Post Fuori da qui

Imbarcazioni affondate, sanzioni e petrolio: la “guerra” non dichiarata degli Stati Uniti al Venezuela

6 Dicembre 2025 8 min lettura

Imbarcazioni affondate, sanzioni e petrolio: la “guerra” non dichiarata degli Stati Uniti al Venezuela

Iscriviti alla nostra Newsletter

8 min lettura

“L’ordine era di uccidere chiunque.” Secondo le ultime rivelazioni del Washington Post, queste sono state le istruzioni del Segretario della difesa statunitense, Pete Hegseth, al comandante delle operazioni speciali unificate che stava monitorando un’imbarcazione di sospetti trafficanti di droga proveniente dal Venezuela. Poco dopo, un missile si lasciava alle spalle la costa, colpendo la barca e innescando un incendio dalla prua alla poppa. I militari statunitensi l’hanno guardata avvolta dalle fiamme attraverso le immagini di un drone di sorveglianza. Appena il fumo si è diradato, le sagome di due sopravvissuti sono emerse, aggrappate ai relitti. Colpite, a breve, da un secondo attacco.

L’operazione è avvenuta lo scorso 2 settembre e si può considerare come l’inizio della guerra dichiarata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, contro i sospetti trafficanti di droga e – per interposta persona – contro il governo venezuelano di Nicolas Maduro. Da allora, l’agenzia di stampa Reuters riporta che i militari statunitensi hanno eseguito circa 19 attacchi nei Caraibi o al largo delle coste dell’America Latina, uccidendo almeno 76 persone e dando inizio a una crisi diplomatica che sembra ormai prossima a raggiungere l’apice.

Lo scorso 21 novembre, Maduro ha infatti telefonato a Trump. Secondo le indiscrezioni raccolte sempre da Reuters, avrebbe avanzato una serie di richieste: piena amnistia per lui e la sua famiglia e la sospensione di tutte le sanzioni statunitensi contro di lui, inclusa un’accusa che pende di fronte alla Corte Criminale Internazionale.

In meno di 15 minuti, Trump le avrebbe rifiutate una dietro l’altra, dando al presidente venezuelano una settimana per abbandonare il paese. L’ultimatum è scaduto lo scorso venerdì, e per ora Maduro non si è mosso da Caracas, aumentando le paure di un intervento armato statunitense sul suolo venezuelano. Tanto che anche Papa Leone XIV ha esortato gli Stati Uniti a cercare un cambiamento in Venezuela attraverso “il dialogo, incluso con la pressione economica”, ma evitando di ricorrere all’uso della forza. 

Il più grande dispiegamento di forze militari mai visto nella zona

Maduro governa il Venezuela dal 2013 dopo essere succeduto a Hugo Chavez, il presidente che ha trasformato radicalmente il paese perseguendo il progetto politico della “rivoluzione bolivariana”. Nel 2024 è stato rieletto per l’ennesima volta, in una competizione che gli Stati Uniti e altri governi occidentali si sono rifiutati di riconoscere a causa dei ripetuti indizi di brogli. Alle elezioni sono seguite settimane di proteste, a cui hanno fatto seguito omicidi e arresti di massa, secondo quanto documentato dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. All’inizio di dicembre, l’associazione Foro Penal aveva conteggiato 887 prigionieri politici nel paese.

Fra gli altri, nello scontro fra i poteri è rimasto coinvolto anche Alberto Trentini, cooperante italiano ancora detenuto nelle carceri di Caracas. Secondo il quotidiano Domani, dietro all’arresto ci sarebbe infatti una rappresaglia nei confronti del Tribunale di Roma, reo di aver archiviato le accuse contro Rafael Ramirez, uno dei più acerrimi critici di Maduro, oggi rifugiato in Italia.

Dal canto suo, Trump ha iniziato ad aumentare la pressione nei confronti del governo venezuelano fin dall’inizio del suo mandato, firmando un ordine esecutivo che identificava come organizzazioni terroristiche alcuni gruppi criminali dediti al narcotraffico, come il venezuelano Tren de Aragua. A questi il Dipartimento del Tesoro ha successivamente aggiunto il Cartel de los soles, di cui Maduro è accusato di far parte. Tanto che, durante l’estate, la Casa Bianca ha raddoppiato a 50 milioni la ricompensa per chiunque fornisse informazioni in grado di portare al suo arresto. 

Da lì in avanti è stato un continuo alzare i toni: secondo l’agenzia di stampa Associated Press, l’esercito statunitense ha inizialmente schierato tre mezzi antiaerei di fronte alle coste del Venezuela. La presenza della marina militare si è poi andata rapidamente gonfiando, raggiungendo circa 15.000 tra marinai e marines. Nel frattempo, caccia F-35 sono stati schierati a Porto Rico, mentre un sottomarino nucleare si sta muovendo nelle acque latinoamericane. Lo schieramento ha infine raggiunto l’apice con l’arrivo nei Caraibi della Gerald R. Ford, la più grande nave da guerra del mondo. Trump ha poi anche dichiarato chiuso lo spazio aereo sopra il Venezuela a fine novembre.

Gli analisti Jesús D. Romero e Rafael Marrero hanno rilevato che si tratta del maggior dispiegamento militare di forze dall’intervento statunitense a Panama nel 1989, sottolineando come si tratti di un cambio di strategia rilevante: nonostante Trump neghi che il suo obiettivo sia un cambio di regime, nella nuova dottrina statunitense i trafficanti non vengono più trattati come criminali da perseguitare, ma nemici che possono essere neutralizzati senza passaggi legali. Un punto non da poco, visto che, dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Washington Post sull’attacco a sangue freddo, Hegseth potrebbe trovarsi a rispondere di accuse di crimini di guerra. Sia i comitati della Camera che del Senato statunitensi hanno già aperto delle inchieste per determinare esattamente come siano andati i fatti ricostruiti dal quotidiano.

Alla riunione delle Nazioni Unite di ottobre, d’altronde, Trump è stato molto esplicito: “Abbiamo iniziato a usare il potere supremo dell’esercito degli Stati Uniti per distruggere i terroristi venezuelani e le reti di trafficanti capitanate da Nicolas Maduro.”

Cos’è il Cartel de los Soles

Il tassello centrale di questa strategia è stato l’aggiunta in agosto del Cartel de los Soles nella lista di organizzazioni terroristiche presentata da Trump durante il primo giorno della presidenza.

Secondo un’inchiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti del 2020, a capo della struttura ci sarebbero lo stesso Maduro, il ministro dell’Interno, Diosdado Cabello e altre alte cariche militari del paese. 

La BBC ha cercato di ricostruire la nascita e la consistenza di questo cartello. Raúl Benítez-Manaut, esperto di sicurezza della Università Nazionale Autonoma del Messico, ne fa rimontare le origini alla fine degli anni ’80, quando la disarticolazione dei trafficanti del Cartello di Medellín e l’intensa offensiva contro il narcotraffico nella vicina Colombia hanno portato alla ricerca di rotte alternative per il trasporto della cocaina. A livello pubblico, i los Soles vennero menzionati invece per la prima volta negli anni ’90, quando Ramón Guillén Dávila, generale e capo del servizio antidroga della Guardia Nazionale Venezuelana, venne accusato di aver introdotto fino a 22 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti. Il cartello si sarebbe poi rafforzato negli anni di governo di Hugo Chávez, che decise di tagliare ogni forma di cooperazione con Washington.  

Altri esperti sono però scettici sull’esistenza di una vera e propria organizzazione. Mike LaSusa del centro studi Insight Crime sostiene infatti che, a partire dalle accuse contro Guillén Dávila, qualsiasi funzionario venezuelano con vincoli con il narcotraffico è stato considerato un membro del cartello, indipendentemente dal fatto che fosse “parte o meno della stessa struttura.” Per lui, non è in realtà “un gruppo in sé”, ma “un sistema di corruzione generalizzata,” che garantisce a Maduro la fedeltà dei militari. “In Colombia o in Messico i gruppi di narcotrafficanti trasportano le droghe da soli, con le sue catene di approvvigionamento e di trasporto. In Venezuela, esistono invece gruppi così, ma il regime di Maduro non controlla direttamente il traffico,” ha detto alla BBC.

Anche Benítez-Manaut è d’accordo sul fatto che il cartello “esiste e non esiste.” Secondo lui, i los Soles sono “ufficiali medi e intermedi che variano. Quando vanno in pensione, sono sostituiti da altri militari che controllano le rotte di accesso, i punti di ingresso in Venezuela e la foresta e i punti di uscita sulle coste,” spiega. 

Fino ad oggi, il governo di Maduro ha comunque rimandato le accuse al mittente, definendo il cartello come una “menzogna vile e infame” per giustificare un intervento nel suo paese.

Il problema è che l’esistenza di una simile organizzazione è diventata rapidamente un argomento di contesa politica. Governi della regione conservatori e più vicini agli Stati Uniti, come l’Argentina, l’Ecuador o il Paraguay, condividono la decisione di Washington. Ma il presidente di sinistra colombiano Gustavo Petro ne ha negato invece l’esistenza, definendola una “scusa fittizia per abbattere governi che non gli obbediscono.”

I nodi del petrolio e dell’opposizione

In risposta alle pressioni statunitensi, Nicolás Maduro ha inviato una comunicazione ufficiale all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), denunciando come gli Stati Uniti “stiano cercando di appropriarsi delle vaste riservo di petrolio del Venezuela, le più grandi del pianeta, attraverso l’uso della forza militare letale.” Con 303 milioni di barili di petrolio stimati, il Venezuela possiede effettivamente la maggiore quantità di petrolio al mondo. Eppure, stando alle stime dell'Osservatorio sulla Complessità Economica (OEC), nel 2023 ha esportato solo 4 miliardi, meno di qualunque altro paese produttore. 

Questo è risultato in parte delle sanzioni imposte da Trump durante la sua prima presidenza, in parte delle cattive condizioni in cui versa PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale venezuelana, afflitta da anni di cattiva gestione, corruzione e mancanza di investimenti.

Cosa potrebbe accadere da qui in avanti rimane comunque difficile da predire. La sproporzione delle forze in campo è evidente: Global Firepower ha stimato che gli Stati Uniti abbiano 1,33 milioni di personale militare attivo, contro 109mila effettivi del Venezuela. Eppure, un’analisi del Centro per gli Studi Strategici Internazionali (CSIS) sostiene che le forze presenti nell’area siano comunque insufficienti per portare avanti un’invasione di terra, per cui sarebbero invece necessarie dalle 50.000 alle 150.000 truppe. In una intervista a Politico, un diplomatico statunitense di lungo corso come James B. Story ha però anche sottolineato che l’esercito statunitense ha abbastanza potenza di fuoco per cercare di “decapitare il governo”.

A inizio novembre, l’analista Benigno Alarcón Deza aveva tratteggiato due possibili scenari per i mesi a venire: nel primo, il regime riesce a mantenersi saldo al potere, giustificando misure di emergenza e aggrappandosi alla narrazione di un’aggressione esterna e a un accurato controllo della valuta estera presente nel paese. Nel secondo, la pressione creata dagli Stati Uniti riesce invece a creare delle crepe interne al regime, negoziando una fuoriuscita di Maduro dal potere. 

L’opposizione venezuelana ha fino ad oggi appoggiato la strategia di Trump. Fresca di Nobel per la pace, la leader dell’opposizione María Corina Machado è intervenuta da remoto a inizio novembre un a un evento per investitori stranieri a Miami, sostenendo in toto le scelte del presidente statunitense. “Nicolás Maduro non è un capo di governo legittimo,” ha detto, ma il capo di una struttura criminale che si sostiene con il traffico di droga, oro, armi e anche persone. “Bisogna tagliargli i flussi di denaro.”

Poche settimane dopo, Machado ha pubblicato un manifesto che dovrebbe servire come base per una futura costituente. Nello scritto, ha rivendicato di avere un piano per le prime 100 ore e i primi 100 giorni appena Maduro abbandonerà il potere. “Questo è un punto di svolta nella storia venezuelana, forse è uno dei momenti per i quali abbiamo lottato più duramente,” ha detto in una intervista al Washington Post

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Ma non ha fornito alcun dettaglio su come questo cambio dovrebbe avvenire, e il quotidiano britannico The Guardian ha sottolineato come simili rivendicazioni generiche fossero già state fatte molte volte in passato.

Se non ci sarà un cambio di regime, Deza teme però che il Venezuela dovrà fronteggiare livelli di povertà ancora mai visti e un ulteriore aumento della repressione. Difficilmente sostenibili, tenendo conto che più di un quarto della sua popolazione ha già dovuto abbandonare il paese a causa della grave crisi economica scoppiata nel 2018.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


CAPTCHA Image
Reload Image

Segnala un errore