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Calcio e razzismo: magari il problema fosse il Corriere dello Sport

7 Dicembre 2019 8 min lettura

Calcio e razzismo: magari il problema fosse il Corriere dello Sport

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Per annunciare la partita di venerdì 6 tra Inter e Roma, il Corriere dello Sport ha dedicato la prima pagina di giovedì a due calciatori delle rispettive squadre, Romelu Lukaku e Chris Smalling. Ex compagni al Manchester United, belga il primo e inglese il secondo, la sfida nella sfida tocca il tema dell’amicizia-rivalità. Tuttavia il Corriere ha scelto di puntare su un’altra caratteristica in comune tra i due: il colore della pelle.

La scelta ha creato polemiche e proteste che sono presto uscite dai confini nazionali, anche a seguito del tweet dell’account inglese della stessa As Roma.

La prima pagina ha così raggiunto testate inglesi, tra cui Bbc Sport, Telegraph e Guardian, che ieri ha riportato la reazione del Corriere (“razzisti a chi?”, recita l’edizione cartacea). Gli stessi Smalling e Lukaku hanno stigmatizzato il titolo al centro delle polemiche. Ac Milan e As Roma inoltre, in un comunicato congiunto in inglese, sempre nella giornata di giovedì hanno dichiarato che per un mese i giornalisti del Corriere dello Sport saranno banditi dalle loro strutture di allenamento. Il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, ha criticato la decisione delle due squadre e difeso il Corriere dello Sport. L’Inter, invece, chiamata in causa dall’appartenenza di Lukaku, ha commentato in modo più diplomatico e senza riferimenti al caso specifico.

A caldo, il direttore del Corriere dello Sport, Ivan Zazzaroni, dopo essere stato intervistato ai microfoni di Radio 24 nel programma Tutti convocati, ha affidato la replica a un breve articolo sul sito del giornale dal titolo “L’elogio della differenza”:

Piattaforme digitali? Direi pattumiere. Truccate da rancori nobili. Sdegno a buon mercato. [...] Eserciti di benpensanti di questi tempi affollano il web per tingersi di bianco le loro anime belle. Individuato il razzista di turno, vai, due colpi alla tastiera e via la macchia, ti senti un uomo migliore in un mondo migliore. Bianchi, neri, gialli. Negare la differenza è il tipico macroscopico inciampo del razzismo degli antirazzismi. La suburra mentale dei moralisti della domenica, quando anche giovedì è domenica. “Black Friday”, per chi vuole e può capirlo, era ed è solo l’elogio della differenza, l’orgoglio della differenza, la ricchezza magnifica della differenza. Se non lo capisci è perché non ce la fai o perché ci fai.

Reazione che, come anticipato, fa il paio con l’edizione cartacea di ieri, dove il contenuto sopra riportato viene esteso, affiancato da vecchie prime pagine contro il razzismo (come a dire “non siamo razzisti, abbiamo anche fatto titoli antirazzisti”), e a un dispiacere di rito per i giocatori coinvolti (“per loro, che sono professionisti straordinari, siamo sinceramente dispiaciuti: non era nostro intento ferirli, semmai esaltarli”). Il che è ben diverso dallo scusarsi o dall’ammettere un errore: significa invece rivendicarlo, tra stizza e paternalismo a senso unico.

Complessivamente, le reazioni di Zazzaroni giovedì e del Corriere venerdì denotano prima di tutto un provincialismo endemico. È incredibile che si dia la colpa all’indignazione del web, della massa anonima, quando nell’arco di una giornata le polemiche arrivano su testate prestigiose, di diverso orientamento politico (il Telegraph è una testata tradizionalmente conservatrice), e dagli stessi calciatori, chiamati in causa loro malgrado. Significa non aver cognizione, nel 2019, di come funziona l’ecosistema dell’informazione, di come sia segno di arroganza porsi dall’alto verso il basso a prescindere dagli interlocutori. Negli argomenti usati, inoltre, si fa largo uso di tutta una serie di dispositivi di rimozione. Abbiamo il vittimismo e l’autoassoluzione, come nell’incipit dell’articolo a pagina 3 dell’edizione di venerdì: “Razzisti noi? O vittime di un linciaggio perché più di altri il razzismo abbiamo combattuto?”. O il complottismo: a proiettare la polemica sul panorama internazionale sarebbe stato Paul Rogers, responsabile dell’area digital della Roma qui in veste di deus ex machina, “diventato famoso su questi schermi quando negò di essere se stesso per sottrarsi alle domande del nostro inviato a Londra” (pag. 2 edizione di venerdì). Oppure troviamo espressioni o cornici che di solito sono tipiche della propaganda di estrema destra (“l’elogio della differenza” che ricade nell’idea razzista dei neri accettati dai bianchi; “il razzismo degli antirazzisti” che in teoria dovrebbe valere anche per Lukaku e Smalling), tanto che su Twitter vari utenti hanno ricordato la partecipazione di Zazzaroni a un evento organizzato da CasaPound.

C’è poi una totale incapacità di valutare gli aspetti linguistici sul piano culturale, e quindi sulla tradizione dei simboli o dei rapporti di potere, o di una prospettiva storica anche solo sul breve periodo, riducendo il tutto a un problema di significati letterali, come se la questione riguardasse l’uso della parola “black”, improvvisamente diventata tabù. In ciò il Corriere dello Sport e il suo direttore sono purtroppo in buona compagnia, basti pensare a un Polito che, in un maldestro tentativo di dimostrazione per assurdo, se ne esce così su Twitter:

In realtà non ci vorrebbe molto a capire che il gioco di parole in inglese, “black friday”, associato alle immagini dei due calciatori alla vigilia della partita, lancia il messaggio “venerdì c’è la sfida dei neri”, facendo passare in secondo piano la passata militanza nella stessa squadra. Possiamo capire quel titolo a prescindere da quest’ultima informazione, che pure sembrerebbe il contesto di partenza. “Black”, nel caso specifico, diventa contesto di interesse solo se chi legge dà un valore culturale al colore della pelle, e quell’aspetto ha valore culturale solo in un’ottica che associa alla pelle nera caratteristiche socialmente rilevanti. Non avrebbe avuto lo stesso impatto se si fosse parlato di “sfida tra bianchi” o “sfida tra occhi neri” nel titolo, per fare un esempio; mentre sarebbe suonato abbastanza frivolo se si fosse titolato sulle differenti pettinature dei due giocatori. Serve davvero spiegare il motivo per cui essere neri è una differenza considerata significativa mentre il colore degli occhi o la pettinatura no?

Lo stesso Lukaku, del resto, lo scorso settembre, è stato prima oggetto di cori razzisti da parte di alcuni tifosi del Cagliari, e poi ha dovuto sorbirsi la lezione dei suoi stessi ultras, che sono saliti in cattedra con una lettera del genere “bianchi che spiegano il razzismo ai neri”. Il che, rispetto alle polemiche di questi giorni, spiega probabilmente la reazione abbastanza sobria dell’Inter - più di uno avrebbe potuto rinfacciare l'episodio, dicendo alla società "pensa al razzismo in casa tua". Il buonsenso avrebbe dunque suggerito al Corriere dello Sport maggior prudenza e minor sciatteria nel titolo, e un briciolo di umiltà nel reagire alle polemiche. Anche perché gli stereotipi non dipendono dall’intenzionalità, ma l’intenzionalità diventa razzismo esplicito nel momento in cui si rivendicano certe scelte con gli argomenti sopra esposti.

Ma il problema del calcio e degli stereotipi, così come del razzismo più esibito, non nasce certo questo settimana e col Corriere dello Sport, né si ferma a Lukaku. Solo per citare alcuni degli episodi capitati negli ultimi mesi in Serie A, possiamo partire da fine novembre, quando la calciatrice nigeriana Eni Aluko, nel lasciare la Juventus per tornare in Inghilterra, in un articolo scritto per il Guardian aveva lamentato una certa arretratezza culturale della città di Torino:

A volte Torino sembra indietro di almeno vent’anni in termini di apertura verso chi è diverso. Mi sono stancata di entrare nei negozi con la sensazione che il proprietario si aspetti di vedermi compiere un furto. Senza contare le volte in cui arrivi all’aeroporto di Torino e i cani antidroga iniziano ad annusarti come se fossi Pablo Escobar. Non ho mai vissuto episodi di razzismo da parte dei tifosi juventini o nel campionato femminile, ma c’è un problema a riguardo in Italia e nel calcio italiano ed è il modo in cui viene affrontato che mi preoccupa davvero, dai dirigenti ai presidenti ai tifosi del calcio maschile, che lo vedono come una parte della cultura calcistica e del tifo.

Tanto basta perché in Italia la notizia venga inquadrata come se il razzismo fosse il motivo dell’addio alla Juve, e non una parte del racconto dei 18 mesi trascorsi in Italia, tanto che su Instagram la stessa calciatrice chiarisce l’equivoco per spegnere diverse code di paglia andate a fuoco. Ma nel frattempo si sono messi in moto meccanismi di rimozione e autoassoluzione: la sindaca Appendino precisa che il razzismo in città riguarda “poche persone”, mentre Maria Luisa Coppa, presidente dell’Associazione commercianti, è convinta che dentro i negozi Aluko fosse tenuta d’occhio “perché è una bellissima ragazza”. Una dichiarazione su cui viene voglia di stendere un velo pietoso, a voler essere clementi.

Gli inizi di novembre vedono invece protagonisti Mario Balotelli e gli ultras del Verona. Il calciatore del Brescia replica ai cori razzisti della tifoseria scaligera lanciando il pallone in tribuna.

La società, attraverso il tecnico e il presidente, a seguito dell’episodio dichiara: “Non abbiamo sentito cori razzisti, solo sfottò”. Sposano la stessa versione il sindaco della città e il capo degli ultras, Luca Castellini. Quest’ultimo, che è anche dirigente di Forza Nuova, ai microfoni di Radio Cafè nega l’evidenza tra offese a Balotelli (“è un giocatore finito”, “per me non potrà mai essere del tutto italiano”), giustificazioni paradossali e triviali (“ce l’abbiamo anche noi un negro in squadra”), e varie apologie del razzismo. A riguardo dell’episodio, il giudice sportivo opta per la sospensione della curva per un turno, decisione poi rinviata in appello; Castellini è invece bandito dallo stadio fino al 2030, e proprio in quei giorni è anche rinviato a giudizio per un altro episodio che lo vede protagonista di inni nazisti ed elogi a Hitler. Ma più del comportamento di Castellini è vergognosa la reazione in Comune, dove il consigliere Andrea Bacciga presenta una mozione di “condanna politica per chi diffama la città di Verona” - ossia Balotelli - facendo dell’episodio di razzismo sportivo un fatto di agenda politica e consenso. Il dibattito sulla mozione vede poi le proteste di alcune associazioni cittadine, tra cui il collettivo Non una di meno.

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A ottobre il presidente della Lazio, Claudio Lotito, ci consegna una frase degna dei migliori motti di spirito freudiani. Uscendo da un vertice della FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) dove si è parlato, tra i vari argomenti, proprio del problema del razzismo negli stadi, ci tiene a precisare che i “buuu” dalle curve riguardano “spesso persone non di colore” con “la pelle normale”. Lo stesso presidente della FIGC, Giovanni Malagò una settimana prima a Radio 24 aveva stabilito un'infelice comparazione tra cori razzisti e falli di simulazione, proprio la settimana dopo la quarta giornata di campionato, che aveva visto la sospensione per quattro minuti di Atalanta-Fiorentina a causa dei cori contro il difensore viola Dalbert. Ma Malagò certo non raggiungerà mai le bassezze di Tavecchio, che nel 2014, parlando di accoglienza integrazione e delle differenze tra Inghilterra e Italia, dichiara: “Opti Pobà è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio”. Come a dire che noi accogliamo tutti, alla fine, per cui fa strano che i neri si lamentino pure.

Questa carrellata, per nulla esaustiva, ci dice però molto di come il calcio non sia un mondo a parte rispetto al resto del paese. Essere neri in Italia, a prescindere dal reddito e dalla centralità rispetto ai riflettori, significa subire lo spazio simbolico della rappresentazione, non essere davvero padroni del proprio corpo. Si è oggetti all’interno di queste dinamiche, non attori: nel migliore dei casi l’uomo bianco che detiene il potere entro lo spazio simbolico farà dono di una spiegazione, e tanto deve bastare. Cercare di rovesciare il ruolo di oggetto facendo sentire la propria voce, reclamando l’autodeterminazione del proprio corpo e della sua immagine, è più spesso visto come un atto ribelle, un’insopportabile insubordinazione, e le retoriche di autoassoluzione, il minimizzare (l’abuso della parola “gaffe” per dichiarazioni razziste), il vittimismo o la rabbiosa denigrazione sono forme culturali volte a ricacciare indietro chi sgarra, a ricordargli che, per quanto salirà in alto, nulla lo affrancherà davvero dalla metafisica del collare e delle catene. La differenza sta solo nel tasso di ipocrisia.

Foto via Tribuna.com

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