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L’università e l’ossessione burocratica (una confessione)

28 Agosto 2022 5 min lettura

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L’università e l’ossessione burocratica (una confessione)

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di Carlo Penco*

Ho letto l’articolo di Federico Zuolo, “Bullshit jobs” in università: un’autodenuncia e mi sono ritrovato nelle sue parole. Lo ammetto: sono stato sia un “ricucitore” sia un “barra-caselle”. Da “ricucitore” ho sempre cercato di mettere una pezza alle richieste assurde della burocrazia universitaria (anche aiutato da informatici ex-filosofi che non “subivano” gli algoritmi, ma li costruivano in modo intelligente); da “barra-caselle”, con l’aiuto di “amministrativi” che capivano benissimo i problemi e invece di ostacolare cercavano di semplificare, ho sempre cercato di usare il minor tempo possibile per produrre la giusta quantità di documenti da copincollare secondo i desiderata dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema (ANVUR). Ed è proprio su questo ho fatto un gran lavoro di ricucitore nel lontano 2003 quando ho suggerito uno schema da usare per i descrittori di Dublino ai miei colleghi, disperati nel non saper quali pesci pigliare per compilare le sezioni del Regolamento Didattico di Ateneo (RAD) riguardanti i descrittori per il loro corso di laurea.

Leggi anche >> “Bullshit jobs” in università: un’autodenuncia

Non sapete cosa sono i descrittori di Dublino? Attenzione, perché “corruptio optimi pessima”. I descrittori di Dublino sono un interessante tentativo di uniformare per tutta l’Europa il modo di valutare gli studenti. Una buona intenzione. Però, di anno in anno, ogni università fa dedicare ai suoi docenti un sempre maggior numero di giornate di lavoro per presentare impeccabili programmi di insegnamento, secondo i 5 descrittori di Dublino. Il problema è che, se cercate online, trovate le definizioni più disparate, come “enunciazioni generali dei risultati degli studenti”, “descrittori dati in termini di competenza e non di risultati di apprendimento”,specifici saper fare ricavati da un'attenta analisi degli obiettivi di una certa unità didattica”, eccetera. Ciascuna Università dedica una notevole mole di energia interpretativa per istruire i docenti nel seguire “correttamente” i descrittori e aiutarli a capire qual è la differenza tra:

  1. knowledge and understanding
  2. applying knowledge and understanding
  3. making judgements
  4. communication skills
  5. learning skills

Ho mantenuto l’inglese perché ciascuna università li traduce a suo modo, e grandi quantità di documenti di spiegazione e approfondimento sono dedicati alla differenza tra “competenze” e “abilità”, o tra “competenze” e “conoscenze”. I poveri docenti dipendono dagli uffici dedicati alla valutazione, gli uffici dipendono dalle richieste del ministero e dal desiderio di emergere tra i primi nella valutazione nazionale. 

Alcuni “esperti” si innamorano del problema, così creano programmi sempre più complessi per archiviare e arricchire i sempre più numerosi “dati” della presentazione di qualità dei corsi universitari. Dieci anni fa mi bastavano 10 minuti di copia e incolla dei progetti di anni passati, cui aggiungevo un po’ di fuffa. Ma oggi è molto peggio. I cenni fatti da Zuolo nel suo articolo non danno che una minima idea del ridicolo ammasso di retorica con cui si riempiono gli schemi della Scheda unica annuale (SUA) e di cosa devono fare i docenti. In molti atenei, per ciascun insegnamento, i docenti devono passare ore su sistemi informatici spesso obsoleti per inserire i dettagli dei propri metodi di valutazione nel modo più preciso possibile: i voti positivi vanno dal 18 al 30 e lode, gli studenti sono valutati nelle risposte date sui contenuti di conoscenza, ma anche sulla competenza e sulle abilità che imparano nel corso, le quali devono essere “descritte nel dettaglio”, e così via. Ogni dettaglio deve essere inserito nel sistema cui niente può sfuggire, e una serie di esperti userà il proprio preziosissimo tempo per valutare se i docenti abbiano inserito le cose nel modo corretto, se le varie schede siano o meno compilate secondo i descrittori, e così via.

Spiegare agli studenti come si fa l’esame è una regola d’oro che vige da decenni. Di norma si scrive nel programma e si illustra nel primo giorno di lezione, rispondendo alle domande degli studenti. Ma una cosa è spiegare a persone intelligenti i criteri dell’esame, un’altra è riempire valanghe di fuffa online: gloriosamente riportata ai settori della valutazione, ma rendendo quasi incomprensibile agli studenti cosa si farà per davvero. 

Così docenti e amministrativi spendono sempre più ore di lavoro nell’esegesi delle norme ministeriali, traducendo rigorosamente i 5 descrittori e una valanga di altri descrittori quantitativi e qualitativi, in modo da renderli “perspicui” e inserirli nelle sempre più inutilmente complicate procedure informatiche. Il risultato è la classificazione basata una valutazione “qualitativa” delle Università italiane.

Ma cosa registra la classificazione delle Università e dei corsi di laurea? Forse la loro qualità? La bontà degli insegnamenti o la competenza dei docenti? Tutt’altro! La classificazione registra la quantità di lavoro burocratico dedicato ai descrittori di Dublino e a mille altri descrittori che vi risparmio. Quindi chi sceglie un corso di laurea o un’università sulla base delle classifiche ufficiali andrà in quegli atenei dove la maggior parte del tempo è stata dedicato alla burocrazia. Ma poco saprà della qualità dei docenti.

Un suggerimento per i possibili studenti: non guardate le classifiche delle università, andate a vedere i profili dei docenti. Non guardate i “meriti accademici” (presidente di questo o quello), ma cosa hanno fatto: quali pubblicazioni su riviste internazionali di pregio, quali esperienze in altri atenei all’estero, quali conferenze (e dove e con chi), quali convegni hanno organizzato, e fatevi un’idea. 

Tempo fa, in un grande ateneo italiano, il direttore amministrativo (la figura professionale che guadagna più di ogni altro in un ateneo italiano) sosteneva che l’università avesse tre missioni (o meglio, “missions”): didattica, ricerca e amministrazione. Avete capito bene: uno degli scopi principali dell’Università è “fare amministrazione”. La cosa strana è che lì per lì nessuno ha avuto niente da dire. Anche ammesso che l’università sia oggi intesa dai più come un’azienda che deve fornire “prodotti” (pubblicazioni, insegnamenti, brevetti, eventi ecc.) la cosa non funziona. Anche un’azienda capisce che l’amministrazione è funzionale allo scopo dell’azienda (ad esempio produrre e vendere macchine) e non è fine a sé stessa. Ma oggi scivoliamo sempre più nella visione in cui l’amministrazione diviene uno degli scopi delle università, e se questo non è esplicito, lo è di fatto nella quantità di tempo quotidiano dedicato dai docenti alle varie mansioni informatico-burocratiche che si moltiplicano di anno in anno.

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Nel libro The Fall of the Faculty. The Rise of the All Administrative University and why it matters (Oxford U.P., 2011), Benjamin Ginsberg si proponeva, se non di fermare, almeno di rallentare la diffusione del “degrado amministrativo” nelle Università degli Stati Uniti. Il termine usato nel testo è “blight”, in italiano traducibile con “degrado”, che in inglese indica anche una malattia delle piante. Per Ginsberg i suoi suggerimenti “potranno arrivare troppo tardi per alcune vittime, ma altri possono ancora guarire”. Dubito che l’università italiana possa guarire dalla malattia che si è insinuata profondamente nel suo sistema: la malattia ha ormai contaminato moltissimi docenti che ormai pensano solo a mettere a posto le caselle, anche per il loro guadagno immediato, replicando in modo nuovo le vecchie logiche di potere.  Ma non escludo che quei docenti italiani (ce ne sono ancora) che fanno davvero ricerca e sono in rete con docenti di tutto il mondo possano almeno sviluppare alcune difese immunitarie contro questo parassita invasore. E, chissà, magari potranno formare qualche bolla di sopravvivenza intellettuale.

*Docente di Teorie della comunicazione, Università di Genova

(Immagine in anteprima via archive.shine.cn)

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