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Il caso Altaforte: il problema è il fascismo dei neofascisti

13 Maggio 2019 15 min lettura

Il caso Altaforte: il problema è il fascismo dei neofascisti

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La vicenda che ha coinvolto la casa editrice Altaforte, il suo titolare Francesco Polacchi e il Salone Internazionale del Libro di Torino si è conclusa con l’esclusione della prima dalla manifestazione, proprio alla vigilia. Le polemiche intorno alla presenza dell’editore fascista sono da subito esondate da una semplice questione tra addetti, e non poteva essere altrimenti. Prima c’è stato il lancio del libro intervista di Chiara Giannini, Io sono Matteo Salvini, edito per l’appunto da Altaforte, poi l’annuncio che il libro sarebbe stato presentato al Salone di Torino. Come scritto da Adriano Sofri sul Foglio, “la combinazione fra il gruppo fascista e un vicepresidente del governo e titolare diurno e notturno del Viminale” è una questione che va "riacciuffata”, anche perché Salvini non ha espresso distanza o imbarazzo verso l’operazione: ha solo precisato, a mezzo ufficio stampa, di aver concesso l’intervista all’autrice senza stipulare contratti con Altaforte. Evidentemente tra una domanda e l’altra non gli è venuto di chiedere “Dove esce l’intervista?” e se l’ha fatto si è accontentato di risposte vaghe.

Altaforte fa capo a Sca2080, società editrice che pubblica il Primato Nazionale e che, secondo l’Espresso, ha fatturato oltre 200mila euro nell’ultimo bilancio del 2017. Il suo amministratore unico è sempre Francesco Polacchi, e di recente ha aperto due librerie - a Bolzano e Piacenza. Quanto a Polacchi, del suo curriculum va posta in primo piano la militanza politica e relativa propensione alla violenza. Nel 2008, quando era nel Blocco Studentesco, era tra gli studenti fascisti che hanno aggredito quelli dell'Onda, episodio per cui è stato arrestato e in seguito condannato in primo grado a un anno e quattro mesi. È tra i militanti che, per estremo rispetto della libertà di espressione, irrompono nello studio di Chi l'ha visto? durante una puntata che mostra quelle aggressioni e il ruolo avuto da Polacchi stesso. C'è poi l'accoltellamento di un sassarese (reato andato prescritto nel gennaio 2017) a Porto Rotondo, l'aggressione a militanti del centro sociale Acrobax, i tafferugli nel quartiere di Casalbertone, e il rinvio a giudizio per l'aggressione a Milano di membri dell'associazione "Nessuna persona è illegale", processo per cui Polacchi aveva un'udienza proprio durante i giorni del Salone.

Quando si parla di Polacchi e Altaforte, in sostanza, stiamo parlando del braccio editoriale di CasaPound. In un mondo molto distante da quello in cui viviamo un Ministro dell’Interno dovrebbe contrastare le formazioni neofasciste, e non flirtare con loro. Invece in quello in cui viviamo il libro di Chiara Giannini suggella le contiguità politiche tra il leader della Lega e CasaPound, contiguità che abbiamo potuto vedere nella linea tutto sommato morbida che Salvini ha tenuto verso la situazione di Casal Bruciato (dove ha promesso “dossier rom”), dove CasaPound ha agito con minacce e intimidazioni - con il vigliacco corollario dell’evidenza negata. Senza contare le frequentazioni ufficiose, con Salvini che fa finta di non sapere chi sia Polacchi, venendo smentito da Lilli Gruber e Alessandro De Angelis a Otto e Mezzo.

La foto mostrata nel video, oltre a Polacchi, ritrae lo stato maggiore di CasaPound - poco plausibile che Salvini si sia fermato a un tavolo per un giro di selfie senza sapere chi fossero quei commensali. Com’è poco plausibile che, nello sfoggiare allo stadio un giubbotto Pivert, marchio di Polacchi, quella sera fosse uscito indossando la prima cosa uscita dall’armadio. Le condanne generiche di violenza o gli intenti dichiarati di sgombrare la sede occupata di CasaPound lasciano il tempo che trovano, di fronte per esempio al comportamento della polizia ancora a Casal Bruciato, tra il tollerante e l’ambiguo. E ciò di fronte al clima ignobile creato attorno a una famiglia che, semplicemente, ha diritto ad abitare dove sta, e che è stata oggetto di minacce e intimidazioni per questioni etniche - evidentemente essere rom pone fuori dallo stato di diritto, ormai. Non si capisce perché sia stato permesso a CasaPound di allestire il gazebo all'interno del condominio, non si capisce perché sia stato permesso di far perdurare una minaccia all'incolumità di quella famiglia, non si capisce perché lo squadrismo di quartiere è considerato protesta, mentre chi si mobilita in difesa di diritti elementari deve farlo davanti alla polizia in tenuta antisommossa.

Quel che si capisce, però, è che in nome del "Prima gli italiani" la Lega può tranquillamente giocare di sponda con lo squadrismo di CasaPound. La formazione neofascista è troppo radicale e minoritaria per impensierire la vocazione maggioritaria del partito di Salvini, ma favorisce la Lega polarizzando in modo ancora più estremo l’opinione pubblica su temi comuni ai due partiti.

Perciò, rispetto alla presenza dello stand di Altaforte al Salone di Torino, chi ha parlato di un piccolo editore e di un partito con una percentuale risibile non ha avuto ben chiaro il contesto, o l’ha bellamente ignorato. Attraverso Altaforte CasaPound ha puntato a sfruttare la manifestazione per egemonizzare il dibattito pubblico, e l’occasione gliel’ha fornita il libro intervista a Salvini. L’annuncio di una presentazione del libro al Salone, a pochi giorni dall’inizio dell’evento, quando cioè la macchina organizzativa era maggiormente sotto sforzo, non può essere derubricata a casualità o provocazione. E la risposta del Salone purtroppo è stata parte del problema.

Prima di ogni critica va spezzata una lancia in difesa di Nicola Lagioia e del comitato editoriale. Nel momento in cui è stata negata la presenza del libro nel programma ufficiale, ma non dello stand di Altaforte, la palla era appannaggio di chi gestisce la parte commerciale dell’evento. E chiamava in causa uno scarso o nullo controllo sulla concessione degli stand - probabilmente per battere il più possibile cassa. I profili ufficiali del Salone hanno taciuto nei primi giorni, uscendo con un comunicato del comitato d’indirizzo solo il 4 maggio. Lagioia, forse sentendo il peso e la responsabilità di chi ci mette la faccia, e perché chiamato in causa da più parti su Facebook e Twitter, si è speso a rispondere per quanto riguarda il programma e per la questione dello stand fin da subito.

A parte scambi di commenti, la sua replica ufficiale è stata un post su Facebook sottoscritto dal comitato editoriale, post poi ripreso dal blog Minima & Moralia (che però non è un canale ufficiale del Salone né un suo partner). Pur facendosi carico di rispondere al dibattito scaturito, nella risposta c’è un riduzionismo - quello sui dieci metri quadri di stand su 60mila di spazio espositivo - che, a posteriori, palesa la sottovalutazione della crisi in corso. Quando inoltre si legge “La politica quest’anno la lasciamo agli scrittori, ai filosofi, ai giornalisti, ai politologi, agli artisti in generale”, la frase stride con quanto dichiarato in seguito dal giornalista Jacopo Iacoboni, autore del libro "L’esecuzione" (edito da Laterza), libro lasciato fuori dal programma perché – è lo stesso giornalista a spiegarlo su Twitter – “gli organizzatori hanno risposto che in questa edizione preferivano non avere libri con partiti politici per oggetto”.

Ora, nell’allestire un programma per una manifestazione del genere è fisiologico che si dicano dei “no”. Ma dire no all’inchiesta di un giornalista sul partito che ha vinto le scorse elezioni parlamentari in nome del “no ai libri sui partiti” sa della peggior Rai sotto campagna elettorale.

Dopo la presa di posizione del comitato editoriale, a tenere banco sono state le dimissioni di Christian Raimo, consulente del Salone e membro del comitato editoriale. Raimo, in un altro post su Facebook, dopo aver dichiarato che “l’antifascismo oggi o è militante o non è”, si è lanciato in una disamina di come le idee “neofasciste, sovraniste” siano “la base per l’ideologia della forza maggioritaria di governo”, chiamando in causa alcuni intellettuali e giornalisti di quell’area, puntando il dito contro il “razzismo esplicito” sdoganati nei media mainstream.

In questo smarcamento in avanti rispetto alla posizione più prudente del comitato, Raimo si è trovato esposto al fuoco di ritorno della destra, da Nicola Porro – “scatta la censura comunista di Raimo” – alla sottosegretaria del Mibact, la leghista Lucia Borgonzoni. “Censura” e “lista di proscrizione” sono state le parole d’ordine di chi, evidentemente, non aspettava altro. A ciò Raimo ha risposto prima cancellando il post senza spiegazioni e poi dimettendosi da consulente del Salone - ma in seguito ha annunciato la presenza come “autore, lettore e cittadino”. Dimissioni per certi versi forzate, senza le quali la Lega avrebbe guidato l’assalto al Salone e al suo direttore artistico.

Si è trattato ancora di una sottovalutazione di quanto era in ballo. Se l’antifascismo è “militante o non è”, e si denuncia un quadro ideologico di pericolosi sdoganamenti, bisogna andare fino in fondo oppure si dimostra di aver parlato a sproposito. E, fatto non secondario, si contribuisce alla distorsione linguistica dei concetti criticati (fascismo, razzismo, sovranismo), a vantaggio di chi li cavalca. La giornata che ha visto le dimissioni di Raimo è anche quella in cui è uscito il già citato comunicato ufficiale del Salone. Di fronte a una questione culturale e politica, di fronte a una comunità di addetti e lettori che chiamava a una presa di posizione, il comitato d’indirizzo si è impantanato nei cavilli:

Il Comitato di Indirizzo della 32a edizione del Salone del Libro, chiamato a monitorare, nelle diverse fasi, la realizzazione delle attività culturali della fiera di maggio, sottolinea che il Salone ha scelto in piena consapevolezza di non diventare palcoscenico elettorale, al fine di non trasformarsi in una cassa di risonanza troppo facile da strumentalizzare; e ancora di essere plurale e aperto alla discussione, perché il dialogo è fondamento della democrazia. Il Salone è quindi ambasciatore della Costituzione. E la Costituzione, al suo articolo 21, afferma che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
La Legge Scelba del 1952, coordinata con la Legge Mancino del 1993, sanziona e condanna chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, rendendo reato in Italia l’apologia di fascismo. Materia della magistratura, quindi, è giudicare se un individuo o un’organizzazione persegua finalità antidemocratiche. È pertanto indiscutibile il diritto per chiunque non sia stato condannato per questi reati di acquistare uno spazio al Salone e di esporvi i propri libri.

Ciò ha prodotto una forte reazione. Un po’ perché è passato il messaggio “è la magistratura a decidere chi è fascista, per il resto basta che uno paghi lo stand”, un po’ perché la combinazione tra quel comunicato e le dimissioni di Raimo ha innescato una risposta mobilitante, oltre lo strumentale frame “Altaforte casa editrice sgradita alla sinistra”.

Sono arrivate le importanti defezioni di Wu Ming (“Per rigettare il fascismo non serve un timbro della questura”), Zerocalcare, Carlo Ginsburg, Francesca Mannocchi,  Tomaso Montanari, Salvatore Settis, della presidente dell’Anpi, Carla Nespolo, e di alcuni editori – People e Manifestolibri. Nell’annunciare la propria assenza, Zerocalcare ha forse tracciato meglio di tutti il senso di trovarsi a stretto contatto con i fascisti. L’antifascismo a microfoni e telecamere accese è ben diverso dall’antifascismo che si può essere costretti a mettere in campo quando si è lontani dai riflettori, e si ha a che fare con la minaccia di possibili azioni squadriste (come raccontato su Twitter da Mauro Vanetti). Entrano in ballo le garanzie di incolumità che dovrebbero essere scontate per un evento come il Salone, ma che invece la presenza dei neofascisti fa venir meno.

Queste rinunce hanno creato un vuoto evidente attorno a chi, magari, preferiva sposare la linea del “il fascismo si batte con le idee”, o che semplicemente si interrogava sul da farsi. Hanno costruttivamente spinto gli addetti - scrittori, editori, ospiti - a chiarire la propria posizione col maggior grado di trasparenza possibile. Lo scrittore Gianluigi Ricuperati ha proposto che per le prossime edizioni il Salone si doti di criteri per la selezione all’ingresso degli stand. Su Facebook sono stati lanciati eventi come “Cantare Bella ciao davanti allo stand di Altaforte”. Eris Edizioni ha proposto di esporre l’adesivo “editoria antifascista”. Il boicottaggio, del resto, ha un costo che un piccolo editore non può permettersi, visto che al Salone si paga per esporre e quindi ritirarsi avrebbe significato perdere i soldi investiti. Un problema che ha spiegato l’editore indipendente Effequ.

Così, mentre una buona parte di giornalismo mainstream (tra cui Luca Telese, Pierluigi Battista, il già citato Nicola Porro e Antonio Polito) propinava la storia degli intellettuali di sinistra censori, il mondo dell’editoria in procinto di radunarsi a Torino e i visitatori col biglietto del treno in mano discutevano pubblicamente su come porsi di fronte alla presenza dei fascisti al Salone. In parte il dibattito ha avuto dei tratti autolesionistici, da esibita contrapposizione interna. È stato improprio parlare di “Aventino”, perché uno scrittore o un editore che decide di boicottare un evento è cosa diversa da un partito politico, così come un evento culturale è cosa ben diversa dal parlamento. Mentre la comunicazione a botte di hashtag #iovadoatorino ha spostato il dibattito sulle distinzioni all’interno di una parte, e non sul problema di partenza.

Si poteva insomma sfiorare lo psicodramma, finché non sono intervenuti due nuovi episodi. Polacchi, ringalluzzito dalla piega degli eventi, ai microfoni della Zanzara ha alzato il tiro, dichiarandosi apertamente fascista e bollando l’antifascismo come “vero male di questo paese” - con annessi elogi a Mussolini. Soprattutto, è arrivata la pesantissima rinuncia del Museo di Auschwitz e di Halina Birembaun, sopravvissuta al lager:

Non si può chiedere ai sopravvissuti di condividere lo spazio con chi mette in discussione i fatti storici che hanno portato all’Olocausto, con chi ripropone una idea fascista della società. Non si tratta, come ha semplificato qualcuno, del rispetto di un contratto con una casa editrice, bensì del valore più alto delle istituzioni democratiche, della loro vigilanza, dei loro anticorpi, della costituzione italiana, che supera qualunque contratto.

Se prima si poteva provare a minimizzare (menzione d’onore per Enrico Mentana che c’è riuscito lo stesso, nel dare la notizia della rinuncia del Museo di Auschwitz), una rinuncia così importante, proprio nel centenario della nascita di Primo Levi, ha spalancato le porte dell’opinione pubblica internazionale. Ha disvelato la pretestuosità di molte difese d’ufficio. Prima, entro i binari mistificatori del “dagli agli intellettuali radical chic” si poteva gridare alla censura attraverso consolidate dinamiche di consenso. Dopo, è semplicemente diventato ridicolo pensare “il Museo di Auschwitz censura”, o “Il Museo di Auschwitz dovrebbe combattere il fascismo con le idee”, o “il vero fascismo è quello del Museo di Auschwitz” senza risultare ridicoli o in malafede. A qualcuno è per caso saltato in testa di dire “Halina Birembaun ha sbagliato, se li avesse ignorati avrebbe dato loro meno visibilità”? Quanti si erano accodati alle narrazioni tossiche, o le avevano promosse in prima persona, si sono semplicemente chiusi in una bolla, continuando a cantaserla da soli intanto che la realtà bussava sonoramente alla porta.

Di fronte alla prospettiva di dover rispondere alla stampa estera a domande su uno “stand grande come un’edicola”, dalle parti di Torino si è capito di dover cambiare strategia. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, e la Sindaca Chiara Appendino annunciano una denuncia per apologia del fascismo contro Polacchi. E si tratta dello stesso Chiamparino che nemmeno 24 ore prima dichiarava: “Non si può impedire amministrativamente a una casa editrice di partecipare al Salone del Libro. [...] Finché non interverranno decisioni di ordine superiore che provino che lì c’è un’attività che viola la Costituzione ha diritto di esserci”. Si arriva così all’epilogo di giovedì sera, con il Salone che rende esecutiva la richiesta di Chiamparino e Appendino di rescindere il contratto con Altaforte. Ovvero di fare ciò che a inizio settimana era stato dichiarato impossibile.

Per una volta però l’impossibile si materializza: Altaforte finisce fuori dal Salone e chi aveva annunciato il boicottaggio riprende la strada per Torino. Potrebbe sembrare una favola a lieto fine, se non fosse che le favole sono narrazioni allegoriche, non cronaca. E allora, in conclusione, bisogna tirare le somme, e guardare indietro con un occhio a ciò che ci aspetta in futuro. Sulle narrazioni tossiche che hanno accompagnato questi giorni rimando al blog del collettivo Wu Ming, che ha commentato l’esclusione di Altaforte. Qui mi concentrerò sugli aspetti da tenere a mente per il futuro.

L’estrema destra è brava a fare propaganda, e perciò non va sottovalutata – men che meno ignorata a prescindere. Aggredisce i punti deboli di una piattaforma (in questo caso il Salone) e cerca di occuparli. Parte integrante della propaganda è la dissimulazione, che contempla il vittimismo e la menzogna esplicita, esibita – squadrismo e dissimulazione sono due gambe dello stesso corpo. Per i fatti di Casal Bruciato, Mauro Antonini di CasaPound ha negato minacce e insulti gridati da un militante del partito, proprio mentre un giornalista  gli mostrava il video incriminante. Vi sembra normale? Perciò, come sintetizzato da Flavio Pintarelli, occorre sempre ragionare su come sottrarre a questi movimenti le piattaforme di comunicazione - che è cosa ben diversa dal contenderle.

Il ricorso sistematico a dissimulazione e menzogna implica delle contraddizioni evidenti. Confrontate per esempio le dichiarazioni  di Polacchi che hanno contribuito alla revoca dello stand con il comunicato di Altaforte del 3 maggio. Qui abbiamo una casa editrice “senza alcun riferimento a soggetti di natura politica o partitica” che è interessata al massimo all’area culturale del “sovranismo”. O l'ufficio stampa di Altaforte non sa bene per chi lavora, o c'è qualcosa che non torna. Ironia a parte, se non si è in grado di capitalizzare queste contraddizioni, se non si è in grado di attuare una mobilitazione concreta e di usare la fase esplosiva-aggressiva contro i neofascisti, il confronto su un piano puramente retorico è destinato alla sconfitta, o nella peggiore delle ipotesi favorisce un processo di normalizzazione dei neofascisti.

Venendo alla parola "sovranismo", al di là degli studi in materia o di posizioni specifiche, in Italia sta diventando qualcosa di simile ad “alt-right” negli Stati Uniti. Un’area di convergenza semantica e di senso in cui chi porta avanti un’agenda neofascista cerca una zona grigia di contatto con altre aree, per estendere la propria influenza o veicolare contenuti che altrimenti incontrerebbero maggiore resistenza da parte dei media mainstream. Non a caso il Primato nazionale si presenta come “quotidiano sovranista”. Dall’esterno è opportuno evitare di considerare “sovranismo” e “neofascismo” come sinonimi o realtà perfettamente sovrapponibili, è una semplificazione che può ritorcersi contro chi la adotta. Dall’interno è bene che studiosi, giornalisti, editori e così via tengano conto di questa ambiguità, anche solo chiarendo la propria posizione per onestà intellettuale e autotutela. Magari evitando di fare come l'autrice di Io sono Salvini, Chiara Giannini, che si è paragonata ai prigionieri di Auschwitz, con cui avrebbe condiviso una restrizione della libertà personale. Un paragone che travalica abbondantemente la decenza e la verità storica, e dove il vittimismo esibito davanti ai microfoni, proprio mentre si parla di censura, appare davvero come qualcosa di piccolo e abietto. Speriamo non diventi di moda accostarsi ai prigioniero di Auschwitz in presenza di qualche restrizione, altrimenti le persone imbottigliate nel traffico potrebbero paragonarsi a Primo Levi in Se questo è un uomo, alla faccia di qualunque revisionismo o negazionismo.

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Usate fin troppo a sproposito, parole come "censura" e "lista di proscrizione" evocano un mondo dove la pubblicazione di libri passa per autorità poliziesche, o richiamano le liste in diretta televisiva del presidente filippino Rodrigo Duterte. Non c'entrano nulla con quanto successo attorno al Salone di Torino, anche perché era contestata la presenza a un evento - se un libraio dice "no" a una presentazione, l'autore e l'editore sono censurati? Se decido di boicottare sto censurando, o faccio valere il mio diritto a manifestare dissenso? Si è parlato di "libertà di espressione" e articolo 21 della Costituzione, ma l'articolo 21 della Costituzione non dà il diritto di dire ciò che si vuole quando si vuole. Ad esempio è persino bacchettone quando recita "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume". Un principio che può essere contestato, certo, ma che non può essere eluso proprio perché sancito dalla Costituzione. Si è perciò trasmessa un'idea di libertà di espressione irreale, caratterizzata da deresponsabilizzazione e impunità – solo il forte, nel mondo attuale, può arrogarsi di dire quel che vuole, per gli altri valgono le leggi in vigore.

Nel mondo attuale esistono concetti normati come diffamazione, calunnia, minaccia, vilipendio, istigazione a delinquere e reati d'odio, e chi parla di libertà di espressione in senso assoluto o a sproposito fa semplicemente finta che non esistano - coerenza vorrebbe che ne chiedesse l'abolizione in blocco, coerenza vorrebbe una militanza attiva a riguardo perché se siamo in un paese dove vigono "le liste di proscrizione" o le "censure fasciste" c'è come minimo da allertare l'opinione pubblica internazionale sull'esclusione di Altaforte dal Salone. Invece quello che accade è che si brandisce la "censura" come una barzelletta che non fa ridere, e la si scaglia addosso per reprimere un dissenso più che legittimo, quando entra in ballo il neofascismo. Tutta la cordata del "il vero fascismo è di chi censura" vista per il caso Altaforte è peculiare di questo uso strumentale. Da una parte c'è la tendenza a considerare il fascismo come un fenomeno storico, del passato, o comunque talmente marginale da essere più che altro un'ossessione della sinistra (eran tutti di sinistra quelli contrari ad Altaforte al Salone? Che han votato?). Dall'altra, quando si dice "il vero fascismo è di..."si ammette l'esistenza di un problema che passa per la parola "fascismo", ma solo per criticare un'area politica proprio mentre si mobilita per contrastarlo. E quindi lo si ammette come puro pretesto formale per, di fatto, fare un favore ai movimenti neofascisti, che quella parola non si limitano a pronunciarla nel fantomatico mercato delle idee, ma la incarnano come eredità politica da concretizzare.

Foto in anteprima via Fanpage

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