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In ricordo di Amedeo Ricucci, uno dei più bravi e coraggiosi giornalisti italiani

12 Luglio 2022 8 min lettura

In ricordo di Amedeo Ricucci, uno dei più bravi e coraggiosi giornalisti italiani

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Se n'è andato uno dei più bravi e coraggiosi giornalisti italiani. Una perdita immensa. Amedeo Ricucci, inviato di Professione Reporter, Mixer, TG1 e La Storia Siamo Noi, ha seguito i più importanti conflitti degli ultimi trent'anni, dall'Algeria al Kosovo, dall'Afghanistan all'Iraq. Era a Reggio Calabria per realizzare uno speciale del Tg1 sulla ‘Ndrangheta. Qui il suo ultimo reportage "FAME", dai luoghi dell’Africa sub -sahariana e del sud-est asiatico, andato in onda lo scorso 9 maggio.

E così è stato sul campo fino all’ultimo dei giorni e ci ha lasciato i suoi ferri vecchi. Che detto così sembra qualcosa di obsoleto. Invece Amedeo a quei ferri vecchi (anche il suo blog lo aveva chiamato così) teneva tantissimo, perché erano i principi fondamentali di un modo di fare giornalismo che ti costringe a stare dentro ai fatti, schiena dritta, occhi e cuore aperti. A raccontare le guerre senza improvvisazione, con studio, analisi e attenzione, soprattutto ai civili. Un modo di fare giornalismo che ha a che fare con la libertà delle persone. Soprattutto oggi che siamo vittime di una narrazione bellica che somiglia sempre di più al marketing, spesso trattati come dei consumatori di veline. Quei ferri vecchi mancano già e sono un’eredità preziosa.

Non so come cominciare… no, non mi mancano le parole per Amedeo Ricucci. È che forse per lui, per il mio maestro, ne ho troppe. Non mi mancano ma ho paura di non trovare quelle giuste che rendano almeno in parte, il senso della sua vita e della sua professione, elementi inseparabili fino alla fine, perché è morto mentre realizzava il suo ultimo reportage dalla Calabria, la sua terra. Ancora una volta da una zona di guerra, una guerra latente, melliflua, resistente al tempo. Amedeo era, anzi è perché le sue cronache e le sue inchieste restano, un inviato, uno dei più grandi giornalisti della storia di questo dannato mestiere. Ha raccontato negli ultimi trent’anni tutti i principali conflitti, girando il mondo, rischiando spesso la pelle, toccando con mano il dolore della gente.

Quando lo vidi la prima volta, più di 15 anni fa, era appena tornato dall’Afghanistan, si occupava poco di cronaca nazionale e cercava qualcuno con cui realizzare “viaggio nel sud” uno speciale di 4 puntate di reportage per “La storia siamo noi”. Massimiliano De Santis e Barbara Carfagna mi avevano segnalato (gliene sarò grata per sempre).

“Mi dicono che tu racconti le guerre di casa nostra”, mi disse aspirando il suo sigaro e guardandomi da sopra la montatura dei Rayban neri. Dopo poche settimane eravamo tra le guerre di camorra, nelle discariche proprio mentre scaricavano i rifiuti tossici, nei cantieri in cui si realizzavano fabbricati abusivi, tra i lavoratori in lotta, le vittime di mafia, gli speculatori della Salerno-Reggio Calabria, negli ospedali in cui mancava tutto. Furono mesi incredibili: anticipammo notizie, contribuimmo ad alcuni arresti ma sperimentammo anche la frustrazione e l’impotenza del nostro mestiere come quando ci trovammo con un uomo coraggioso, Mimmo Noviello, che aveva denunciato il boss Giuseppe Setola dell’ala terrorista dei casalesi. Decidemmo di intervistare la moglie con il volto coperto, lui intervenne durante le riprese “noi lo sappiamo che mi uccideranno”, disse. E così fu. Senza che potessimo avere il tempo di aiutarlo. Ne parlavamo spesso io e Amedeo di quella vicenda e mi colpiva sempre la cura che aveva per quel dramma. Lui che aveva visto centinaia di morti e aveva seguito i conflitti in Palestina, Siria, Cecenia, Africa, Iraq, Afghanistan. Non diventò mai turista del dolore, distaccato collezionista di immagini e storie. Amedeo partecipava. E amava il suo lavoro, se lo era guadagnato con le unghie e con i denti. Mi raccontava di aver lavorato in Africa per le Nazioni Unite e che proponeva di continuo articoli e reportage ai giornali ma gli davano retta prevalentemente i giornali femminili, così per lavorare di più si firmava con un nome di donna. Non ha mai dimenticato la gavetta, le lotte per il lavoro e quando insieme ad altri colleghi fondammo i coordinamenti dei giornalisti precari per rivendicare diritti e tutele, lui fu uno dei pochi tra quelli garantiti a sedersi con noi, condividendo progetti, consigli e battaglie. In fondo chi glielo faceva fare? La maggior parte di quelli con il culo al sicuro ci guardavano con sospetto o al massimo indifferenza. Amedeo non ha mai dimenticato di essere stato un precario, una voce scomoda e franca.

Ha sempre fatto la sua parte dando una mano ai colleghi più giovani e ricordando quelli che per questo lavoro hanno detto la vita. Amedeo era in Somalia con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin quando furono assassinati e fu mancato per un pelo quando perse la vita il fotoreporter Raffaele Ciriello a Ramallah: "Mi stava accanto e una raffica israeliana se l'è portato via. Non ha avuto giustizia, Lello, né ha avuto gli onori toccati ad altri, più garantiti e più osannati di lui. A me ha lasciato un dolce ricordo", scriveva Amedeo.

E poi l’inchiesta sulla scomparsa dei colleghi Italo Toni e Graziella De Palo [ndr, è in uscita a settembre "Omissis-Graziella De Palo, una storia italiana", un podcast di cinque puntate per Radio Rai 3 curato da Loredana Lipperini, con la regia di Fabiana Carobolante, che ospita due interventi di Amedeo Ricucci], sull’assassinio della sua amica Anna Politkovskaja e subito dopo la lungimirante inchiesta sulla Russia di Putin e il business del gas. Mi ricordo che fu costretto a girare in esterna a meno 40 gradi e quando arrivò in Italia fu ricoverato. Tutti si ricordano quando fu prima minacciato di morte e poi sequestrato in Siria ma bisognerebbe andare a rivedere tutto il lavoro fatto in quei territori, tra cui uno che all’epoca era davvero all’ avanguardia: “Siria 2.0”, girato sotto i bombardamenti in diretta e con il cellulare.

Amedeo a dispetto di quei “ Ferri vecchi” è stato sempre un innovatore, uno che voleva sempre imparare a fare cose nuove e pronto a sperimentare nuovi linguaggi. Lo fece anche anni fa a “Professione reporter”, il programma di Milena Gabanelli che fece da apripista a Report. Lui fece un reportage dall’Africa con una telecamera montata su una moto e commentando tutto ciò che vedeva e succedeva. Ne venne fuori un racconto inedito e struggente fatto di bellezza e denuncia. Un pezzo di giornalismo nuovo dove gli occhi del cronista erano un punto di vista credibile ed efficace. Lo ricordavamo in un panel del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, uno dei nostri punti di incontro imprescindibili. Vedevo tanti giovani colleghi guardare quelle immagini a bocca aperta. Era un racconto fortissimo e importante ancora a distanza di tanti anni. In quel periodo si era molto dedicato alle vicende degli ultimi e delle migrazioni. Era un momento particolare in Italia, in cui la propaganda politica minimizzava il dramma delle persone che fuggivano da guerre e miseria e li usava per costruire un consenso che alimentava solo odio. E allora Amedeo che fece? Nonostante gli acciacchi che ormai lo accompagnavano da tempo, ripercorse tutto il viaggio dei migranti dalle isole della Grecia fino a Vienna, passando per Macedonia, Serbia, Croazia e Ungheria e condividendone giorno dopo giorno il dramma, i sogni, le fatiche e le emozioni. E ci buttò in faccia tutta la sofferenza di bambini, madri e uomini in viaggio per sopravvivere. Fu tra i primi a proporre questo tipo di cronaca, di fatto un vero e proprio road movie. Ci sono stati degli scoop importanti anche se andati in onda in tarda serata perché lo spazio dedicato al’ approfondimento del Tg1 era quello, come quando dalla Turchia ottenne la testimonianza di un ex comandante dell'Isis [min. 32'57"] (l'intervista ce l’aveva solo Ricucci e il Washington Post eh..) e che ricostruiva esattamente come funziona la macchina organizzativa dell'Isis.

Potrei ricordare i collegamenti che faceva con Radio Siani, una emittente che trasmette in un bene confiscato a un clan e che per volontariato dirigevo. Gli chiesi di spiegarci cosa succedeva nel mondo e lui, generosamente, raccontava ai miei ragazzi e a tutti la storia mentre accadeva. Se so qualcosa di come si fanno reportage e inchieste televisive lo devo a lui, se ho imparato a fare le interviste, pure. Se ho rafforzato la mia idea di giornalismo come racconto immersivo di fatti inediti o con uno sguardo inedito anche. Lo ha fatto con me e con altri colleghi come me. Io poi avevo il privilegio dell’ intimità dei racconti di vita, mai melodrammatici e sempre con quella scorza che superavi guardandolo negli occhi. “Mi sono innamorato” , mi ha confessato poche volte ridendo, con il bicchiere di vino in mano, e anche lì poi doveva fare i conti con la passione che lo portava a essere sempre con una valigia in mano.

Potrei raccontare di tutte le volte che negli ultimi anni gli chiedevo: “Come stai?” e lui mi mandava amabilmente affanculo. Anche ora che non lo avevo visto partire per l’Ucraina e che egoisticamente desideravo le sue cronache. Oppure di qualche ragazzina salvata dalla guerra che lo chiamava zio Amed. Ma lui non lo vorrebbe. Qualche tempo fa scrisse così:

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“Per prendere in mano il proprio futuro non serve romanzare la propria vita professionale, pur di guadagnarsi qualche “grado” in più sulla spallina. Se c’è una cosa che rende insopportabilmente noiosi i ritrovi fra giornalisti (in particolare quelli fra inviati di guerra) sono i ricordi esibiti e sciorinati come un mantra, che diventano inevitabilmente delle pietose auto-celebrazioni. (...) Ricordo a me e a tutti che gli inviati di guerra della vecchia guarda, gli Ettore Mo, i Lucio Lami, i Valerio Pellizzari, i Mimmo Candito, il pronome personale “io” non l’hanno mai pronunciato, nemmeno in privato. Chapeau per tutti loro. Erano altri tempi, ma è il modo di lavorare a cui continuo ad ispirarmi".

Non sono pronta a pensare che se ne sia andato. So che resterà per sempre se faremo tesoro del suo lavoro, riguardandolo e ricordando questa vita da reporter così piena. Non ero pronta a scriverne e so di aver detto forse cose inutili. Ma ho paura che l’agenda setting di chi decide cosa abbia peso in questo mestiere a volte ingrato, faccia perdere la memoria o non renda giustizia alla grandezza del lavoro di Amedeo. Perciò per il momento prendo quei ferri vecchi, la moleskine e il gilet multitasche e li porto con me, in giro, passandoli ad altri e cercando ogni giorno di esserne degna.

Immagine in anteprima: Amedeo Ricucci in una foto del settembre del 2001, nella valle del Panshir, Afghanistan, scattata dal suo amico fotografo Raffaele Ciriello che, pochi mesi dopo, il 13 febbraio 2002, sarebbe morto, colpito da un soldato israeliano a Ramallah, in Cisgiordania – Foto via Facebook

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