COP30 e crisi climatica: la vittoria del multilateralismo che piace a Trump
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L’accordo di Parigi del 2015 è stato a un passo dal fallimento ma alla fine, in extremis, con oltre 24 ore di ritardo, è stato trovato un compromesso su un testo che quanto meno tiene una finestra ancora aperta per provare a colmare il divario tra le politiche attuali e quelle necessarie per limitare l’aumento delle temperature di 1,5°C dall’età pre-industriale.
Sebbene la Mutirão Decision, il testo finale della COP30, non citi esplicitamente i combustibili fossili e non accolga l’appello del Presidente Lula e di oltre 80 paesi per una tabella di marcia su fossili e deforestazione, Belém mostra almeno che l’urgenza dell’azione è condivisa da un numero crescente di governi, città, imprese e comunità, osserva Ecco Think Tank.
“La COP30 non chiude il divario di ambizione, evidenziato dall’insufficienza dei Piani nazionali di riduzione delle emissioni. Si rafforza però la volontà politica di molti paesi di continuare a lavorare su percorsi paralleli, multilaterali e regionali, per avanzare con decisione nella transizione dai combustibili fossili, indipendentemente dai limiti del sistema negoziale delle Nazioni Unite”, prosegue l’analisi di Ecco. “L'avvio di nuovi processi per accelerare la transizione energetica, come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5, offrono strumenti concreti per permettere ai paesi di collaborare, ciascuno con i propri percorsi, per avanzare nella definizione del ‘come’ uscire dai combustibili fossili”.
Il risultato finale resta insufficiente: come detto, pochi progressi per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C; carenti i finanziamenti necessari per l'adattamento dei paesi più colpiti da condizioni meteorologiche estreme, per quanto siano stati presi impegni “per rendere la finanza climatica più prevedibile, accessibile e commisurata ai bisogni dei paesi vulnerabili”; appena menzionata l'importanza della protezione della foresta pluviale.
Ma il vero sconfitto di questa COP è il multilateralismo. O almeno, resta in piedi “il multilateralismo nella versione sognata da Trump”, che su più tavoli sta smantellando la diplomazia internazionale, così come l’abbiamo conosciuta dal secondo dopoguerra all’altro ieri: “Debole, cerimoniale, paralizzato, incapace di funzionare così come di fallire, cristallizzato nell'autoreferenzialità, un'astronave che si è dimenticata del pianeta Terra di cui doveva occuparsi”, commenta il giornalista Ferdinando Cotugno in un post su Facebook:
“È stata la COP della verità e allora diciamocela, la verità: (...) è appena finita e no, non è vero che il compromesso è al ribasso ma almeno il multilateralismo è salvo. Non c'è stato compromesso, solo l'omertà fossile da cui la lotta alla crisi climatica non riesce a liberarsi. Due settimane a valutare come avrebbe funzionato la roadmap di uscita dalle fonti fossili, e poi è sparita, perché è sempre più facile far fallire questo negoziato, tenendolo in vita solo per fargli rimettere l'abito buono nel prossimo paese e ricominciare il ciclo”.
Non c’è nessuno sospiro di sollievo da tirare, prosegue Cotugno: “Chi crede alla collaborazione multilaterale deve dirsi la verità, le COP hanno funzionato e poi hanno smesso, come smettono di funzionare le organizzazioni, non di botto ma per segnali incrementali, per sintomi via via più gravi”.
È stata una COP specchio dei tempi che stiamo vivendo, segnata dal vuoto di leadership globale, da conflitti che stanno prosciugando denaro e attenzione, dall’assenza della copertura mediatica. Il cambiamento climatico non esiste perché è stato messo sotto il tappeto dell’agenda di politica e media mentre si consuma il disfacimento e la centralità di istituzioni sovranazionali, come le Nazioni Unite.
Qualsiasi giudizio sulla COP30 “deve tenere conto del campo minato geopolitico in cui si sono svolti questi colloqui”, spiega il giornalista del Guardian Jonathan Watts. Sono almeno cinque le minacce che incombono sul prossimo vertice sul clima in Turchia.
Vuoto di leadership globale
Gli Stati Uniti si sono ritirati. La Cina non è riuscita a farsi avanti. Molti dei problemi che hanno afflitto i negoziati avrebbero potuto essere evitati se queste due superpotenze climatiche – il più grande emettitore storico del mondo e il più grande emettitore attuale del mondo – fossero state in grado di coordinare un approccio condiviso come facevano prima che Donald Trump salisse al potere.
Invece, Trump ha attaccato la scienza del clima, ha delegittimato l'ONU e ha organizzato un vertice a Washington con il principe ereditario dell'Arabia Saudita, Mohammed bin Salman. Non c'è da stupirsi che Riyadh si sia sentita incoraggiata alla COP30 a ostacolare qualsiasi riferimento ai combustibili fossili.
La Cina, al contrario, era presente a Belém e intenzionata ad aiutare il suo partner BRICS, il Brasile, a organizzare una conferenza di successo. Ma i suoi consiglieri hanno chiarito che Pechino non voleva sostituirsi agli Stati Uniti in materia di finanziamenti, né assumere la leadership su questioni che andassero oltre la produzione e la vendita di prodotti legati alle energie rinnovabili.
Un mondo diviso
Una delle fratture chiave nella politica globale odierna è quella tra gli interessi dell'estrazione e quelli della conservazione. Da un lato, si vuole espandere all'infinito le frontiere agricole, scavare sempre più in profondità alla ricerca di minerali e ignorare il prezzo da pagare per le foreste e gli oceani. Dall'altro, si sostiene che tali attività stanno superando i limiti del pianeta con conseguenze sempre più catastrofiche per il clima, la natura e la salute umana. Questa divisione è evidente in tutto il mondo.
Proprio il paese organizzatore, il Brasile, è stato il simbolo di questa divisione: mentre il ministro dell'ambiente, Marina Silva, si spendeva per l’abbandono dei combustibili fossili e della deforestazione, il ministero degli esteri – che da decenni promuove l'agroindustria e le esportazioni di petrolio – era molto più titubante.
La timidezza dell’Europa mentre cresce l’estrema destra
L'Europa si è spesso presentata come leader nell'azione per il clima, ma questa volta la sua azione è stata molto più timida, in parte a causa dell'ascesa dell'estrema destra in molti paesi. L’UE ha dovuto ritardare il suo piano climatico aggiornato di contribuzione determinata a livello nazionale (NDC) e solo a metà della conferenza di Belém ha deciso che avrebbe fatto della roadmap per la transizione dai combustibili fossili una delle sue “linee rosse” negoziali. “Si è trattato di una mossa quantomeno incompetente, perché questioni così importanti richiedono un coordinamento molto più avanzato”, osserva Watts.
L’ombra delle guerre e l’assenza dei media
I conflitti a Gaza, in Ucraina, in Sudan e altrove hanno spostato le priorità delle risorse governative e della copertura mediatica. In molti paesi è sempre più difficile per l'opinione pubblica sapere cosa sta succedendo nei negoziati sul clima. Nessuna delle quattro principali reti televisive statunitensi ha inviato una troupe a Belém. Erano presenti giornalisti delle emittenti britanniche ed europee, ma molti hanno affermato che era difficile trovare spazio nei programmi di informazione per i loro contenuti.
Un processo decisionale globale arrugginito
L'ONU, che compirà 80 anni il prossimo anno, sta mostrando i segni del tempo. Il processo decisionale basato sul consenso alla COP significa che ogni paese ha diritto di veto. “Questo poteva avere senso quando la politica della guerra fredda era una priorità globale, ma ora che l'umanità deve affrontare una minaccia esistenziale al proprio pianeta, è inadeguato”, osserva Watts.
E così alcuni paesi stanno decidendo di agire parallelamente. Decine di paesi che spingevano per una transizione ecologica più ambiziosa, guidati dalla Colombia, hanno annunciato piani per avviare un processo parallelo sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili, che avrà una prima conferenza a Santa Marta, in Colombia, il prossimo aprile. Gli organizzatori affermano che l'iniziativa vuole integrare piuttosto che sostituire il processo delle Nazioni Unite, ma potrebbe anche ampliare il divario tra i principali produttori di combustibili fossili e i sostenitori delle energie rinnovabili.
A livello politico, questa azione potrebbe portare a una rottura inevitabile, ma l'economia globale si sta orientando sempre più verso l'energia rinnovabile, che ora è più economica dei combustibili fossili. Nel frattempo, alla base di tutto la crisi climatica c’è, inesorabile. È una realtà che dovrà essere riconosciuta da un sistema di governance globale rinnovato e più dinamico. Ma questo lo sappiamo e lo diciamo ormai da anni.
Immagine in anteprima: Raimundo Pacco/COP30







