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Apple vale come il Belgio: l’incantesimo della mela avvelenata

14 Febbraio 2012 3 min lettura

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Apple vale come il Belgio: l’incantesimo della mela avvelenata

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Andrea Iannuzzi - RepubblicaSera

(hanno collaborato Dino Amenduni e Paolo Sinigaglia)

Chissà se Barack Obama - fan dichiarato di Steve Jobs, al quale ha dedicato un passo dell’ultimo discorso dello Stato dell’Unione - parlerà anche di Apple con il vicepresidente cinese Xi Jinping, in visita alla Casa Bianca. Chissà se parleranno della Foxconn di Shenzhen. La fabbrica dei suicidi, nella quale operai sfruttati e sottopagati producono la tavoletta magica di Cupertino, l’iPad. “Dobbiamo sostenere chi vuol essere come Steve Jobs” ha detto il presidente americano. Difficile dargli torto, visto che la capitalizzazione in Borsa della mela rosicchiata ha raggiunto una cifra pari al prodotto interno lordo del Belgio, cioè la soglia d’ingresso nel G20. 
Trenta centesimi (la paga oraria dei lavoratori cinesi) e 468 miliardi (il valore in dollari a Wall Street): tra questi due numeri è compreso il fenomeno Apple, capace di stupire ancora gli analisti infrangendo i suoi stessi record a dispetto di chi pensava che la morte del fondatore potesse incidere negativamente sui prodotti e sui conti dell’azienda. Al contrario: da ottobre, cioè da quando Jobs si è arreso al cancro contro il quale combatteva da anni, il titolo Apple è cresciuto del 32 per cento, segno che i mercati ripongono totale fiducia nella squadra di manager guidata da Tim Cook e nel successo dei suoi prodotti. Segno che forse il motto scelto da Google come proprio marchio di fabbrica (“Don’t be evil”, non comportarti male) non è la chiave che apre le porte del paradiso nel mondo del business. Si può essere cattivi e vincenti (oltre che belli)? A giudicare dal successo della Apple, la risposta è sì. 
Ed è una contraddizione con la quale facciamo i conti più volte al giorno, mentre smanettiamo frenetici con il touchscreen del nostro iPhone. 
Lo scandalo della fabbrica dei suicidi è solo l’ultimo tassello del puzzle, anche se questa volta a Cupertino sembrano piuttosto preoccupati dalle possibili ripercussioni negative, tanto da aver autorizzato le ispezioni di una ong per verificare gli abusi e porvi rimedio. Il timore di ritorsioni e boicottaggi da parte dei consumatori attenti ai prodotti eticamente corretti è forte anche per chi ha ben presente quale sia il piatto più pesante della bilancia nel confronto tra economia e diritti umani. Eppure, fino ad oggi, il fascino di Apple è stato più forte dei suoi detrattori, del caratteraccio di Steve Jobs, delle accuse di aver rubato e blindato pezzi di software libero, dei rapporti Fbi che lo descrivono come un poco di buono, dei maltrattamenti inflitti alla clientela (garanzie truffaldine, prodotti resi obsoleti in pochi mesi, prezzi superiori alla concorrenza). Simbolo di questa insana attrazione per il male è stato l’elogio funebre appeso sui muri di Roma dai “comunisti” di Sel, che ha costretto Nichi Vendola a dissociarsi dall’iniziativa. 
Molti di noi credevano che il segreto fosse proprio il carisma del genio, la sua capacità di essere un’icona pop prima ancora che un imprenditore superdotato. Invece ci sbagliavamo: una recente analisi ha rivelato che il 73 per cento del fatturato Apple (oltre 33 miliardi di dollari a trimestre) proviene da iPhone e iPad, oggetti che cinque anni fa nemmeno esistevano e che hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, di stare connessi, di lavorare, di giocare, di divertirci. Al contrario, concorrenti come Microsoft e Google continuano a sfruttare gli stessi modelli e tipi di business. E’ la rivincita dell’hardware sul software? Può darsi. Di sicuro è il motivo che spinge Obama a investire sull’innovazione, a caccia del prossimo Steve Jobs.

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