucina, con un fornelletto da campeggio, e il detenuto che prepara il pranzo costretto a interrompere per lasciar spazio ai bisogni urgenti di qualcun altro, per poi rientrare e continuare a cucinare. Significa un televisore perennemente acceso a volume alto, dalla mattina alla notte, come una presenza ulteriore, e quando si spegne in cella resta acceso quello della cella vicina e si continua a sentire il ronzio. Significa non avere mai spazi per sé, per leggere, stare in solitudine, non poter insomma mai gestire il proprio tempo. 

Valeria Verdolini, sociologa e docente di Mutamento sociale e devianza, presidente di Antigone Lombardia, spiega chiaramente il legame tra una cella sovraffollata, la sofferenza e, infine, il gesto anticonservativo: «L’aumento della popolazione detenuta non prevede un aumento dell’organico e di chi se ne occupa. La cosa più semplice per spiegare questa relazione è: sempre più persone dentro e sempre meno incaricati a seguire il loro percorso. Sovraffollamento significa paradossalmente una grande solitudine dei detenuti, non tanto e non solo materiale quanto istituzionale».

E questo abbandono ha una ripercussione immediata sulla concretezza della vita di chi è recluso: diventa impossibile essere visitati per tempo da un medico, veder attivato il proprio percorso alternativo nei casi di pene brevi e, in generale, - prosegue Verdolini - «quando le risorse scarseggiano è difficile intercettare la sofferenza, se non in caso di grandi gesti autolesionistici, auto o eterodistruttivi (l’incendio della cella è un caso classico in questo senso). Quando non ci sono manifestazioni esplicite della sofferenza, un carcere sovraffollato rende invisibile la persona. Ogni suicidio è per definizione una storia a sé, è necessario non generalizzare mai, ma il senso di abbandono che si prova nelle strutture sovraffollate incide, molto, anche sul senso di impotenza degli operatori».

Nel 2024 si sono registrati 91 suicidi tra le persone detenute e sette tra il personale di polizia penitenziaria. Se si somma l’anno passato con i primi mesi del 2025, si arriva a 132 suicidi, includendo anche quattro donne, giovani di 20 anni e il più anziano di 82. Sempre riprendendo quanto denunciato da Antigone, il tasso di suicidi in carcere nel 2024 è pari a 14,8 casi ogni 10.000 persone detenute. «Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,59 casi ogni 10.000 abitanti. Mettendo in relazione i due dati, vediamo come oggi in carcere ci si levi la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna», conclude l’associazione.

Dal suo insediamento come Ministro della Giustizia, Carlo Nordio ha ribadito più volte che la cosiddetta emergenza carceri sarebbe stata affrontata dal suo governo. A onor del vero poco o nulla è stato fatto, se non rispondere ai Question Time spiegando, per esempio, che i suicidi in carcere sono sì drammatici, ma che c'è poco da fare, essendoci sempre stati. Una questione irrisolvibile, la definì. 

A interrompere l'immobilismo del Governo è stato proprio il Ministro in queste ore, annunciando che almeno 10.000 detenuti saranno ammessi alle pene alternative alla detenzione. Da quanto si apprende, sarà istituita una task force che dovrà predisporre un intervento rivolto a quelle persone detenute con meno di due anni da scontare, non condannate per reati gravi e che, ribadisce, hanno tenuto un comportamento esemplare durante la reclusione. Tale apparente accelerazione sembra esserci stata dopo un confronto con la magistratura di sorveglianza che ha sollevato con forza la possibilità di individuare tutti i casi compatibili con le pene alternative (si parla almeno di un sesto della popolazione carceraria attuale). A fine settembre, dicono da via Arenula, ci saranno i primi dettagli sull'intervento. 

L’opposizione, nel frattempo, sembra convergere intorno alla proposta di legge di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Tranne il M5S che a oggi non ha accolto con favore l’ipotesi, tutti i partiti sembrano disposti a sostenerla in Parlamento. E non solo l’opposizione: l'apparente apertura del Presidente del Senato sembra aver trainato porzioni di centro-destra che, con opportune modifiche, potrebbero non ostacolarla. Si tratterebbe, come ha ribadito recentemente Giachetti in un’intervista su Avvenire, di una proposta sulla scia della legge Gozzini che prevede uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi di detenzione, per buona condotta. La proposta Giachetti rafforza e allarga le maglie della legge arrivando a uno sconto di 75 giorni con efficacia retroattiva per chi è stato detenuto negli ultimi dieci anni. 

Nel frattempo, come ricorda Verdolini, il tema carcere è stato incluso all’interno del Decreto Sicurezza, ora legge. Nel Decreto, infatti, «si  parla esplicitamente di carcere. Due articoli riguardano direttamente la popolazione detenuta e uno ne parla indirettamente per le misure risarcitorie per agenti. Mi sembra interessante che da questo punto di vista, a parte quello di Nordio del luglio scorso, l’unico intervento del governo sul carcere sia di tipo repressivo». Benché la situazione di oggi sia ancora più grave dell’anno scorso, riflette Verdolini, «anche allora il sovraffollamento era inaccettabile. Eppure è un anno che si aspetta un provvedimento e l’unica risposta governativa è sanzionare le proteste, persino la resistenza passiva, di chi è recluso». Si prevede, dunque, che la risposta a questo carcere siano le proteste, continua la sociologa, e si trova una risposta preventiva a quello che succederà.

C’è l’estate, poi, a rendere le condizioni quotidiane ancora più invivibili nei penitenziari. Il caldo soffocante ricordato da Alemanno nella sua lettera si inserisce in giornate senza tempo, svuotate di quelle attività che di solito almeno in parte riempiono le ore di chi, tra i reclusi, le segue: la scuola, i laboratori, il teatro. D’estate tutto si ferma, ma il sole si alza presto e tramonta tardissimo, dando l’impressione di un tempo infinito da dover superare ogni giorno. Le ore d’aria, previste spesso nei momenti più caldi della giornata, spesso vengono passate in cella o nei corridoi perché il caldo è troppo intenso per trascorrere due ore nei cortili di cemento, e dunque giornate da far passare in celle senza spazio. E davanti la prospettiva di un giorno dopo ancora uguale.

Quali soluzioni? Proposte in campo e un appello ai parlamentari

Alla mancanza di spazio in carcere torna, puntuale, la proposta di nuove carceri da costruire. «Una proposta demagogica - secondo Verdolini - peraltro già attuata in passato, ma all’aumento della capienza penitenziaria non è seguita una riduzione del sovraffollamento. Quando si aumentano le celle aumentano semplicemente le persone che entrano nelle maglie del penale». 

È necessario, invece, secondo la sociologa, un ragionamento più strutturato, che prenda in considerazione quello che succede fuori, nella società libera: «Non esiste più un altrove che prenda in carico, e quando c’è non è pronto ad accogliere. Pensiamo alla Lombardia, dove il tema centrale sono le comunità per persone con dipendenze. Il 50% della popolazione detenuta è tossicodipendente o ha reati connessi con le dipendenze, però il modello delle comunità è privatizzato ed è possibile rifiutarlo, e non sempre prende in carico alcune categorie di persone come gli stranieri irregolari o con prospettive di irregolarità». 

Sono queste le persone che affollano le carceri italiane, ma sono anche persone con forme di sofferenza sociale, che hanno superato le soglie di povertà assoluta e commettono reati contro la proprietà. Un identikit che è cambiato negli anni, e che riflette quello che succede nella stessa società che del carcere si disinteressa. Nel frattempo le carceri scoppiano di persone e «si va verso la violazione della Torreggiani tout court», prevede Verdolini, facendo riferimento alla sentenza del 2013 con cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti proprio in ragione di un eccessivo sovraffollamento. A partire da sette ricorsi presentati tra il 2009 e il 2010 da altrettanti detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, la Corte ha stabilito che l’Italia violava l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU). Una sentenza pilota, ossia che non si limita a giudicare i casi singoli sottoposti al suo giudizio, ma individua una criticità strutturale e sistemica, prevedendo un tempo limite (in quel caso un anno) perché lo Stato intervenga. 

Verdolini aggiunge la necessità di comprendere le cause di numeri così elevati di persone detenute: «Lavorare sulle politiche sociali, ripensare alle dipendenze, alla marginalità sociale, ai giovani adulti. E lavorare sulla recidiva, immaginare dei percorsi sull’uscita». Il tasso di recidiva, calcolato intorno al 70%, racconta un carcere che si autoalimenta, dove chi lo ha vissuto ha più probabilità di tornarci che di restarne fuori. Un carcere, cioè, che non funziona per quello per cui è pensato: quella che la Costituzione all’articolo 27 chiama rieducazione e che potremmo invece oggi definire risocializzazione, vale a dire la possibilità per la persona detenuta di reinserirsi nella società dopo aver scontato la pena, riducendo il rischio di un ritorno in carcere. Perché questo sia possibile è necessario ripartire dai dati, dallo studio delle cause, interrogarsi, capire quali percorsi funzionano, e accompagnare le persone che escono dal carcere nella società, per creare opportunità, per non rendere il ritorno dentro inevitabile. 

Nell’ottobre del 2024 venticinque tra giuristi, docenti e garanti territoriali delle persone private della libertà hanno promosso un appello al Parlamento per richiedere un atto di clemenza per le carceri. «Il sistema è sempre stato regolamentato con queste misure - ricorda Verdolini - L’anomalia sono gli ultimi 20 anni. Va detto però che c’era un diverso coraggio politico, mentre gli ultimi vent’anni hanno visto una centralità del populismo penale prima non così presente, ma anche una frammentazione del welfare che ha portato a una relazione più forte tra carcere e marginalità sociale. È però molto difficile, non impossibile ma difficile, che misure di questo tipo arrivino da questo governo». 

Durante il convegno Diritto e Clemenza: che fare per il carcere?, che si è tenuto l’11 giugno scorso nella sala della Biblioteca del Senato proprio a partire da quell’appello, ad Andrea Pugiotto, professore di Diritto Costituzionale all’Università di Ferrara, spettava l’intervento conclusivo. Tra le molte sollecitazioni, Pugiotto ha illustrato quale fosse la matrice originaria degli istituti di clemenza: «Condannati come espressione – ingenua e irresponsabile – di perdonismo irenico, sono disprezzati dalla doxa dominante per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia è un’amnesia. Eppure, quella matrice originaria resta iscritta nel loro etimo. In greco antico, il termine κλίνω (klino) esprime l’atto del piegare nel senso dell’adattamento al reale, alla concretezza delle cose. Declinato giuridicamente, quella inclinazione (clinamen, in latino) descrive l’atteggiamento di chi non insiste sulla lettera della legge, adattandola in modo umano e ragionevole ai fatti in questione, che sono sempre accadimenti problematici».

E cosa significa, davanti a questa cronica situazione di sovraffollamento, adattare in modo umano e ragionevole la legge? Nel caso dell’amnistia e dell’indulto significa trovare, in tempi brevi, una maggioranza trasversale disposta ad approvare un provvedimento di clemenza, così come previsto dall’art. 79 della Costituzione. 

Con un provvedimento di indulto uscirebbero dal carcere circa 16.000 persone e, con quello di amnistia per i reati minori, si garantirebbe agli uffici giudiziari la possibilità di tornare a lavorare in modo più efficace. E poiché, evidentemente, il sovraffollamento è solo la conseguenza più drammatica e insostenibile di una catena di mancanze, è chiaro che quei provvedimenti siano propedeutici all’applicazione di riforme radicali e non più rinviabili. 

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Il ragionamento che accompagna chi oggi promuove con convinzione un appello di amnistia e indulto è che se non si ripristina una qualche forma di normalità all’interno di un sistema penitenziario ormai deteriorato, quindi decongestionando e introducendo elementi di ordinarietà, nessun intervento riformistico sarà possibile. 

«Niente a che vedere con una concezione compassionevole del diritto e della giustizia penale: giuridicamente, essere clementi non significa essere buoni, perché il ricorso a una legge di amnistia e indulto, conclude Pugiotto citando Francesca Rigotti  «non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione».

Immagine in anteprima: frame video Il Sole 24 Ore via YouTube

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