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Autismo, per combattere gli stereotipi dobbiamo imparare a parlarne

22 Luglio 2022 8 min lettura

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Autismo, per combattere gli stereotipi dobbiamo imparare a parlarne

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di Fabrizio Acanfora

La definizione clinica dell’autismo, come è avvenuto per tante altre condizioni, si è evoluta in modo costante nel corso dei decenni. Questa evoluzione è sicuramente il risultato di conoscenze sempre più approfondite sviluppate dalla ricerca scientifica, ma è anche il frutto dei mutamenti sociali che hanno influenzato il modo in cui osserviamo e giudichiamo i comportamenti umani. Non dimentichiamo infatti che l’autismo è ancora oggi diagnosticato attraverso l’osservazione del comportamento.

L’aspetto sociale che riguarda la condizione autistica è spesso messo in ombra da quello puramente medico, fondamentale ma relativo a un ambito di applicazione circoscritto: quello clinico. Questo però può rappresentare un problema, perché la narrazione che accompagna le persone autistiche si è sviluppata sotto l’influenza di una visione che cerca deficit da riparare e comportamenti da modificare, portandoci a percepire la persona autistica come intrinsecamente incapace, e sollevando la società dalle proprie responsabilità nell’essere spesso inaccessibile a chi presenta corpi, sensi e menti non conformi agli standard della normalità. Siamo passati così dalla convinzione iniziale che le “mamme frigorifero” fossero responsabili della condizione dei figli all’immagine dell’autistico ingestibile ma geniale trasmessa dal film Rain man, passando per la teoria di Simon Baron-Cohen (poi smentita da altri studiosi) secondo cui gli individui autistici sarebbero privi di empatia, arrivando alla descrizione dell’autistico geniale ma con chiari deficit relazionali di serie come Good doctor.

Quando, all’inizio degli anni ’40, Leo Kanner e Hans Asperger cominciarono a studiare l’autismo, il loro interesse fu rivolto essenzialmente a gruppi di bambini e bambine (in maggioranza bambini), e la condizione venne considerata come un disturbo prettamente infantile. Ma i bambini e le bambine autistiche crescono, e diventano adulti. Col passare del tempo le persone autistiche adulte hanno cominciato a rivendicare attenzione e a incidere sulla descrizione che di loro faceva la ricerca medica. Questo fenomeno, che il filosofo della scienza Ian Hacking ha definito “looping effect”, è un meccanismo di retroalimentazione continua e circolare a cui prestare attenzione. In pratica, nel momento in cui viene creata una diagnosi si dà vita a una nuova categoria di persone le quali, a loro volta, da un lato modificano sé stesse aderendo alla nuova descrizione clinica, e dall’altro contribuiscono a modificare quella stessa descrizione attraverso il loro vissuto personale.

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Rispetto all’idea iniziale di una categoria dai confini ben definiti in cui rientravano essenzialmente bambini e bambine dalle caratteristiche particolarmente evidenti, oggi la definizione clinica dell’autismo è quella di uno spettro dai confini estremamente sfumati, e dal 2013 include anche quella che veniva definita sindrome di Asperger. È un’idea dimensionale che cerca di esprimere in modo più realistico la variabilità di tratti attribuiti alle persone autistiche. In pratica, ci dicono i più recenti manuali diagnostici, molte di queste caratteristiche sono presenti in tutta la popolazione, ma solo quando un certo numero di esse, e con una certa intensità, si concentrano in una sola persona in modo da incidere negativamente sulla sua vita, si giunge a una diagnosi di autismo.

Eppure, nonostante le migliori intenzioni, anche la definizione clinica di “spettro autistico” del DSM-5 (il manuale diagnostico più diffuso tra gli psichiatri) continua a basarsi su quelli che vengono definiti o come deficit, o come eccessi. Deficit nella comunicazione, deficit nella reciprocità socio-emotiva; oppure interessi eccessivamente persistenti o circoscritti, eccessiva riluttanza ai cambiamenti. La visione medica, che cerca l’errore da correggere, continua a definire le persone in base a ciò che, si presuppone, non possono fare, non possono dire, o fanno e dicono troppo. In ogni caso, un guasto da riparare.

E così, questa narrazione si è impossessata di ambiti che non le appartengono filtrando nel discorso comune, nei post sulle reti sociali e negli articoli dei giornali, nei servizi trasmessi in televisione e anche nei progetti di inclusione scolastica e lavorativa. Un linguaggio che spesso descrive una sofferenza costante, quello che possiamo definire “linguaggio del dolore”. Attraverso definizioni come “affetti” da autismo, oppure “soffrono” di autismo, o utilizzando immagini evocative come la “bolla” in cui sarebbero rinchiuse le persone autistiche, si trasmette l’idea di una sofferenza inflitta da quella che continua a essere percepita come una malattia, nonostante anche i più importanti studiosi ci ricordino che si tratta di una condizione del neurosviluppo. E, facciamo attenzione, questa definizione è problematica non perché ci sia qualcosa di sbagliato o offensivo nella definizione di malattia, ma perché se parliamo di patologia lasciamo intravedere l’idea di una cura che non esiste, creiamo aspettative e, soprattutto, ribadiamo l’idea che a un certo punto sia avvenuto un guasto.

Oltre a usare parole che rimandano alla sofferenza, la narrazione attuale dell’autismo fa costante riferimento all’infanzia. Lo ha documentato un interessante studio che dimostra come la comunicazione riferita a questa condizione del neurosviluppo si riferisca quasi esclusivamente a bambini e bambine. L’infantilizzazione dell’autismo ha però un effetto negativo perché da un lato toglie alle persone autistiche la possibilità di autorappresentarsi e autodeterminarsi in quanto percepite come eterne creature incapaci di sapere cosa sia meglio per loro, e dall’altro rende invisibili gli adulti nello spettro, privandoli di servizi e assistenza spesso necessari. Sono moltissimi i genitori di ragazzi e ragazze autistici, soprattutto il cui il livello di supporto necessario è elevato, che raggiunta la maggiore età dei figli vedono scomparire la già scarsa assistenza delle istituzioni.

Accanto alla narrazione del dolore e dell’infantilizzazione ne esiste una altrettanto subdola, quella della spettacolarizzazione. Definita “inspiration porn” da Stella Young, attivista per i diritti delle persone disabili, questa narrazione cerca di abbellire una realtà che non cessa di essere percepita come negativa, spesso con l’intenzione di fornire ispirazione a quella maggioranza che si autodefinisce “normale”. Così le persone autistiche vengono dipinte come angeli, diventano “speciali”, o vengono celebrate per aver raggiunto obiettivi per la maggioranza della popolazione del tutto ordinari, come può essere ottenere un diploma, sottolineando ancora una volta quella che viene percepita come inferiorità, e sollevando la società dalla responsabilità di tutte le barriere e gli ostacoli che hanno reso il raggiungimento di quell’obiettivo un percorso a ostacoli.

In una società basata sul concetto di responsabilità individuale, sulla competizione tra individui e sulla performance, è ormai dilagante l’idea che ciascuno di noi sia responsabile tanto dei propri successi quanto dei fallimenti. E allora bisogna migliorarsi, e per migliorare è necessario essere motivati. Cosa c’è di meglio quindi che ispirarsi, motivarsi leggendo storie di persone “sfortunate” che grazie alla loro forza interiore ce l’hanno fatta? Lungi dall’essere una narrazione positiva, l’inspiration porn oggettivizza la persona diversa per utilizzarla come modello motivazionale: insomma, se ce l’ha fatta lui che è autistico a partecipare a una gara di corsa, che scusa hai tu, fortunato neurotipico, per non alzarti dal divano e andare in palestra?

Da un punto di vista pratico, una narrazione incapace di descrivere in modo accurato la realtà genera stereotipi fasulli. Questi stereotipi vengono poi utilizzati non solo nelle conversazioni tra amici e sui mezzi di comunicazione, ma anche da chi scrive leggi, disegna interventi e progetti di inclusione nella scuola o sul lavoro. Ma se la descrizione della categoria individuata come destinataria di una legge non corrisponde alle persone sulla cui vita questa legge influirà, il bersaglio verrà mancato e l’influenza di quella riforma o della legge nel migliore dei casi sarà nullo, nel peggiore deleterio.

Per le persone autistiche con un maggior livello di autonomia e facilità di comunicazione i problemi sono tanti, e vanno dalle difficoltà in campo scolastico e accademico alla ricerca e al mantenimento di un impiego, all’organizzazione della quotidianità come la prenotazione di visite mediche o la gestione di pratiche burocratiche.

La nostra società è infatti strutturata da e per persone neurotipiche, cioè non autistiche, e questo rappresenta spesso una barriera per chi ha una percezione e un’elaborazione sensoriale particolarmente intensa, oppure modalità di interazione sociale e di comunicazione che utilizzano codici differenti, come le persone autistiche.

Ma se la situazione è complicata per chi ha minore necessità di supporto, diventa a volte insostenibile per tutte quelle persone autistiche con maggiori compromissioni e con minore autonomia. E non bisogna mai dimenticare le loro famiglie, troppo spesso invisibili agli occhi della società ed escluse da un discorso in cui dovrebbero avere invece un ruolo centrale.

“Bisogna passare da correre per colmare deficit a lavorare per scoprire potenzialità”, spiega Cristiana Mazzoni, presidente di FIDA (Forum Italiano Diritti Autismo) e mamma di due adolescenti nello spettro autistico, uno dei quali con disabilità intellettiva a elevato carico assistenziale.

Uno dei problemi per le persone autistiche con maggiore necessità di assistenza, continua Cristiana, è che manca continuità nei servizi a partire dall’adolescenza. Durante l’infanzia, seppure con difficoltà più o meno grandi, è possibile riuscire a essere seguiti da specialisti e centri, ma da un certo punto in poi si scompare dai radar istituzionali. Non solo per gli adulti autistici non ci sono servizi, ma è difficile trovare persone preparate che siano in grado di lavorare con loro. Le uniche attività sono organizzate da associazioni e cooperative ma lo stato, a parte organizzare convegni e fare promesse, è fondamentalmente assente da questo punto di vista.

Se mancano prospettive per il futuro, allora l’unica aspettativa è quella di finire in una residenza. Eppure uno strumento legislativo per garantire una vita dignitosa alle persone con elevata necessità di supporto esiste. L’articolo 14 della legge 328 del 2000 prevede la stesura di un progetto individuale di vita nel quale specificare obiettivi e necessità della persona disabile, coordinare gli interventi socio-sanitari e socio-assistenziali in modo da evitare la dispersività, e creare un percorso nel quale la persona possa crescere e sviluppare autonomie.

Quello che per chiunque appare scontato, cioè programmare la propria vita in base alle proprie inclinazioni e necessità, diventa un miraggio per una persona autistica, soprattutto quando è necessario un maggior livello di supporto. Questo strumento, il progetto di vita, che in teoria dovrebbe fornire proprio quel supporto nella pianificazione di un’esistenza piena e soddisfacente in base alle caratteristiche uniche della persona, spesso viene attuato solo dopo un intervento del tribunale.

Insomma, una persona disabile, oltre a scontrarsi quotidianamente con le barriere architettoniche, sensoriali, psicologiche e sociali poste da una società abilista, subisce anche l’umiliazione di dover ricorrere a un tribunale per vedere riconosciuto un proprio diritto perché le istituzioni, impreparate e prive dei servizi e del personale qualificato necessario, spesso non rispondono alle richieste dei cittadini.

Cristiana Mazzoni spiega però che “la Convenzione ONU (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009) prevede per ogni persona disabile, pertanto anche per le persone autistiche con disabilità intellettiva ed elevata necessità di supporto, la libertà di ‘scegliere come e con chi vivere’. Piena autodeterminazione quindi, anche se attraverso il tramite della famiglia o del tutore/amministratore di sostegno. Ma lo stato nega questo diritto ignorando costantemente le richieste delle famiglie”

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L’autismo è una condizione dalle caratteristiche estremamente variabili, e spesso si dice che quando hai visto una persona autistica, hai visto solo una persona autistica. Eppure spesso questa variabilità viene appiattita da un racconto che insiste nel tagliare fuori il contributo fondamentale proprio di chi questa condizione la vive quotidianamente, come le persone autistiche e le loro famiglie. Ma come si può valorizzare la vita di ogni individuo se coloro che presentano caratteristiche differenti dalla maggioranza vengono considerati incapaci di decidere per sé, e se perfino alle loro famiglie sono negati quegli strumenti che potrebbero facilitare lo sviluppo di autonomie personali e progetti di vita individuali?

Bisogna assolutamente ripensare l’atteggiamento che la nostra società ha nei confronti di tutte le persone che non rientrano nei canoni della cosiddetta “normalità”. Dobbiamo scendere dal piedistallo e mettere via il paternalismo con cui concediamo caritatevolmente un’inclusione che mostra tutta la sua inefficacia, che racchiude un evidente squilibrio di potere tra chi include e chi viene incluso. Solo se riusciremo a percepire l’altro come pari e a guardare alle differenze come semplici dati statistici e non valoriali, potremo iniziare a costruire una società più giusta per tutte e per tutti.

Immagine in anteprima: MissLunaRose12, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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