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SpotPolitik: perché la casta non sa comunicare

14 Marzo 2012 4 min lettura

SpotPolitik: perché la casta non sa comunicare

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Matteo Pascoletti 

@valigiablu - riproduzione consigliata


Giovanna Cosenza insegna Semiotica all'Università di Bologna. Fuori dalle aule accademiche è nota per il blog Dis.amb.iguando, in cui affronta i temi della comunicazione privilegiando un approccio divulgativo da «aca - blogger (academic + blogger)». Il suo ultimo libro, SpotPolitik (Laterza), richiama il celebre titolo di una trasmissione di Celentano (RockPolitik) per parlare di un problema della classe politica degli ultimi anni e, soprattutto, dell'idea della comunicazione politica che si è imposta, fino a debordare: 
Che cos'è la SpotPolitik? È la politica che imita il peggio di ciò che fanno certe aziende italiane con la pubblicità. Quella che pensa che per comunicare basti scegliere uno slogan generico, due colori per il logo e e qualche foto per le affissioni. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo, appunto. Come se comunicare coi cittadini fosse solo una questione di estetica superficiale e scelta grafica. 
Del libro, oltre alla precisa e mai pedante capacità di analisi riscontrabile negli esempi scelti, penso sia utile segnalare a un potenziale lettore due pregi. 
Il primo è il rigore scientifico con cui Cosenza delimita (e all'occorrenza ribadisce in più passaggi) il campo di analisi, che è la comunicazione politica e il rapporto tra comunicazione e politica, ma non la politica intesa come visione della società da governare o arte di governo. Ribadire questa distinzione è un pregio, proprio perché la SpotPolitik ha reso molto vaghi e fumosi i confini. «La comunicazione non è sufficiente, ma necessaria», recita il paragrafo in cui, a riguardo, è sintetizzato il pensiero di Cosenza, molto critica verso chi «pensa che basti dare una mano di colore a contenuti fiacchi o contraddittori per farli passare», e molto lucida nelle argomentazioni con cui sostiene la critica. Senza questa distinzione, che è frutto della ventennale esperienza dell'autrice, il libro avrebbe rischiato di essere una sorta di "SpotSemiotik", e di giustificare, attraverso l'analisi tecnica, un certo modo di fare politica, come se non fosse possibile un altro. Invece il libro non solo ci dice che il modo di fare politica degli ultimi anni si è affidato alla comunicazione per colmare le proprie lacune, ma che troppo spesso lo ha fatto male. Una nuova comunicazione e una nuova politica, dunque, sono possibili, secondo Giovanna Cosenza.
Il secondo pregio emerge nella analisi delle campagne pubblicitarie prese come esempi, ed è nella capacità di "tarare" il linguaggio su un target specifico, sebbene eterogeneo: il libro è rivolto soprattutto a chi si affida alla comunicazione politica, come se il sottotitolo ideale del saggio fosse «Il libro che ogni politico dovrebbe leggere (prima che sia troppo tardi)», ma parla anche all'elettore che vuole dare una forma al senso di disagio o estraneità provato alla vista di una manifesto elettorale su cui troneggia lo slogan Rimbocchiamoci le maniche per giorni migliori. Due mondi che, nel regno fatuo della SpotPolitik, non entrano mai in relazione tra loro, perché separati dall'autorefenzialità di chi vorrebbe comunicare, dall'incapacità di accogliere le critiche e dalle forme prive di valori reali cui ci si affida. Questo limite e questo danno prodotto dalla SpotPolitik sono spiegati chiaramente nella pagine dedicate alla campagna del 2009 per eleggere il Segretario del PD, in cui si sono contrapposti Bersani, Franceschini e Marino:
 ... quei loghi richiamano troppe storie e immagini che con i candidati e con lo stesso Pd c'entrano poco e niente. O meglio, c'entrano con loro come avrebbero potuto con qualunque candidato e partito. Fra l'altro si sarebbero potuti pure scambiare fra loro [...] e il risultato sarebbe stato analogo. Detto bruscamente: quei tre loghi non hanno senso. Detto più duramente: se anche non ci fossero stati, i leader non ne avrebbero risentito. E allora perché? Perché i candidati spendono prima tempo (e forse denaro, non so), poi parole per presentarli sui media e difenderli dalle critiche? Lo fanno per dimostrare di essere attenti alla comunicazione [...]. Una motivazione che si può anche condensare in una formula: non lo fanno per comunicare, ma per comunicare di voler comunicare. Parlando di spot, un intero capitolo è dedicato alle donne: si parla sia delle donne in politica sia dell'immaginario di riferimento in cui si muovono, e che a loro volta proiettano. 
È un immaginario fortemente appiattito sugli stereotipi sessuali, diffusi in particolare dalla pubblicità (e dunque inglobati poi dalla SpotPolitik). Sebbene questi stereotipi non siano un'esclusiva nostrana, in Italia rispetto ad altri paesi c'è una differenza sostanziale: gli stereotipi vengono presi alla lettera e diffusi senza alcuna autoironia, come fossero modelli accettati in modo acritico e passivo. Si crea così un circolo vizioso in cui l'arretratezza culturale in termini di parità di diritti si rispecchia in un immaginario che la giustifica, rafforzando dunque questa arretratezza. Interessante è allora l'analisi della pubblicità realizzata da Oliviero Toscani per il lancio de l'Unità diretta da Concita De Gregorio. La storica novità (in Italia) di una donna alla direzione di un quotidiano è neutralizzata dall'immaginario del manifesto pubblicitario: 
...quattordici aggettivi galleggiano sopra il fondoschiena di una ragazza che, stando agli aggettivi, dovrebbe essere intelligente, rivoluzionaria, coraggiosa, impegnata e così via. Ma la ragazza dovrebbe essere tutte queste cose solo perché, da quel che mostra dalla vita ingiù, indossa una maglietta rossa e una minigonna di jeans su gambe (tanto per cambiare) perfette ed è pure (tanto per cambiare fotografata da dietro). E allora domandiamoci: per caso la ragazza legge l'Unità? Be', a dire il vero è ritratta senza testa, e siccome tutti sanno che, per leggere, la testa ci vuole, be' forse no, non la legge. 
La comunicazione, insomma, è un elemento troppo importante per lasciarla in mano agli "esperti". E se non verrà recuperato dalle classi dirigenti la capacità di entrare in relazione con i cittadini cui si rivolgono, di ascoltarli autenticamente, il rischio è che dilaghino i linguaggi più viscerali, propri dell'antipolitica e dei movimenti populisti, i quali ripetono alla pancia di chi accumula frustrazione sempre lo stesso messaggio, che suona più o meno così: "hai ragione, ti capisco, fai bene ad arrabbiarti, continua così".

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