La guerra in Iran e il paradosso russo: essere ovunque senza poter contare davvero da nessuna parte
6 min letturaL’aggressione militare israeliana all’Iran mette il Cremlino, ancora una volta, di fronte all’estrema complessità dello scacchiere mediorientale e al rapporto tra tattica e strategia: non siamo nella Guerra Fredda, Mosca è impegnata nella guerra all’Ucraina e i rapporti con l’establishment israeliano continuano a essere buoni, così come con Teheran. La situazione attuale rivela tutte le contraddizioni di una strategia estera russa che negli ultimi anni ha cercato di destreggiarsi tra alleanze di convenienza, rapporti personali privilegiati e calcoli geopolitici a breve termine, in nome di una crociata declinata in più modi e agitata con particolare spavalderia.
Le relazioni tra Russia e Iran, spesso descritte come un'alleanza strategica e formalizzate nel Trattato di partenariato strategico del gennaio 2025, sono in realtà molto più all’insegna del pragmatismo e degli interessi reciproci in chiave antiamericana. È una partnership di necessità, nata dalle circostanze: entrambi i paesi affrontano l’esperienza delle sanzioni occidentali e dei tentativi occidentali d’isolamento e scommettono nel multipolarismo, presentato come un'alternativa all'egemonia americana. Quando la Russia ha avuto bisogno di droni da combattimento per l'Ucraina, l'Iran ha fornito i suoi Shaheed non per solidarietà rivoluzionaria o ideologica, ma per ragioni ben più prosaiche: commerciali, militari (la possibilità di testare i droni in campo di battaglia) e inoltre poter dimostrare di esser in grado di sfidare l’Occidente anche sul campo tecnologico.
Ma vi sono contraddizioni, evidenti già prima dell’attacco israeliano: la Russia mantiene rapporti con Israele che sono tutto fuorché ostili, anzi rappresentano una delle ultime relazioni non compromesse con un paese del campo occidentale, e la freddezza del governo Netanyahu nei confronti di Kyiv è nota, non ultima la secca smentita di una notizia apparsa qualche settimana fa su possibili forniture di sistemi di difesa contraerea.
Vi è un’ammirazione trasversale per Israele e la sua capacità di usare la forza militare senza farsi condizionare dall'opinione pubblica internazionale, ribadita addirittura dal noto scrittore e ideologo d’estrema destra Aleksandr Prokhanov, che in un proprio intervento ha invitato l’FSB a prendere esempio dall’efficienza del Mossad; nemmeno la divisione tra sostenitori e oppositori di Putin riesce a scalfire questo consenso nei confronti di un paese dove circa il 15% della popolazione è russofona e proviene dall’ex Unione Sovietica.
Numerosi sono i casi di doppia cittadinanza, anche tra oligarchi (un nome fra tutti – Roman Abramovich) e funzionari d’alto livello con tanto di compagnie impegnate nel business dell’assistenza all’ottenimento; persino il noto propagandista Vladimir Solovyov, che ha smentito di aver passaporto israeliano, in passato aveva dichiarato di esser pronto a imbracciare le armi per difendere Israele (salvo poi nel 2023 rettificare, perché “c’è l’Operazione speciale militare contro l’Ucraina in corso”). Un rapporto che resiste nonostante siano ben presenti anche posizioni anti-israeliane e vi sia un forte sostegno alla causa palestinese nelle repubbliche del Caucaso settentrionale a maggioranza musulmana, con eccessi quali il tentato pogrom di Makhachkala, in Daghestan, nell’ottobre del 2023.
Oltre ai rapporti israelo-russi, appare ancora più complessa per Mosca la relazione particolare con Trump: Putin ha investito molto nel costruire rapporti personali con il presidente americano, i colloqui telefonici tra i due sono stati numerosi a detta del leader russo, convinto che la chiave per uscire dall'isolamento internazionale passi attraverso Washington. Trump rappresenta per Putin l'opportunità di ottenere un’intesa che potrebbe risolvere la questione ucraina a condizioni accettabili per Mosca e legittimare la politica di grande potenza della Russia, e non appare un caso che Putin abbia cercato di inserire la mediazione sulla crisi iraniana nelle conversazioni con Trump: è un modo per dimostrare la propria importanza a livello globale, per offrire qualcosa di valore in cambio di concessioni sull'Ucraina. Eppure, la risposta di Trump è stata brutale nella sua semplicità, invitando Putin a occuparsi di quanto avviene nello scenario ucraino, parole molto nette e ben poco diplomatiche, che rivelano forse come per la Casa Bianca la Russia debba limitarsi a un ruolo solo in determinati ambiti, senza ritagliarsi ruoli ben più pesanti su scala mondiale.
Il paradosso odierno della posizione russa è che Putin si trova a dover bilanciare rapporti con tutti i protagonisti del conflitto iraniano-israeliano, ma senza poter veramente influenzare nessuno di loro, né tantomeno prendere posizioni forti. Con l'Iran ha una partnership che non prevede garanzie di sicurezza reciproche - non a caso negli accordi bilaterali non ci sono clausole di mutua difesa; con Israele mantiene un dialogo che Netanyahu ha saputo preservare anche nei momenti più bui delle relazioni russo-occidentali, ma che non può trasformarsi in influenza politica quando si tratta di questioni ritenute esistenziali dall’attuale governo di Tel Aviv; per cui la condanna degli attacchi israeliani avviene senza però essere netta, accompagnata sempre da proposte ben poco insistenti di mediazione e dall’assenza di riferimenti a impegni concreti nei confronti di Teheran, anzi: il presidente russo ha dichiarato durante l’incontro con le agenzie internazionali di stampa che da parte iraniana era stata fatta cadere la proposta di Mosca di collaborare allo sviluppo di sistemi di difesa contraerea. La relazione personale con Trump, invece, non sembra essere in grado di condizionare la politica americana in Medio Oriente, e la risposta irritata del presidente statunitense ne è un effetto.
La crisi iraniana rende chiaro come la Russia non sia in grado (né tantomeno sembra volerlo) di poter agire in condizioni di overstretching, ovvero di estensione illimitata dei propri sforzi militari e diplomatici, ma al tempo stesso anche la fragilità dell’idea di poter costruire durature intese in chiave anti-occidentale. L'evanescenza politica dei BRICS emerge con particolare evidenza nella crisi, e le potenze della regione del Golfo Persico ritenute ad essi vicine, come gli Emirati Arabi Uniti, membri del raggruppamento, hanno condannato l'attacco israeliano. Parallelamente, l'Arabia Saudita, che negli ultimi anni si è avvicinata alla Russia nonostante la sua tradizionale ostilità verso il regime sciita iraniano, ha assunto una posizione simile, in cerca di una risoluzione diplomatica, temendo un’escalation in grado di danneggiare l’industria petrolifera: azioni condotte senza un coordinamento generale con Russia e Cina. La condanna congiunta delle azioni israeliane espressa da Putin e Xi Jinping, con l'affermazione che "non esiste una soluzione militare alla situazione attuale e alle questioni legate al programma nucleare iraniano", suona più come un'ammissione di impotenza che come una presa di posizione di forza, il riconoscimento amaro su come Russia e Cina possano al massimo disapprovare, ma non riescano ad impedire che Israele e gli Stati Uniti agiscano contro Teheran.
Il multilateralismo tanto agognato e di fatto già esistente appare oggi una nemmeno troppo sofisticata espressione della legge del più forte, dove potenze come Stati Uniti, Israele e Russia tentano di imporre unilateralmente la propria volontà, ignorando la fragilità delle relazioni internazionali. Questa dinamica emerge chiaramente nel dilemma strategico che Putin affronta in Medio Oriente: sacrificare l'intesa con Teheran per ottenere, se non carta bianca, il disimpegno statunitense dall’Ucraina. Il "Sud globale" tanto corteggiato da Mosca si rivela così un dispositivo retorico, e la sua presenza nelle dichiarazioni ufficiali del Cremlino è diminuita con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca.
Putin, anche se volesse, si trova nell'impossibilità materiale di sostenere l'Iran, rivelando i limiti concreti del potere russo; l'impegno totale in Ucraina ha esaurito le capacità militari disponibili, mentre un sostegno aperto a Teheran comprometterebbe definitivamente i rapporti con Israele e Trump. Simultaneamente, abbandonare apertamente l'alleato iraniano significherebbe perdere un partner strategico cruciale per l'agenda anti-occidentale e subire un danno d’immagine importante. L’attuale crisi evidenzia i limiti strutturali della Russia nella sua capacità di mobilitarsi su più fronti e di giocare su più tavoli; le risorse militari sono concentrate in Ucraina, dove Putin ha deciso di giocare la partita decisiva per il futuro del proprio regime, mentre l'economia opera al limite per sostenere uno sforzo bellico prolungato.
La scommessa strategica totale sull'Ucraina, motivata dalla convinzione che una vittoria, ottenuta a caro prezzo e a costo di anni di guerra, garantirebbe legittimazione per ridisegnare l'ordine internazionale, porta con sé una conseguenza: l'incapacità di poter assicurare sostegno agli alleati, reali o presunti, con effetti importanti nella possibilità di costruire relazioni e alleanze alternative a livello globale, e quindi di porsi come punto di riferimento alternativo all’Occidente; ma forse, in realtà, per il Cremlino si è sempre trattato di poter veder riconosciuti “diritti” esclusivi in alcune aree ritenute parte della propria sfera d’influenza.
Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons








Luciano Tacevi
Il paradosso europa: credersi casso e invece, praticamente, non contare un casso.
Jack
Suppositio materialis o vuota arguzia de dicto, temo. Diversamente dalla Russia, delle cui ambizioni l’articolo individua con chiarezza i limiti, per “contare” l’Europa non si affida al revisionismo geopolitico né coltiva tentazioni imperiali, a meno di non voler considerare tali gli sforzi difficoltosi per darsi un’identità politico-militare declinata, quando fosse, in chiave esclusivamente difensiva e di deterrenza. E se posso aggiungere una dimensione ulteriore alla paradossalità esaminata nell’articolo, direi soprattutto che l’Europa sfugge alla contraddizione intrinseca del nichilismo putiniano (molto simile, con altra scala e proprie specificità, a quello trumpiano): un potere che si pretende ultra-securitario e costruttore di una grande e stabile sfera imperiale, ma che è avvitato in una spirale di radicalizzazione e la cui sopravvivenza dipende totalmente dall’esportazione di distruzione permanente. Se una strategia è anzitutto il ponte necessario fra le risorse disponibili e gli obiettivi perseguibili, il paradosso europeo risiede semmai molto meno in un’illusoria e auto-ingannevole credenza di grandezza che in un forte sottodimensionamento strategico, cui solo una lucida e coraggiosa iniziativa politica europea, impossibile senza una seria consapevolezza collettiva, può riparare.