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Afghanistan, il ritiro dell’Occidente e la resistenza dei civili contro l’avanzata dei talebani

24 Luglio 2021 13 min lettura

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Afghanistan, il ritiro dell’Occidente e la resistenza dei civili contro l’avanzata dei talebani

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Afghanistan: i talebani prendono anche la capitale Kabul. Nel giro di 10 giorni cambiata la storia di 20 anni di guerra

Aggiornamento 16 agosto 2021: Ieri mattina i talebani hanno preso anche la capitale dell’Afghanistan, Kabul, l’unica città importante ancora non caduta nelle mani degli “studenti”, che tutto hanno, meno delle persone che passano le giornate a studiare sui libri. Nel giro di 10 giorni – scrive Barbara Schiavulli su Radio Bullets – hanno cambiato la storia di 20 anni di guerra, prendendosi tutto quello che neanche quando controllavano il paese negli anni ’90 avevano, come il nord, come parte del Panshir e Bamyan.

"Sono arrivati senza colpo ferire, poi hanno subito parlato ad Al Jazeera, la tv del Qatar dove hanno il loro ufficio politico e dove sono in corso consultazioni tra talebani e governo afgano.

Sono stati momenti frenetici: il traffico impazzito nella capitale, le gente che assalta le banche, il fumo che sale dall’ambasciata americana dove stavano bruciando i documenti mentre gli elicotteri andavano avanti e indietro per evacuare le persone. Inglesi, italiani, canadesi, tedeschi, tutti in fuga, tutti presi dalla frenesia di fuggire senza guardare indietro un paese che per 20 anni ha creduto che niente di quello che sta accadendo in queste ore, sarebbe potuto succedere. Le donne si sono nascoste. Il presidente Ghani è andato via.

Così si è conclusa la missione americana che tanto, ha specificato il presidente Biden, non era per costruire un paese ma per liberarsi dei terroristi. Missione incompiuta. Ora quelli che fino a ieri chiamavano tutti i terroristi talebani si fanno i selfie in piazza, entrano alla guida dei mezzi sequestrati all’esercito afgano, dettano le regole del nuovo scacchiere geopolitico. (...)

L’Afghanistan non è stato riconquistato dai talebani perché sono forti, ma perché alle spalle avevano la regia dei servizi segreti pakistani e perché la corruzione e la competenza all’interno dell’amministrazione afgana a tutti livelli, ma soprattutto quelle della leadership è stato come un esercito di tarli che ha rosicato tutto".

Il momento della verità è arrivato. È quanto ha spiegato mercoledì Mark Milley, capo dello stato maggiore congiunto delle forze armate statunitensi. Il momento in cui volontà e leadership del popolo, delle forze di sicurezza e del governo dell'Afghanistan saranno messe alla prova dai combattenti talebani che ormai detengono il controllo di 212 distretti, più della metà di quelli del paese (419), e che stanno puntando a isolare Kabul e i centri abitati mettendo pressione su 17 dei 35 capoluoghi di provincia.

Leggi anche >> “Afghanistan, i colloqui di pace tra governo e talebani non fermano la strage di civili. Oltre 3mila bambini uccisi solo nel 2019”

Tutto lascia presumere che si assisterà a un aumento dei combattimenti nelle prossime settimane dopo che ieri si è conclusa la festività di Eid al-Adha (Festa del Sacrificio) cominciata con l'esplosione di tre razzi nei pressi del palazzo presidenziale di Kabul durante la cerimonia di preghiera. L'attentato è stato poi rivendicato dall'Isis con una dichiarazione diffusa su Telegram.

L'ennesimo tentativo di raggiungere un cessate il fuoco lo scorso fine settimana, a Doha, non è andato a buon fine. La speranza che in prossimità della Festa del Sacrificio, come già accaduto in passato, i talebani accettassero di deporre le armi inviando un segnale di distensione e di pace non ha avuto seguito.

«Le due parti hanno stabilito di continuare i negoziati fino al raggiungimento di un accordo. A tal fine si incontreranno di nuovo la prossima settimana», ha dichiarato Mutlaq al-Qahtani, inviato speciale del Qatar per la lotta al terrorismo e la risoluzione dei conflitti.

Neanche il successivo invito a fermare l'offensiva militare inviato da quindici missioni diplomatiche (Australia, Canada, Repubblica Ceca, Corea, Danimarca, delegazione dell'Unione Europea, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti) insieme al rappresentante della NATO a Kabul è servito a dissuadere le forze talebane.

“L'offensiva dei talebani è in netta contraddizione con la pretesa di sostenere un accordo di pace”, si legge nell'appello congiunto che non ha mancato di condannare le violazioni dei diritti umani e la chiusura di scuole e redazioni dei media nelle aree recentemente conquistate dai talebani.

Entro il 31 agosto dovrebbe concludersi il ritiro delle truppe USA e della NATO.

Dall'inizio della invasione americana sono gli afghani ad aver pagato il prezzo più alto con la morte di  47.245 civili, secondo i dati forniti dal Cost of War project della Brown University di Rhode Island. Sebbene il governo afghano non diffonda informazioni sul numero delle vittime tra i militari Costs of War stima che la guerra abbia ucciso dai 66.000 ai 69.000 soldati.

La guerra ha costretto 2,7 milioni di afghani a fuggire all'estero, principalmente in Iran, Pakistan e in Europa, in base a quanto dichiarato dalle Nazioni Unite, come riportato da Associated Press. Altri 4 milioni sono sfollati all'interno del paese che ha una popolazione totale di 36 milioni.

Nello stesso periodo sono 2.442 soldati statunitensi ad essere stati uccisi e 20.666 quelli feriti, secondo il Dipartimento della Difesa americano.

Nel conflitto hanno inoltre perso la vita 1.144 membri del personale della coalizione NATO di 40 nazioni presenti sul territorio.

Per il presidente Joe Biden entrambi gli obiettivi prefissati dall'intervento militare sono stati raggiunti: sgominare al-Qaeda e prevenire altre aggressioni agli Stati Uniti. La conclusione delle operazioni avverrà in anticipo rispetto al termine previsto dell'11 settembre, giorno in cui ricorrerà il 20esimo anniversario degli attacchi dell'organizzazione terroristica che hanno provocato l'occupazione americana dell'Afghanistan. Ma la realtà è più complicata, sottolinea l'Economist: al-Qaeda, che ha scatenato l'11/9, sebbene sia fortemente ridimensionata, non è stata del tutto eliminata e altri gruppi terroristici, incluso un ramo dello Stato Islamico, continuano ad operare in Afghanistan, per non parlare dei Talebani che sono tornati ad occupare gran parte del paese e il governo filo-occidentale corrotto e in costante ritirata.

Nel paese rimarranno soltanto 650 militari statunitensi a protezione della presenza diplomatica a Kabul e dell'aeroporto. Gli Stati Uniti hanno chiesto alla Turchia di iniziare ad assumersi la responsabilità della sicurezza dello scalo internazionale.

Le forze statunitensi hanno dichiarato di poter contare su un appoggio già operativo in Qatar che consentirà la possibilità di attaccare, se necessario.

Ed è proprio in cambio dell'uscita delle forze straniere dal paese che i talebani hanno accettato di tenere colloqui di pace con il governo, al fine di raggiungere un accordo politico che possa portare alla stabilità a lungo termine per il paese devastato dalla guerra.

Ma attualmente ciò che accadrà in futuro è imprevedibile.

«C'è la possibilità di una soluzione negoziata. C'è la possibilità di un controllo totale dei talebani. C'è la possibilità di vari altri scenari: suddivisioni, controllo da parte dei signori della guerra", ha proseguito il generale Milley.

Intanto in risposta alle forze talebane quelle governative afghane stanno provando a consolidare le proprie posizioni puntando sull'approvvigionamento di mezzi militari da parte degli americani che hanno garantito l'ammodernamento della flotta aerea.

Ad affiancare le truppe governative i civili delle milizie che hanno imbracciato le armi.

Omid Wahidi è nato dopo l'invasione degli Stati Uniti nel 2001. Ha vissuto per la maggior parte un'infanzia pacifica. La sua era una famiglia di coltivatori.

Oggi Wahidi va in giro con un Kalashnikov che probabilmente ha il doppio della sua età. Qualche settimana fa ha premuto il grilletto per la prima volta nel corso di alcuni scontri.

«Non immaginavo che avrei dovuto combattere», ha detto al New York Times.

Wahidi è uno delle centinaia di volontari che stanno combattendo a Mazar-i-Sharif, la quarta più grande città afghana situata quasi al confine con l'Uzbekistan. Lo fa, come tutti, per proteggere la propria case e, consapevolmente o meno, gli interessi commerciali dei signori della guerra e dei mediatori del potere.

Le milizie che si sono formate alla periferia di Mazar-i-Sharif e in altri luoghi nel nord del paese negli ultimi due mesi si sono disposte in una sorta di cintura difensiva, ad integrazione delle forze governative che non si sono ritirate o si sono arrese.

La formazione di queste truppe non è una novità. Diversi sono i nomi attribuiti negli ultimi venti anni: polizia locale, esercito territoriale, forze di rivolta popolare, milizie filo-governative e così via.
«Spero che la pace arrivi in Afghanistan», ha detto Wahidi prima di salire sulla sua moto, sulla quale ha issato una bandiera afghana, e incontrarsi con il resto della milizia di cui fa parte.

Nella periferia di Mazar-i-Sharif le forze locali hanno reclutato anche giovani della comunità hazara che operano senza l'approvazione del governo. Spesso non sono pagati, a volte gli viene chiesto di difendere gli avamposti.

Musa Khan Shujayee, 34 anni, è il comandante di un piccolo avamposto presidiato insieme a un gruppo di parenti con nessuna esperienza militare. Tra loro c'è anche un giovanissimo combattente con non più di 15 anni.

Se i talebani non avessero attaccato la periferia di Mazar-i-Sharif alla fine del mese scorso, Shujayee si sarebbe occupato del suo piccolo negozio in città.

«Come posso continuare il mio lavoro senza che ci sia sicurezza?» si chiede.

Come Shujayee e Wahidi molti residenti di Mazar-i-Sharif e delle periferie sono stati travolti dalla ferocia della guerra. Si va al fronte per difendere la propria abitazione e le proprie famiglie dai talebani.

«Dove vanno i talebani portano distruzione. Ormai sono a un chilometro dal mio distretto», aveva detto al Guardian all'inizio del mese di luglio Haji Ghoulam Farouq Siawshani, un ex commerciante di petrolio nominato comandante di una milizia. «Così abbiamo deciso di rispondere».

Siawshani è a capo di alcune decine di uomini armati di vecchi Kalashnikov, nel distretto di Gozara, poco a sud di Herat, al confine occidentale con l'Iran, dove per vent'anni le truppe italiane hanno operato in una base aerea prima di rientrare alla fine del mese di giugno.

Con la partenza dei contingenti stranieri, che per alcuni ha rappresentato un vero e proprio tradimento, per molti cittadini afghani schierarsi in prima linea è l'unica scelta possibile.

«Siamo stati traditi dagli americani» dice Jawad, un altro comandante della milizia che fino a qualche tempo fa lavorava come meccanico. «Siamo pronti ad un progressivo peggioramento della situazione».

Prima di congedarsi dall'Afghanistan anche il capo delle forze statunitensi incaricato di porre fine alla guerra più lunga degli Stati Uniti, il generale Austin S. Miller, ha ammesso che avrebbe lasciato un paese sull'orlo del baratro.

«Una guerra civile è certamente una strada possibile se si andrà avanti così ed è uno scenario che dovrebbe preoccupare tutto il mondo», aveva dichiarato ai giornalisti in una conferenza stampa nel quartier generale della Nato a Kabul.

Se a parole il presidente Biden ha promesso al suo omologo afghano, Ashraf Ghani, un supporto costante per la sicurezza del paese, dall'altro gli afghani temono di essere stati lasciati soli.

«I talebani hanno lanciato un attacco alle 22.00 e abbiamo resistito fino alle 6.00. Abbiamo chiamato i nostri comandanti, abbiamo chiamato Kabul, abbiamo chiamato il governatore di Herat chiedendo supporto aereo, ma non è arrivato nessuno», aveva raccontato al Guardian nei primi giorni di luglio un combattente che ha voluto mantenere l'anonimato per paura di ritorsioni e che ha raccontato l'assedio del distretto di Obe prima che cadesse in mano ai talebani.

«La mattina abbiamo richiamato per dire che non avevamo più bisogno di attacchi aerei, ma solo di aiuto per raccogliere i morti e soccorrere i feriti e anche in quel caso non è arrivato nessuno», ha aggiunto.

In un Afghanistan senza conflitti, quello che un tempo gli Stati Uniti dicevano di voler contribuire a costruire, i giovani immaginavano di poter finalmente vivere un futuro diverso.

Salim Shah si è diplomato al liceo lo scorso anno e avrebbe voluto frequentare la facoltà di legge. Come Jawad, che ha rinunciato al suo lavoro di meccanico senza sapere come manterrà i suoi due figli, Shah ha messo la lotta per il suo paese al primo posto per difendere la famiglia e la sua terra.

Se per Shaw e Jawad si tratta della prima volta, molti di coloro che guidano le milizie hanno già vissuto un'esperienza analoga. Siawshani aveva già conosciuto le armi negli anni '80 combattendo al fianco dei Mujaheddin contro l'esercito sovietico.

Oggi, tra i suoi luogotenenti, c'è Rahmatullah Afzali, un generale in pensione che ha trascorso più di trent'anni nell'esercito governativo combattuto da Siawshani. I due uomini, adesso, si trovano dalla stessa parte della barricata, contro un nemico comune.

«Quando lui faceva parte della jihad, io combattevo per [l'allora presidente] Najibullah. Oggi i talebani ci hanno uniti», dice Afzali sorridendo.

«Ho combattuto in tutto il paese, sono stato ferito diciassette volte e non mi sono mai sentito sotto pressione come negli ultimi quattro mesi, da quando Biden ha detto che stava per consegnare l'Afghanistan ai talebani».

Qualche giorno dopo l'intervista al Guardian, Gozara – dove sono state raccolte le testimonianze – e Injil, un altro distretto della provincia occidentale di Herat, sono state conquistate dai talebani.

Sei anni fa, dopo essersi congedato come agente di polizia, Mohaydin Siddiqi, 37 anni, è tornato ad occuparsi della sua fattoria dove coltiva grano e cotone nel distretto di Dehdadi, un'importante striscia di territorio rurale nel nord del paese.

A metà luglio l'uomo è tornato per la prima volta nella stazione di polizia del suo distretto per registrarsi come combattente.

«Non pensavo che avrei dovuto riprendere in mano una pistola», ha raccontato, circondato da un gruppo di uomini e ragazzi che avevano lasciato il suo stesso villaggio per unirsi alle milizie.

Qualche giorno prima erano arrivate le armi, apparentemente con l'approvazione del governo, che sono state distribuite insieme a munizioni sufficienti per difendersi.

I talebani sono entrati nel villaggio di Siddiqi il mese scorso. Dopo qualche giorno sono riusciti a conquistarlo. La famiglia dell'ex agente di polizia si trova ancora lì, sotto il regime che impedisce alle donne di uscire di casa se non accompagnate da un familiare.

Le milizie sono sostenute dalle autorità del paese e da mediatori locali che forniscono armi e munizioni per cercare di difendere le aree tuttora sotto il controllo del governo.

A Herat, Ismail Khan, uno dei signori della guerra, ex-mujaheddin ed ex governatore della provincia, ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori per schierare unità armate che proteggano le zone strategiche della città e dei suoi dintorni. Khan, che ha circa settant'anni, ha invitato tutti gli uomini armati della città a unirsi alla lotta e ha promesso di prendere parte ai combattimenti.

Come Khan, altri signori della guerra in diverse zone dell'Afghanistan hanno lanciato l'allarme affinché gli ex-mujaheddin si mobilitino per contrastare l'avanzata talebana.

«In questo momento abbiamo un nemico comune», ha detto Atta Muhammad Noor, ex governatore della provincia di Balkh e capo del partito Jamiat-e-Islami, in una recente intervista rilasciata al New York Times.

Durante la guerra civile Noor era un signore della guerra. È poi diventato governatore di Balkh poco dopo l'invasione degli Stati Uniti nel 2001. Rimosso dalla carica dal presidente Ashraf Ghani nel 2018 con l'offensiva dei talebani la sua popolarità è nuovamente in ascesa. All'inizio di questa settimana ha incontrato il presidente Ghani nonostante i rapporti tra i due siano tesi.

Per Noor le forze di sicurezza governative hanno fallito. Le nuove milizie possono dare nuova linfa perché dispongono di risorse proprie: cibo, denaro e, soprattutto, persone.

Il generale Mohammed Amin Dara-e-Sufi, è un membro del consiglio provinciale di Balkh e comandante della milizia che fa capo ad Abbas Ibrahimzada, un influente uomo d'affari e politico di Mazar.

Ibrahimzada sostiene ed equipaggia le milizie. Nessuno conosce la provenienza delle armi e delle munizioni che distribuisce.

Dara-e-Sufi, 55 anni, ha combattuto l'esercito sovietico negli anni '80 e i talebani negli anni '90. Nel 2003 ha consegnato il suo fucile quando le milizie si sono disarmate.

«Eravamo stanchi della guerra», ha detto ricordando i giorni successivi alla caduta del regime dei talebani. «Pensavamo che la situazione fosse cambiata, così ho avviato un'attività».

Da qualche giorno Dara-e-Sufi è in possesso di nuovo di un'arma: un Kalashnikov che tiene sotto il letto.

La velocità con la quale negli ultimi giorni sono stati presi d'assalto alcuni distretti ha alimentato i timori che il governo di Kabul possa cadere entro pochi mesi.

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Abdullah Abdullah, capo dell'Alto consiglio per la riconciliazione nazionale dell'Afghanistan (HCNR) ha ammesso che mentre in circostanze normali la mobilitazione di milizie “non rappresenterebbe l'opzione migliore”, in questo momento diventa vitale non solo per arginare la presa di potere talebana ma per far sì che di fronte all'opposizione armata il gruppo si segga al tavolo dei negoziati ormai in stallo da mesi.

Ciononostante il timore che affidarsi alle milizie e a chi le rifornisce possa compromettere la stabilità del governo e la sua tenuta è molto alto.

Ma è un rischio che, in un modo o in un altro, in questo momento non può essere evitato.

Foto in anteprima: New Zealand Defence Force from Wellington, Wikimedia Commons CC BY 2.0 via People Dispatch

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