Donne contro i diritti delle donne: l’ondata anti-femminista della destra americana
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Se cerchiamo su TikTok I sit in parks, titolo dell'ultimo brano della cantautrice country Kelsea Ballerini, scopriamo una schiera di contenuti che poco hanno a che vedere con la musica. Al loro posto, troviamo video che commentano il significato del pezzo, in cui la cantante esprime il suo disagio per avere messo la carriera davanti alla famiglia. Mi chiedo se lei vuole la mia libertà come io voglio essere una madre, recita una strofa del testo, in cui Ballerini si racconta mentre osserva malinconica una donna al parco con marito e figli.
“La canzone più triste dell'anno rivela la menzogna del femminismo moderno”, ha subito titolato The Daily Wire, il sito conservatore di destra che tra un articolo e l'altro promuove il documentario transfobico What is a woman? di Matt Walsh. Altrettanto accorato l'articolo di Fox News, secondo cui Ballerini “dice a voce alta ciò che milioni di donne provano ma hanno troppa paura di ammettere”.
Intanto, negli stessi giorni in cui usciva il brano, il sito del New York Times lanciava in home page un episodio del podcast Interesting times, provocando un'ondata di reazioni, ancora in corso, intitolato “Il mondo del lavoro è stato rovinato dal femminismo liberale?”, versione riveduta e corretta del precedente titolo “Il mondo del lavoro è stato rovinato dalle donne?”, a sua volta un richiamo a un articolo di ottobre che titolava “Come le donne hanno rovinato l’Occidente”.
L'uscita quasi simultanea (6 novembre per il podcast, 7 novembre per la canzone) di un dibattito intellettuale e di una canzone pop in cui, ovviamente in maniera diversissima, si mette fortemente in discussione il femminismo e si demonizzano le donne che investono troppo sul lavoro è qualcosa di più di una coincidenza. Entrambi gli esempi citati sono espressione di una più ampia ondata di anti-femminismo che ha colpito la cultura statunitense, una tendenza che si esprime attraverso stili, canali e mezzi di comunicazione tanto eterogenei quanto complementari. I linguaggi variano ma il tema principale è sempre lo stesso: la wokeness che ha rovinato tutto, il femminismo liberale che ha danneggiato tutti, le donne di oggi che sono infelici e gli uomini che lo sono ancora di più. La soluzione? Tornare indietro, ma travestendo la regressione da novità.
È più o meno questo che propagandano le due ospiti del già citato episodio di Interesting times, Leah Libresco Sargeant ed Helen Andrews. La prima, commentatrice di area cattolica e animatrice del blog Other Feminisms, è autrice del libr The dignity of dependence, che tra i suoi temi interpreta la maternità come chiave di lettura della “naturale” inclinazione della donna ad avere bisogno dell'aiuto e della forza dell'uomo. La seconda, proveniente anch'essa dalla galassia conservatrice, ha recentemente pubblicato un saggio che ha fatto molto discutere, dal titolo The great feminization.
Nato originariamente come intervento dal palco per la National Conservatism Conference dello scorso settembre, The great feminization afferma che la società di oggi è in pericolo in quanto diventata eccessivamente “femminilizzata”. A fare le spese di questa femminilizzazione sarebbero le istituzioni, con la serietà della legge data in pasto all'irrazionalità delle donne (“Lo Stato di diritto non sopravvivrà al fatto che la professione legale diventi a maggioranza femminile” è uno dei tanti vaticini contenuti nel saggio), la sanità (“Ora che la medicina si è maggiormente femminilizzata, i medici indossano spille e laccetti che esprimono opinioni su questioni controverse, dai diritti gay a Gaza”) e appunto il mondo del lavoro.
Quest'ultimo, secondo Andrews, è oggi appesantito da difetti tipicamente “femminili” come l'incapacità di gestire i conflitti in modo diretto e la propensione al pettegolezzo, per non parlare della facilità con cui possono danneggiare i colleghi accusandoli di discriminazione o violenze. Quest'ultimo caso, ovviamente, sarebbe colpa del #MeToo, liquidato da Andrews come un movimento “che ha cambiato il modo in cui vengono gestiti gli scandali sessuali”. Dati recenti, in realtà, parlano di tutt’altra emergenza relativamente al lavoro femminile, ovvero di un esodo massiccio, con circa 455 mila donne americane (dati Us Bureau of National Statistics riportati da CNN) che hanno lasciato il lavoro solo nei primi sei mesi di quest’anno. In cima a chi scappa ci sarebbero le donne afroamericane e le madri lavoratrici con altamente scolarizzate, mentre studi e recenti episodi di bullismo online rivelano un’ondata di odio misogino diretto proprio verso le studiose.
Il fatto che le argomentazioni da bar di The great feminization, per quanto criticate, contestate e anche derise da più parti, abbiano comunque ricevuto abbastanza dignità da invitare l'autrice a dibattere con piglio intellettuale nel salotto buono del giornalismo statunitense è un altro segnale di come posizioni retrograde camuffate da stimolanti provocazioni abbiano trovato spazio nel discorso pubblico anche in luoghi in cui ci si aspetta di trovare non necessariamente idee diverse, ma almeno livelli argomentativi di livello meno misero.
Del resto, il format “dirò una cosa scomoda” in cui un pensiero conservatore e per nulla minoritario viene impacchettato come contenuto coraggioso e reso virale è alla base del successo di commentatrici politiche come Candace Owens, tra le regine dello YouTube di destra, che prima di buttarsi a speculare sul sesso biologico di Brigitte Macron e sui mandanti dell'assassinio di Charlie Kirk era impegnatissima a tentare di riabilitare la figura di Harvey Weinstein.
Owens, un tempo collaboratrice del Daily Wire da cui è stata allontanata per alcuni commenti antisemiti, ha costruito la sua fortuna su un'immagine di “lady di ferro” dell'infotainment dal taglio ultraconservatore, occasionalmente complottista e ovviamente antifemminista. “Fagli un panino”, sottotitolo “Perché le donne vere non hanno bisogno del finto femminismo” è la traduzione del titolo del suo ultimo libro, la cui autrice si chiede: “E se gli slogan, gli hashtag, le manifestazioni urlate non rappresentassero affatto empowerment ma imprigionassero le donne in confusione e risentimento?”. La risposta è sì, ovviamente, anche se colei che invita le altre donne a fare panini ai mariti è in realtà un'attivissima donna in carriera che oltre ai libri pubblica diversi video a settimana e ha costruito un impero della comunicazione. Insomma, non esattamente una donna di casa.
Con il suo mix di informazione, intrattenimento e indottrinamento ultraconservatore, Candace Owens si situa in un certo senso in posizione mediana nella galassia antifemminista, con da un lato la stampa tradizionale e dall'altro la fabbrica dei creator. Accanto a lei, pronte a raccoglierne il testimone, ci sono creatrici più giovani come Brett Cooper (1,2 milioni di follower su TikTok e svariati di reel antifemministi) e Hannah Pearl Davis, oltre 2 milioni di iscritti al suo canale Youtube e un certo orgoglio per essere stata definita "la Andrew Tate al femminile".
Tutte loro gravitano attorno all'orbita della cosiddetta "womanosphere", neologismo che riecheggia la più famosa maschiosfera (manosphere) e che descrive la galassia femminile di creator digitali che promuovono valori di estrema destra e antifemministi attraverso contenuti che variano dalla pop alla politica, dal fitness ai trend sociali. Ma non tutte le persone che studiano questo fenomeno concordano con l'uso del termine. Pauline Hoebanx, sociologa e docente presso la canadese St Marys University, specializzata in cultura digitale, studi di genere e antifemminismo femminile, spiega a Valigia Blu perché non ama la parola “womanosphere”:
È un termine che può dare l’impressione errata che gli interessi delle donne siano centrali in tali comunità, ma non è così. Preferisco quindi parlare di “donne della maschiosfera”. Le donne nella manosfera promuovono valori, credenze e comportamenti patriarcali che pongono il benessere degli uomini e dell’unità familiare al di sopra di quello delle donne.
A prescindere dalle scelte semantiche, però, questa community è sempre più vistosa sui social media. Il secondo mandato di Trump ha visto infatti il fiorire di nuove influencer conservatrici che si rivolgono alle generazioni più giovani. Una di queste è Allie Beth Stuckey, autrice di un libro per cristiani che rifiutano “l’empatia dei progressisti” e il cui podcast Relatable w/ Allie Beth Stuckey filtra notizie e tendenze attraverso uno sguardo cristiano conservatore. Un'altra figura di spicco è Savannah Craven Antao, la cui pagina Youtube Her Patriot Voice incoraggia le donne a scegliere di non andare all'università, sposarsi giovani, puntare tutto sulla famiglia e ad accogliere il tipo di femminilità che “la sinistra e le femministe moderne disprezzano”.
Poi c'è Isabel Brown, oltre un milione di follower su Instagram e un forte legame con Turning Point Usa, l'organizzazione fondata da Charlie Kirk. Bionda, minuta, grandi occhi celesti, sorride dolcemente mentre arringa le folle contro l'attacco alla famiglia tradizionale o il pericolo dell'islamizzazione. E a proposito di Kirk, impossibile non citare la moglie Erika, già vista su vari palchi a fianco di Donald Trump e poi di J.D. Vance, sostanzialmente incoronata erede morale del marito.
Erika Kirk, in realtà, era già una figura carismatica nella galassia della destra religiosa prima di diventare famosa come “moglie di”: ex reginetta di bellezza diventata podcaster, predicatrice e imprenditrice, ha fondato la non profit Everyday Heroes e il sito di abbigliamento a tema religioso Proclaim365, mentre conduce regolarmente sermoni a tema devozionale. Eppure non manca di ricordare il ruolo della “femminilità biblica”, della donna obbediente, della moglie che è preziosa “aiutante” del marito, della “benedizione” rappresentata dal potersi dedicare esclusivamente alla famiglia.
La womansphere digitale si ritrova anche su magazine online come Evie, apparentemente un “femminile” vecchia scuola che mescola moda, bellezza e consigli su sesso, amore e carriera. Il taglio è aspirazionale, il messaggio implicito è “segui i nostri consigli e diventerai la versione migliore di te”. I titoli, però, sono un po' diversi. “Ero una sex worker lesbica e oggi sono una mamma cattolica e conservatrice” spicca subito in alto, proprio accanto a un altro articolo che titola, sotto una grande foto di Sidney Sweeny, “Il celebrity tour di scuse è stato cancellato (a data da destinarsi)”, con ovvio riferimento alla recente querelle che ha visto Sweeney fare da testimonial a una campagna pubblicitaria che sembrava strizzare l'occhio al suprematismo bianco. Troviamo anche approfondimenti come “Il femminismo ha premiato gli uomini effemminati e fregato le donne per bene”, l'editoriale “Abbiamo lasciato che un contagio sociale riscrivesse l'idea di donna” (laddove per contagio sociale si intende l'inclusività verso le donne trans) e la rubrica sulle relazioni, il cui ultimo titolo è “Non farci sesso”. Il sesso in sé non è demonizzato su Evie, ma qui viene frequentemente ricordato che è un ambito riservato alle donne sposate.
Muovendo sempre più verso il lato più frivolo e apparentemente a-politico dello spettro culturale, poi, c'è tutto l'ecosistema di influencer e tiktoker di area lifestyle, dalle dating coach alle famigerate tradwives (che sembrano essere sbarcate anche in Europa). Queste ultime, lungi dall'essere un movimento esclusivamente decorativo e pittoresco, sono state spesso interpretate come veicolo di valori e ideali ultraconservatori esplicitamente diretti alla generazione Z, in reazione all'ormai sfiorito mito della “girlboss”, la ragazza ambiziosa e rampante che ha tutto ciò che desidera.
Simbolo di un certo femminismo privilegiato e superficiale da primo mondo, il tropo della girlboss – piuttosto in voga per tutti gli anni 10 - è stato effettivamente criticato sia da destra che da sinistra, in quanto propagatore di ideali irraggiungibili e sostanzialmente fallimentare di fronte all'evidenza di un mondo del lavoro già abbastanza ostile e competitivo per le donne che pensano solo alla carriera, figurarsi per quelle che oltre alle gratificazioni lavorative vorrebbero coltivare le relazioni e avere una famiglia.
Dice ancora Hoebanx: “Il pubblico di riferimento delle donne della manosphere è costituito da donne in cerca di stabilità in un mondo sempre più instabile. Questa ricerca può manifestarsi nel cercare sicurezza economica ed emotiva nelle relazioni sentimentali, come le donne red pill che cercano mariti “di alto valore”. Può presentarsi in donne che cercano una prospettiva più allineata con la loro esperienza vissuta e con i valori che le circondano rispetto al femminismo, come le donne di destra e le femcels. Oppure può emergere come resistenza alla spinta del femminismo neoliberale affinché le donne “facciano tutto”, come nel caso delle tradwives che scelgono di lasciare il lavoro retribuito per concentrarsi esclusivamente sul lavoro domestico».
Ecco allora che, andando ben oltre l'escapismo e l'intrattenimento fini a sé stessi, il mondo incantato delle tradwives che fanno il pane vestite di tutto punto in cucine elegantissime, attorniate da bimbetti felici e mantenute da invisibili mariti (evidentemente sempre al lavoro), diventa un sogno rassicurante, un'ipotesi da prendere in considerazione, un ideale a cui aspirare. Quando la tradwife non si accontenta più dei suburbs della casalinga anni '50, di cui incarna una versione nostalgica e idealizzata, va a vivere direttamente in campagna diventando homesteader, in grandi case immerse nelle praterie, come i pionieri ottocenteschi (e non è una coincidenza che molte tradwives e homesteaders siano di religione mormone). È il caso di Jill Winger, che nel suo profilo Instagram si presenta come colei che “Ti aiuta a riscattare quello che ti era stato tolto alla modernità”, e della più famosa di tutte, quella Hannah Neeman di Ballerina Farm che, come vuole la vulgata, avrebbe rinunciato a una promettente carriera da danzatrice per fare figli, allevare animali, cucinare e vendere i prodotti di una grande fattoria-azienda che il marito ha deciso di chiamare come prende il sogno a cui lei ha rinunciato.
Il controsenso più evidente in tutte le tradwives, così come nelle altre content creator di questa galassia, risiede nel propagandare un'idea di donna che dice di no alla carriera per curare marito e figli, mentre loro stesse sono evidentemente imprenditrici o almeno donne lavoratrici, visto l'impegno di tempo e risorse che richiede registrare e montare video ad alta qualità, produrre contenuti continui, curare profili social da migliaia di followers, pubblicare libri, dedicarsi all'e-commerce e promuovere sponsorizzazioni.
La messa in scena di questa femminilità un po' arcaica, idilliaca e apparentemente inoffensiva sembra reggere, nonostante i controcanti di ex tradwives come Brianna Bell, Joe Piazza e Jennie Gage che invece svelano un lato meno conosciuto di questo mondo, spesso lambito se non dominato da bigottismo, fanatismo religioso, omofobia. Gage, in particolare, ex mormone, ex MAGA ed ex tradwife dell'Arizona, dedica molti video del suo canale YouTube a descrivere gli ideali di suprematismo bianco e il trumpismo messianico dell'ambiente da cui proviene.
A tenere insieme tutte le diverse manifestazioni di antifemminismo performativo viste finora è uno zeitgeist sempre più orientato al conservatorismo e all'estremismo di destra, che riesce a fare breccia utilizzando la delusione, l'incertezza e lo scontento delle donne più giovani, che si vedono poco rassicurate dall'attuale mondo del lavoro, poco rappresentate dal femminismo liberale e guidate politicamente da personaggi che evocano lo spauracchio della childless cat lady o da un presidente attualmente invischiato nella vicenda degli Epstein files e la cui massima apertura al femminismo sinora è stata dichiarare “Ci prenderemo cura elle nostre donne”. Secondo Sophie Lewis, autrice di Enemy feminisms: TERFs, policewomen and girlbosses, “Il femminismo liberale è stato un fallimento catastrofico, ma i ‘mostri post-liberali’ che vediamo ovunque sono ancora peggiori”. A Valigia Blu, Lewis conferma il legame tra tutte le forme di antifemminismo descritte finora: “La pratica delle tradwives, il nichilismo della femosphere e il “post-liberalismo” in stile New York Times sono tutti complessi intrecci di anti-femminismo e di “femminismo reazionario”.
Per quanto diverse in termini di linguaggi, target e del grado di estremismo che esprimono, sono tutte parti di un unico mondo valoriale perfettamente allineato con l'orientamento politico attualmente al potere. Eppure, moltissime di queste content creator, influencer, commentatrici politiche e tiktokers continuano a dipingersi come controcorrente e proporsi come scomode voci fuori al coro. “Ma questi messaggi anti-femministi e anti-woke non sono mai stati realmente controculturali o anti-mainstream: erano presenti nelle fondamenta stesse del paese”, chiosa Hoebanx, che aggiunge: “Che siano effettivamente controculturali o no è irrilevante. L’obiettivo è creare un’identità di gruppo basata sul conflitto con un gruppo altro demonizzato”. Oggi ad essere demonizzato è il femminismo, domani chissà.
(Immagine anteprima: frame via YouTube)








Roberto Simone
Nessuna meraviglia che queste signore conducano una vita che contraddice le loro teorie. È così per tutti coloro che invocano regole liberticide: valgono sempre e solo per gli altri.