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Aldo Cazzullo e l’impero romano spiegato male

18 Novembre 2023 18 min lettura

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Aldo Cazzullo e l’impero romano spiegato male

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“Ma tu quanto spesso pensi all’impero romano?”.

La domanda può sembrare strana, ma negli ultimi mesi è diventata un trend TikTok, dove decine di influencer, all’inizio americane e poi di ogni dove, hanno cominciato a chiedere ai loro fidanzati/compagni/mariti quanto spesso capitasse loro di pensare all’impero romano. La risposta è stata imprevedibile: decine di uomini hanno confessato di pensare all’impero romano molto più spesso di quanto persino il più ottimista cultore delle civiltà classiche potesse mai immaginare. Giovanotti palestrati americani o boomer di mezza età hanno confessato candidamente di pensarci “più volte al giorno”, o comunque assai spesso. 

Il successo di Roma antica presso il grande pubblico sarebbe legato al fascino che questa civiltà ancora esercita, come “fondamento della cultura occidentale”, nei confronti di moltissimi uomini - le donne infatti ai Romani pensano assai poco. Secondo gli improvvisati cultori dell’impero, la società romana era ordinata e ben organizzata, e soprattutto al suo interno i ruoli degli uomini erano ben chiari e definiti. Insomma, l’impero romano come eden primigenio in cui un maschio etero tradizionale si senta di nuovo finalmente a casa. 

Le storie dei maschi bianchi morti 

Questo fenomeno, prima di diventare un trend, era già stato trattato di recente da un saggio di Alice Borgna, Tutte storie di maschi bianchi morti, in cui la studiosa di letteratura latina ha analizzato molti degli stereotipi che ancora sono in circolazione quando si parla di mondo antico, in particolare di Roma. 

Negli ultimi anni nei campus americani si sono aperti dibattiti sul mondo classico proprio perché spesso negli stereotipi il mondo romano è presentato come una civiltà di “uomini forti”, bianchi e amanti dei valori tradizionali che in buona sostanza passavano il tempo a fare la guerra e farsi servire dai loro schiavi. Secondo la stereotipizzazione, questi “uomini forti” andrebbero studiati perché, come ripetuto da più parti, dagli intellettuali dell’Umanesimo ai Padri fondatori degli USA, sono stati il fondamento imprescindibile della società occidentale. 

Questi romani, descritti poi dalla critica ottocentesca come patroni e padri spirituali del colonialismo, erano stati usati da politici e studiosi per giustificare l’imposizione della cultura occidentale ai popoli colonizzati. Avevano continuato a essere raccontati come vincenti “sponsor” della pax Americana anche negli anni ‘50 e ‘60, da una Hollywood che si era dedicata alla produzione di film peplum. Da qui il fastidio, da parte di studenti di altre provenienze e origini, per lo studiare una civiltà che è stata a lungo imposta come unico paradigma di sviluppo culturale di successo, e a cui si è dato un peso che nel mondo globale va riconsiderato. 

Il saggio di Alice Borgna, molto equilibrato e interessante per lo studio del fenomeno, aiuta a comprenderlo e definirlo, per altro sfatando parecchie non-notizie - o persino bufale - apparse negli ultimi anni che additavano il “politicamente corretto” come il motore di un grande complotto volto a chiudere dipartimenti di filologia e storia antica, magari per sostituirli con quelli sui gender studies sostenuti da femministe arrabbiate e gruppi marginalizzati. 

Aldo Cazzullo e i romani padroni del mondo 

Invece, ora arriva Aldo Cazzullo, con il suo Quando eravamo padroni del mondo. Un saggio di divulgazione storica che sta avendo un grande successo di pubblico, favorito certo anche dalla notorietà mediatica dell’autore, giornalista e personaggio televisivo assai noto. 

Cazzullo non ha alcun background specifico di studi classici. Ha alle spalle una carriera di cronista sportivo e poi di giornalista politico alla Stampa e poi al Corriere della Sera. Per carità, chi fa il divulgatore non è tenuto ad avere per forza una formazione specifica in una determinata epoca storica, e infatti persino Alberto Angela è laureato in Paleontologia e non in Archeologia, ma a una lettura del libro viene il sospetto che una maggiore padronanza della materia avrebbe giovato. 

Sì, certo, si tratta di un libro destinato a un grande pubblico non specialista, ma proprio per questo l’argomento avrebbe richiesto una trattazione più attenta per evitare alcuni scivoloni e alcuni veri e propri svarioni abbastanza imbarazzanti. Ma non è solo questo che lascia perplessi: gli errori e le sviste possono capitare. Quello che lascia invece interdetti è proprio l’impostazione – verrebbe da dire – “ideologica” del libro, che dimostra la più assoluta ignoranza del dibattito in corso e per giunta un appiattimento su posizioni e interpretazioni datate, superate e che sembrano spesso e volentieri strizzare l’occhio a un certo nazionalismo d’accatto che tanti danni ha già fatto in passato e che ora si riaffaccia in Europa e in Italia. 

Il titolo: saggio divulgativo o film da Istituto Luce? 

Diciamolo, già il titolo Quando eravamo padroni del mondo è nel migliore dei casi fastidioso, nel peggiore ridicolo. Il primo quesito che un lettore mediamente accorto si pone infatti è: “Eravamo chi?”. Chi è il “noi” del titolo? Gli italiani? Perché onestamente l’idea che noi italiani di oggi siamo i discendenti diretti e gli eredi di Roma antica è forse diffusa, ma è errata e puzza di nazionalismo ottocentesco, o di Ventennio mal digerito. 

Il nesso Roma di oggi - Roma antica era stato uno dei pilastri del Risorgimento. Gli italiani soggetti all’Austria dovevano liberarsi dal giogo straniero e riconquistare la loro autonomia perché eredi diretti degli antichi romani. Non a caso “l’elmo di Scipio”, ovvero di Scipione l’Africano, uno dei grandi condottieri della Res publica romana, è citato con tanta enfasi nel nostro inno nazionale da Goffredo Mameli. 

Ma se questo ingenuo richiamo alla grandezza di Roma come sprone per creare un nuovo Stato italiano unito poteva essere comprensibile, subito dopo la riunificazione e la nascita del Regno d’Italia il richiamo a Roma antica divenne molto meno naif. La presunta eredità romana venne usata scientemente per giustificare le imprese coloniali italiane e la sottomissione di altri popoli, la conquista di Libia e Cirenaica venne considerata lecita perché si trattava di riappropriarsi della famosa “quarta sponda” e di terre che avevano fatto parte dell’impero romano. Una visione diffusa persino in molti uomini di sinistra e socialisti, e appoggiata da intellettuali del calibro di Giovanni Pascoli. 

Benito Mussolini costruì poi gran parte della retorica del Fascismo sulla base dell'equivalenza fra l’Italia del Fascio e Impero Romano: la “sua” Italia era la diretta discendente dei romani antichi, da loro aveva ereditato la missione di conquistare e assoggettare il resto del mondo. Il Fascismo sponsorizzò scavi archeologici, ideò mostre, come la Mostra Augustea della Romanità del 1937-38, favorì archeologi e cattedratici conniventi che nei loro scritti - più tardi assai imbarazzanti da rileggere - osannarono questa idea. Sempre in epoca fascista ci fu la spinta sul mito del “genio italico” di cui Leonardo da Vinci era il massimo rappresentante. Fu proprio da una mostra, ideata alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel 1939, e poi fatta girare in numerosi Stati, tra cui il Giappone, che iniziò nel mondo contemporaneo il “mito” di Leonardo scienziato e artista poliedrico, precursore di tutte le grandi invenzioni moderne. Fino a quel momento, infatti, era considerato sì uno dei grandi del Rinascimento, ma non aveva goduto di questo enorme successo presso il grande pubblico. 

Per chi conosce tutto ciò, il titolo suscita brividi di disagio, se non peggio. Perché scegliere un titolo che non sfigurerebbe su un documentario dell’Istituto Luce di mussoliniana memoria? E soprattutto perché riecheggiare tesi superate e scientificamente opinabili, dato che a millenni di distanza sostenere che noi italiani siamo in qualche modo discendenti diretti degli antichi romani rappresenta un atto di fede o un'affermazione ingiustificata? 

L’introduzione di Cazzullo: storia romana per boomer

Proprio perché si presenta come un divulgatore colto, Cazzullo non può far finta di non conoscere e di non aver considerato le implicazioni della scelta di questo titolo. Infatti, nell’introduzione cerca - senza particolare successo - di smussare l’effetto. Ma, a dire il vero, è proprio l’introduzione la parte più problematica di questo libro, e quella più fastidiosamente urticante. Non solo perché funestata da una serie di affermazioni spericolate e da alcuni veri e propri svarioni, ma anche perché si sente questo continuo tentativo di gettare il sasso nascondendo la mano,  solleticando gli istinti peggiori del pubblico, mettendo ogni tanto qualche frase che dovrebbe smorzare i toni, ottenendo l’effetto opposto: 

“Roma non è mai caduta. 

L’impero romano non è mai caduto davvero, né mai cadrà. Ha continuato a vivere nelle menti, nelle parole, nei simboli degli imperi venuti dopo. 

Noi italiani non siamo i discendenti diretti degli antichi romani: ci siamo mescolati con molti altri popoli, dai barbari agli arabi. Ma dei romani possiamo rivendicare l’eredità. Non soltanto abitiamo la stessa terra, viviamo nelle città da loro fondate, percorriamo strade da loro tracciate; Roma vive nella nostra lingua, nei nostri palazzi, nei nostri pensieri. Nel nostro modo di parlare, di costruire, di pensare, qualcosa dell’antica Roma è rimasto. E se oggi siamo cristiani, è perché Roma diventò cristiana.” 

Seriamente una tirata nazionalista del genere può essere salvata in extremis da due righe del tipo: “Ci siamo mescolati con molti altri popoli, dai barbari agli arabi.”  – messe lì come un contentino? Persino il contentino contiene un errore: per i Romani, infatti, i barbari comprendevano tutte le popolazioni non romane, sia orientali che occidentali. Quindi, per loro, la distinzione fra “barbari” e “arabi” sarebbe totalmente incomprensibile. Anche perché molte popolazioni “arabe” facevano allegramente parte della cittadinanza romana, come dimostra il fatto che uno di loro, Filippo, divenne persino imperatore.

Ma andiamo avanti, perché non è nemmeno la parte peggiore. Sfugge, infatti, il punto centrale della logica cazzulliana: se Roma, come viene ribadito nel libro, ha ispirato tutti i sistemi politici successivi, perché solo noi italiani dovremmo considerarci in qualche modo gli eredi diretti dei Romani? È un interrogativo che non viene chiarito, anche se fra le righe si dovrebbe capire che gli eredi sono in realtà “gli occidentali” in generale, fra i quali vengono inseriti anche i russi della Terza Roma. Ma Cazzullo non esplicita mai questo passaggio: e c’è da capirlo, sia mai che qualche lettore italico lo capisca e si senta defraudato dell’idea di essere l’erede diretto ed esclusivo di Giulio Cesare. 

Il lettore ideale di Quando eravamo padroni del mondo, a questo punto, sembra definirsi come un generale Vannacci un pochino più ripulito, ma non particolarmente colto; se lo fosse, gli verrebbe un coccolone a leggere la pittoresca serie di svarioni che il resto dell’introduzione riserva. 

Gli svarioni 

Sarebbe lungo elencare tutti gli svarioni, perciò citeremo i più grossolani. 

“Ogni impero della storia si è creduto e si è presentato come l’erede dei romani. Bisanzio. Mosca: la “Terza Roma”. Il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. L’impero austroungarico e quello tedesco, che del Sacro Romano Impero si proclamarono continuatori. E poi l’impero britannico, che teneva l’India con un pugno di soldati quasi tutti indiani, così come Roma teneva a bada i barbari con eserciti composti e comandati da barbari, che spesso potevano mantenere il loro grido di guerra.” 

Tralasciando la cronologia discutibile (la Terza Roma russa viene dopo l’impero carolingio, dato che i primi accenni nella propaganda politica di Ivan il Grande sono del 1500), è curioso che Cazzullo citi come esempio l’esercito Indo-britannico. Curioso perché uno dei più grandi storici antichi del 1900, Roland Syme, neozelandese, imputava la breve durata dell’impero britannico proprio al non aver saputo imparare dai Romani: secondo lui gli inglesi non sarebbero stati in grado di integrare davvero e alla pari le popolazioni indigene nella classe dirigente dell’impero. 

Ma proseguiamo: 

“Napoleone adorava Cesare, scrisse un libro su di lui, e non volle farsi incoronare re dei francesi, bensì imperatore.” 

Che Napoleone fosse un ammiratore incondizionato di Cesare, di cui aveva tradotto persino le opere in gioventù quando frequentava il collegio militare, è vero, ma la formulazione della frase è infelice e non particolarmente corretta dal punto di vista storico. Il motivo per cui Napoleone infatti poté incoronarsi imperatore e non re dei francesi non è dovuto alla sua ammirazione per l’impero romano, o non solo. È che aveva conquistato l’Italia e la consuetudine medievale prevedeva che il titolo di rex Italorum  e il controllo del nord Italia fosse propedeutico al conseguimento del titolo imperiale. Napoleone infatti era divenuto re d’Italia nel 1805, e nel 1806 la Pace di Presburgo di fatto aveva tolto agli Asburgo la possibilità di chiamarsi sacri romani imperatori e li trasformava in semplici imperatori d’Austria.Ma il titolo di rex italorum o italiae come presupposto per cingere la corona imperiale è tradizione invalsa dai tempi di Ottone I. Quindi si tratta di una consuetudine medievale. Una sottigliezza, se si vuole, però fastidiosa in un libro storico.

Poche righe più avanti, invece leggiamo che: 

“Il calendario: in tutte le lingue dell’Occidente sono latini i nomi dei giorni (tranne il sabato, che viene dall’ebraico).” 

Seriamente è sfuggito che in inglese i nomi dei giorni della settimana prendono il nome dagli dei dei popoli germanici, come “Tuesday” da Tyr, “Wednesday” dal germanico Woden, “Thursday” da Thor? O che in tedesco Freitag viene dalla dea Freia? Se Cazzullo voleva dire che i nomi dei giorni in tutte le lingue d’Occidente riprendono spesso la nomenclatura romana sostituendo gli dei locali agli equivalenti latini, ecco, questo poteva passare. Così è proprio un errore. 

Ma le etimologie non sono il punto forte del libro. Infatti poco prima di questo passo Cazzullo scrive: 

“Anche la lingua della religione nasce nella città eterna. Fede, religione, pontefice sono parole latine. Come credere. Come dio (dal greco Zeus).” 

Qui intere schiere di filologi avranno avuto un improvviso mancamento: il latino deus infatti non deriva da Zeus. Entrambi i nomi hanno una radice indoeuropea comune, perché latino e greco sono due lingue che derivano da dialetti indoeuropei parlati dalla tribù che si stanziarono in Europa presumibilmente durante il Neolitico. La radice comune è *diw che significa “splendore” (Zeus è il dio del cielo) e che in sanscrito origina Dyaus e in latino darà origine anche a Iupiter (Dei Pater: padre della luce del giorno). In greco questa radice dà origine a Zeus-Diòs e in latino a divus, deus e dies (giorno). Ma Zeus e Deus hanno fra loro la stessa vicinanza che si può avere fra cugini di terzo grado che si incontrano una volta ogni dieci anni al funerale di qualche prozia comune. 

La vera chicca però si trova un paio di pagine dopo, in un passo sulle origini della democrazia: 

“Anche Repubblica è una parola latina. Come Costituzione. E a Roma nacque l’embrione di quella che oggi chiamiamo democrazia. È vero che le assemblee del popolo si riunivano già nell’antica Grecia. Ma soltanto Roma creò un sistema codificato e duraturo di elezioni, con i comizi, le campagne elettorali, le strette di mano dei candidati, le votazioni, le proclamazioni.” 

Certo, “repubblica” e “costituzione” sono parole derivanti dal latino. Ma in greco era già presente, e autorevoli studiosi di diritto lo confermano, la nozione di politeia, nel senso appunto di ordinamento giuridico di un territorio. 

Quanto alla frase successiva, e cioè che a Roma sarebbe nato l’embrione della democrazia, siamo di fronte a un fraintendimento totale di quanto affermato da secoli di studi. La democrazia (e lì davvero basta vedere da dove deriva il nome) è una invenzione greca, anzi nello specifico ateniese. Il primo sistema compiutamente democratico fu quello della Atene di Clistene (un lontano antenato di Pericle), che appunto inventò e fece adottare un sistema per cui le decisioni politiche venivano prese da un'assemblea di cittadini con il voto diretto e i magistrati potevano venire scelti fra tutti coloro che avevano la cittadinanza, senza differenziazioni per censo. 

La democrazia ateniese durò dal 508/507 a.C. (anno in cui si data appunto la riforma di Clistene) fino alla fine della Guerra del Peloponneso e alla istituzione del governo dei Trenta Tiranni (404 a.C.), In quella data gli Spartani, vincitori della guerra insediarono una commissione di politici filospartani che abolì le libertà in Atene e la trasformò per un breve periodo in una oligarchia. Il regime oligarchico rimase in piedi però un solo anno,e fu poi rovesciato da una sommossa popolare capeggiata da fuoriusciti democratici. I trenta vennero cacciati e in gran parte uccisi, anche se alcuni di loro si rifugiarono ad Eleusi, una cittadina a pochi chilometri da Atene, e diedero vita ad una effimera “repubblica”.

La guerra civile si trascinò fino al 400 a.C., quando ad Atene i democratici ripresero stabilmente il potere stroncando le ultime sacche di resistenza degli Oligarchi. 

Dal 404 all’età di Alessandro, Atene continuò a essere democratica, anche se il suo regime fu molto meno radicale di quello degli anni di Pericle. La cosiddetta “democrazia radicale ateniese" è appunto quella del periodo di Pericle e dei suoi immediati successori, e forse è questa che ha in mente Cazzullo. 

In effetti, in questo particolare periodo, le magistrature annuali di Atene non erano elettive, ma venivano attribuite con un'estrazione a sorte fra tutti gli appartenenti agli elenchi dei cittadini. Questa scelta era stata fatta per favorire i ceti medio-bassi, che non avrebbero potuto sostenere i costi di una campagna elettorale, e per far sì che i cittadini di ogni estrazione sociale partecipassero alla vita politica e facessero esperienza di cosa significasse gestire la macchina dello Stato.

Cazzullo sembra quindi confondere piani diversi. Infatti, nella democrazia ateniese, anche negli anni in cui era nella sua forma più radicale, le elezioni erano previste per talune cariche chiave dello Stato, come per esempio quella di stratego, ovvero di comandante delle forze armate. Gli strateghi venivano regolarmente eletti dall'assemblea, il loro mandato era chiaramente indicato e fissato, e non a caso i politici di rilievo di questo periodo, da Pericle a Cleone a Nicia, allo stesso Eratostene e persino allo storico Tucidide, erano stati eletti a questa carica, che assicurava per altro una grande influenza anche nella vita civile e in periodi di relativa pace o tregua. Tutti i magistrati in carica, inoltre, anche quelli eletti tramite il sorteggio, a fine mandato dovevano presentare resoconti precisi del loro operato e rischiavano, nel caso non fossero stati giudicati all’altezza o sospettati di malversazioni, di essere messi sotto processo e condannati. 

Insomma, l’idea di una Atene in cui non esistevano procedure codificate, elezioni, mandati fissati per legge e rendicontazioni finali è perlomeno bizzarra. 

Ma che regime statale hanno inventato i Romani? 

Ma allora cosa hanno inventato i Romani? In realtà gli antichisti a tutt’oggi non sono del tutto convinti che il sistema politico romano possa essere definito “democrazia”. Fu certamente una repubblica, ma le due cose, come sa chi ha una seppur basilare infarinatura di educazione civica, non sono completamente sovrapponibili. Quello romano fin dall’antichità appariva come un sistema “misto” di origine oligarchica, in cui all’inizio solo le famiglie del patriziato e poi una cerchia più ampia ma sempre piuttosto ristretta di gentes patrizie e plebee appartenenti alla nobilitas, hanno avuto accesso e hanno gestito il potere.

La classe dirigente romana era selezionata quasi sempre per cooptazione, e tentare la carriera politica a Roma richiedeva come condizione di base un notevole patrimonio personale (o un accesso al credito attraverso amicizie altolocate) che serviva per sostenere gli immensi costi di una elezione. E si parla di milioni di sesterzi, cifre che possono essere tranquillamente equiparate a quelle delle odierne campagne per le elezioni del Presidente USA. 

Gli ateniesi di epoca classica non avrebbero mai chiamato questa cosa “democrazia”, ma oligarchia, nel migliore dei casi. Polibio, greco di nascita ma entrato a far parte della cerchia degli Scipioni, sostenne che questo sistema “misto” romano era il migliore, ma non dimentichiamo che si trattava di un greco sovvenzionato da una famiglia romana che faceva parte della cerchia di potere al comando. 

Questo sistema misto è poi stato preso a modello dai Rivoluzionari americani e in parte da quelli francesi per le Costituzioni delle loro repubbliche. Ma quello romano rimase un sistema sostanzialmente oligarchico e plutocratico, in cui l’arrivo di homines novi è sempre stato in epoca repubblicana abbastanza contenuto. E comunque questi homines novi come Caio Mario, Marco Tullio Cicerone o Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno, erano ricchi sfondati. 

Anche l’affermazione secondo cui i Romani avrebbero inventato questo sistema è abbastanza spericolata. Il sistema per cui si passa da un regime monarchico a un regime repubblicano in cui una assemblea di notabili detiene il potere e i magistrati vengono eletti annualmente era comune a tutte le poleis greche (anche a Sparta, per dire, che formalmente aveva due re ma poi il potere era di fatto gestito dalla gherusia, l’assemblea degli anziani, e dagli efori, i magistrati eletti), ma anche nelle città etrusche e italiche a partire almeno dal IV secolo a.C. Alla trasformazione di queste città da monarchie in Stati repubblicani, già Santo Mazzarino aveva dedicato un fondamentale saggio nel 1949, intitolato appunto Dalla monarchia allo Stato repubblicano. Quindi non è proprio una clamorosa novità dell’ultima ora, sfuggita a Cazzullo perché troppo recente. 

Un libro che fa dire “boh”

Ora la cosa interessante è che questa serie di pesanti svarioni è contenuta quasi interamente nelle poche pagine dell’introduzione. Il resto del libro è un pochino meno scorretto dal punto di vista dei dati storici: le tirate “ideologiche” si diradano, anche se resta un sotteso tono trionfalistico che talvolta regala altre pittoresche affermazioni piene di entusiasmo nazionalista. Come quando, a proposito dell’Eneide, possiamo leggere:

Non a caso è l’unica opera dell’epoca classica che, da quando è stata scritta, non ha mai smesso di essere riletta e commentata.

Certo, infatti è noto che tutte le altre opere classiche, come per esempio Iliade ed Odissea, non sono state più studiate dopo la fine del mondo classico, né venivano chiosate nelle università bizantine e persino nei centri di cultura islamici. O, per restare in Occidente, è noto che nel Medioevo negli scriptoria non si studiassero, copiassero e commentassero in continuazione Livio, Cicerone, Quintiliano e persino scrittori oggi considerati minori come Stazio, Floro o Orosio, che hanno continuato a venire letti poi fino ad oggi.

Anche l’entusiasmo verso la religione monoteista sembra un po’ troppo effervescente, e porta ad affermazioni spericolate: 

Roma resterà politeista per mille anni dopo Romolo. Le persone colte di solito credevano in un unico dio; o non credevano in nessuno.

Sfugge quale sia la fonte di questa ipotesi, ma per quanto ne sappiamo, per un Cesare epicureo e quindi probabilmente ateo, c’erano intere schiere di senatori e imperatori convinti dell'esistenza di entità divine plurime, da Cicerone a Giuliano fino ai Simmaci del periodo tardo antico. E sarebbe ben difficile etichettarli come “persone non colte”.

Altro singolare punto di vista è quello secondo cui lo stile di Giulio Cesare come autore letterario dipenderebbe dalle sue frequentazioni con la plebe, durante la fanciullezza:

Il fatto di appartenere alla nobiltà, ma di essere nato nel ventre di Roma, fu dall’inizio un vantaggio: sapeva ascoltare, tanto da raccogliere le espressioni popolari che sentiva nelle strade e trascriverle in versi.

Ora, onestamente Cesare di versi ne ha scritti ben pochi, salvo alcuni tentativi di poemi e tragedie quando era molto giovane, e che per altro non ci sono nemmeno pervenuti integri. Ma nelle sue opere più famose le espressioni “prese dalla strada”, come lascia intendere Cazzullo, sono quasi inesistenti. Cesare scrive sì in maniera “semplice”, nel senso che usa una costruzione della frase sintetica e diretta, ma non è assolutamente “popolare” nella scelta dei termini o sciatto nella sintassi. È semmai, al contrario, molto elegante e raffinato come un gran signore, proprio perché la semplicità era una consapevole scelta stilistica letteraria colta, in diretta polemica con la scuola retorica asiana, di cui erano stati campioni Ortensio Ortalo e per certi versi Cicerone stesso, i suoi avversari del partito degli Optimates.

Si potrebbe continuare, ma fermiamoci pure qua. Il libro è in buona sostanza una carrellata piuttosto frettolosa di secoli di storia romana, una sorta di enorme cavalcata che assembla aneddoti su condottieri e imperatori con il ritmo di una lista della spesa e la vivacità di una pagina di Wikipedia, ma un grado di approfondimento talvolta minore, che fa sembrare le cronache compilatorie medievali dei capolavori di stile originale. 

Il buon divulgatore, siamo d’accordo, semplifica per aumentare la base di ascolto, ma ha il dovere di aggiornarsi. Invece in Quando eravamo padroni del mondo abbiamo il solito Tiberio frustrato perché Augusto non lo ama, Caligola fuori controllo e poi, con un salto temporale enorme si va a Commodo e Costantino: evidentemente perché bisogna arrivare al cristianesimo che, abbiamo capito dall’introduzione, è il vero core business del successo di Roma. 

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Qui Cazzullo riprende in pieno dalle fonti le leggende sulla conversione al cristianesimo dell’imperatore, e riesce a essere così confuso nel raccontarle che il pubblico meno accorto rischia di pensare, a un certo punto, che la Donazione di Costantino non sia un falso storico. La faccenda, infatti, viene spiegata in modo così contorto e poco lineare che perdersi è un attimo. 

Certo, si dirà, è divulgazione per i non specialisti. Però anche qui ci sarebbe molto da ridire, perché Cazzullo sceglie sempre di proporre versioni e interpretazioni di personaggi ed eventi stereotipate, e in taluni casi ormai ampiamente superate da decenni. Da questo punto di vista, il principale difetto di Quando eravamo padroni del mondo non è l’abbondanza di errori, e quindi la sciatteria: è dannoso perché rimette in circolo stereotipi e interpretazioni superate. Non fa un buon servizio né alla Storia romana (che di sicuro sopravviverà al contraccolpo) né al pubblico che dovrebbe raggiungere, o addirittura creare. 

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