Dal trionfo russo in Alaska all’Europa unita negli USA. Intanto Putin continua a fare strage di civili
13 min letturaAggiornamento 22 agosto 2025: Tra le voci uscite dai vertici di Anchorage e Washington, ve ne era una particolarmente sensazionalistica: il 22 agosto o entro la fine del mese Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky si incontreranno. Addirittura, si era iniziato a scrivere di quale sarebbe stata la sede del vertice: Roma, Ginevra, il presidente russo avrebbe addirittura invitato il leader ucraino a Mosca… al momento però non si hanno notizie di summit, al contrario: Sergei Lavrov in un’intervista alla NBC venerdì 22 agosto ha dichiarato che l’incontro vi sarà solo quando vi saranno le condizioni e sarà definito un programma realmente presidenziale; inoltre, secondo il ministro russo degli Esteri, Zelensky avrebbe rifiutato i punti usciti dai colloqui in Alaska, quali lo status della lingua russa, il destino dei territori occupati e l’adesione o meno alla NATO. Putin però sarebbe disponibile a incontrare il presidente ucraino, ha ribadito Lavrov, quando l’agenda del vertice sarà definita nei dettagli.
La guerra continua, e nella notte di giovedì bombardieri, droni e missili hanno colpito anche in Ucraina occidentale, in un’ondata di attacchi particolarmente violenta: è stato colpito, tra i vari obiettivi industriali e gli edifici civili, lo stabilimento della Flex, azienda statunitense d’elettronica, a Mukachevo. Dagli Stati Uniti, JD Vance ha ribadito in un’intervista a Fox News che la responsabilità della sicurezza dell’Ucraina dovrebbe ricadere “in gran parte” sull’Europa.
Intanto, il rallentamento dell’economia russa – con un calo del PIL dal 1,4% all’1,1% nel secondo trimestre – non sembra incidere sulle scelte strategiche del Cremlino, né sulla sua tattica dilazionatoria nei confronti della Casa Bianca. E anche sulle garanzie di sicurezza, tema su cui Zelensky ha chiesto più volte risposte e su cui si era raggiunta un’intesa di massima con gli Stati Uniti e i capi di Stato presenti a Washington lunedì, aumentano le distanze: mentre i vertici militari e dei servizi di sicurezza occidentali discutono di come delineare un piano in grado di poter andar incontro alle necessità difensive dell’Ucraina, di nuovo Lavrov si è espresso contro misure costruite secondo “la logica di isolare la Russia”, una posizione che potrebbe avere ripercussioni sul dialogo russo-americano. Appare in tal modo improbabile un incontro nel prossimo futuro tra Putin e Zelensky, e da parte russa si proverà a cercare un compromesso con la volontà di Trump di avviare i negoziati, proponendo di tenere colloqui tra i ministri degli Esteri di Kyiv e Mosca; nel frattempo – è il calcolo del Cremlino – si potrà continuare a tentare di avanzare ulteriormente al fronte. La guerra continua.
Agosto 2025 potrebbe essere ricordato come uno snodo diplomatico importante nella lunga e sanguinosa guerra in Ucraina, uno spazio temporale dove in pochi giorni si sono susseguiti due appuntamenti su cui l’attenzione globale si è concentrata: il 15 agosto, ad Anchorage, in Alaska, l’atteso faccia a faccia tra Donald Trump e Vladimir Putin; il 18 agosto, a Washington, il summit che ha riunito lo stesso Trump con Volodymyr Zelensky e i principali leader europei; secondo le intenzioni annunciate dalla Casa Bianca, l’obiettivo è vedere, entro la fine del mese, un vertice tra i presidenti russo e ucraino, inizio reale di possibili negoziati per porre fine al conflitto, che dura ormai da tre anni e mezzo.
Si è trattato di due vertici molto diversi per forma, sostanza, risultati – quest’ultimi spesso più teorici che reali – e dove nel primo caso si è avuta una vittoria simbolica del Cremlino, soprattutto nel campo dell’immagine; a Washington, invece, la situazione è apparsa ben più complessa, con l’attenzione rivolta verso uno Zelensky sotto una forte pressione, costretto a misurarsi con una Casa Bianca incline a ricercare il compromesso con Mosca, e accompagnato dai leader europei, tra i quali la volontà di sostegno incondizionato all’Ucraina è frammista al timore di vedersi scavalcati da Donald Trump e dalle sue ambizioni trionfalistiche di apparire come il vero vincitore di una pace ancora, in realtà, troppo lontana.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La vittoria d’immagine del Cremlino in Alaska
Il carico di aspettative, esagerate e senza base alcuna, attorno all’incontro di Donald Trump e Vladimir Putin il 15 agosto ad Anchorage, era stato alimentato dall’Amministrazione statunitense, con tanto di programma dove vi erano in agenda una serie di momenti – come l’intervista a Fox News del presidente americano – tali da far somigliare il vertice più a un happening che a un tentativo diplomatico di far dei passi in avanti verso la risoluzione del conflitto. La ricerca a tutti i costi dell’hype da parte di Washington ha prodotto il risultato opposto: i colloqui non hanno portato ad alcun risultato sostanziale; non vi è stato nessun cessate il fuoco, nessuna apertura sui territori occupati, nessun documento congiunto, e persino il pranzo ufficiale è stato annullato; il successo politico e simbolico è stato tutto per il Cremlino.
I media e le autorità di Mosca hanno celebrato l’evento come la prova del “ritorno” della Russia al tavolo delle grandi potenze, finalmente impegnata in un confronto con gli Stati Uniti, ritenuti l’unico, reale, interlocutore in Occidente. Un vertice dove le immagini hanno fatto da padrone, ben al di là delle intenzioni stesse di Trump, con alcuni fotogrammi diventati immediatamente virali – il sorriso di Vladimir Putin, seduto al fianco del presidente americano sui sedili posteriori della limousine vale più di decine di testi – a testimonianza di come il Cremlino sia riuscito, senza grossi sforzi, a dominare l’immaginario attorno all’incontro. Soprattutto a colpire, sia in Russia che in Ucraina, è stato come le posizioni di Kyiv siano state in un certo senso tenute da parte, un elemento su cui la propaganda russa ha insistito a più riprese, trasformandolo in un messaggio politico per l’opinione pubblica interna e globale: “Washington discute direttamente con Mosca, e non con Kyiv”, una posizione ritenuta emblematica della fine dell’isolamento del paese dall’Occidente.
Una interpretazione alquanto significativa di questa posizione si trova espressa anche in un editoriale apparso su Nezavisimaja gazeta e firmato dal direttore Konstantin Remchukov, giornalista con contatti diretti all’interno della cerchia del Cremlino: “il principale risultato dell’incontro in Alaska è l’eccezionale chimica tra Donald Trump e Vladimir Putin”, è il messaggio centrale del testo, sviluppato attorno al concetto – forse un po’ peculiare – di “chimica” tra i due leader, ovvero una nuova fiducia reciproca, arrivata dopo più di un decennio di crisi delle relazioni russo-americane e l’ostilità aperta seguita all’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022.
Questa fiducia significa, nella definizione fornita da Remchukov, che ciascuna parte tenga conto degli interessi dell’altra, abbandonando la pratica delle scelte unilaterali che avrebbero caratterizzato l’approccio occidentale – e in tal senso il vertice di Anchorage segnerebbe la rottura del fronte unico occidentale e il riconoscimento da parte di Trump degli interessi russi come legittimi, aprendo la strada a una nuova configurazione della politica mondiale. Nell’editoriale, nemmeno troppo velatamente, si alludeva all’assenza di prospettive da parte ucraina di poter presentare una propria posizione autonoma, in grado di rovesciare gli esiti del summit in Alaska, ritenendo come Zelensky fosse destinato a subire pressioni americane e a “non avere carte in mano” per i colloqui successivi.
Da parte statunitense e occidentale, i due giorni seguiti all’incontro Trump-Putin hanno visto l’apparire sui media di voci non confermate su possibili scambi territoriali, ritiri di truppe russe da territori, quali le porzioni occupate delle regioni di Kherson e Zaporizhzhya, notizie spesso smentite da ulteriori nuove interpretazioni e fonti anonime su quanto accaduto in Alaska.
Ad apparire, però, convincente, è stato un dettagliato resoconto pubblicato da Axios, dove son state messe in luce le frizioni che hanno segnato il summit: in particolare, Putin avrebbe avanzato richieste massimaliste su cinque regioni contese dell’Ucraina, e soprattutto su Donetsk, di cui Mosca controlla circa il 75% del territorio. Putin, riferiscono fonti americane, pretendeva l’intera regione, con il riconoscimento ufficiale dell’annessione da parte ucraina, con una forte reazione irritata di Trump, che avrebbe replicato che “se Donetsk è il nodo e non c’è alcuna apertura, non ha senso prolungare la discussione”. Solo di fronte al rischio che il presidente americano abbandonasse il tavolo, Putin avrebbe attenuato la sua posizione, senza però giungere alle 6-7 ore di colloqui previste alla vigilia del vertice da parte del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.
L’insoddisfazione americana, mascherata da una sequela di dichiarazioni a distanza alla stampa dal classico tono trionfalistico, in realtà è apparsa percepibile anche dai segnali formali: oltre alla cancellazione del pranzo ufficiale, la conferenza stampa finale è stata rapida e senza alcuno spazio per le domande (d’altronde, appariva improbabile che Putin rispondesse ai giornalisti), e lo stesso Trump ha lasciato Anchorage in fretta, al punto che – secondo la National Public Radio – alcuni materiali del summit sono stati dimenticati, abbandonati in fretta; per un presidente solitamente fin troppo loquace, si è trattato di segnali alquanto eloquenti.
Axios ha inoltre riportato le divergenze di valutazione interne all’intelligence americana sulla forza dell’esercito russo: un’analisi suggerisce che Putin possa conquistare l’intera regione di Donetsk entro ottobre, un’altra prevede invece un conflitto inconcludente e logorante, e forse è proprio questo quadro di incertezza strategica contribuisce a spiegare perché Trump, pur desideroso di presentarsi come “l’uomo della pace”, abbia lasciato Anchorage insoddisfatto.
La valutazione di quanto avvenuto nell’incontro in Alaska per tali ragioni appare essere differente, anche dopo la rilettura causata dagli esiti del summit del 18 agosto alla Casa Bianca; mentre a Mosca l’incontro è stato rappresentato come una vittoria storica, grazie alla presunta “chimica” tra i leader, a Washington è sembrata esser prevalente la sensazione di frustrazione, l’idea che Putin abbia continuato testardamente a portar avanti le proprie posizioni senza offrire nulla in cambio. In questo contrasto si riflette la natura ambigua del vertice: un successo di immagine per il Cremlino, un’occasione mancata per la Casa Bianca.
Washington: la diplomazia multilaterale e la pressione su Kyiv
Nella capitale americana, il cambio di scena è stato evidente, in un contesto dove l’Amministrazione Trump è riuscita a mantenere il controllo d’immagine; il presidente statunitense ha incontrato prima Zelensky e poi i leader europei, in una serie di colloqui dove vi è stato tempo anche per una breve conversazione telefonica tra la Casa Bianca e il Cremlino.
A differenza di febbraio, quando il presidente ucraino era stato accolto con grande ostilità da Trump e da J.D. Vance, con tanto di scenata in favore di telecamere, seguita dalla sospensione degli aiuti americani, l’atmosfera del 18 agosto è apparsa più distesa. Trump ha parlato di un accordo tra le parti “praticamente su tutti i punti”, evocando l’idea di una svolta diplomatica imminente.
In realtà, la dinamica dei colloqui è stata ben più complessa, come hanno documentato i media ucraini, che hanno seguito in diretta l’intera giornata. L’incontro bilaterale tra Trump e Zelensky, iniziato in serata, è stato seguito dal vertice allargato con i leader europei: oltre a Giorgia Meloni, al segretario della NATO, Mark Rutte, e alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, vi erano il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente finlandese Alexander Stubb; interessante notare l’assenza di rappresentanti polacchi, visto l’impegno in prima linea di Varsavia a favore di Kyiv.
Durante il bilaterale, secondo fonti americane, Trump avrebbe sottolineato che Putin aveva accettato in linea di principio l’idea di garanzie di sicurezza per l’Ucraina, rifiutando però il cessate il fuoco, una posizione che però non ha trovato conferme nei dettagli: resta del tutto vago cosa significhi “garanzie di sicurezza” al di fuori del quadro NATO, che la Casa Bianca ha escluso, con una spiegazione alquanto arzigogolata data dal presidente americano alla stampa.
Zelensky ha accolto con prudenza questa dichiarazione, insistendo che le questioni territoriali non possono essere discusse in assenza di Putin: l’Ucraina non intende negoziare concessioni o scambi di territori a cuor leggero, nel rispetto dell’integrità territoriale del paese, anche se tale questione, ha poi concluso il presidente ucraino in una dichiarazione concessa dopo il round di colloqui, andrà affrontata in un bilaterale con il leader russo. È apparsa alquanto interessante la presenza in sala di una grande mappa dell’Ucraina, con le regioni orientali evidenziate, con le percentuali di territori occupate dai russi; una collocazione durante i colloqui, evidenziata anche da alcune foto dove sono ritratti Zelensky e Trump impegnati in una conversazione davanti alla carta geografica, che sembrerebbe suggerire la pressione della Casa Bianca nel voler ottenere una rapida rinuncia alle rivendicazioni territoriali, evidenziando con i dati la necessità di cedere sul Donbass per ottenere una “forte carta negoziale” da impiegare per ottenere garanzie più solide.
Per Zelensky la situazione prospettata non è stata semplice: da un lato, la necessità di non perdere il sostegno americano, essenziale per la prosecuzione della resistenza all’invasore; dall’altro, l’imperativo politico e morale di non cedere sul principio dell’integrità territoriale, provando a differenziare dove vi sono contesti diversi (la Crimea e i territori del Donbas sotto controllo dei separatisti prima dell’invasione) senza dover però capitolare a Mosca. Non a caso Zelensky, prima della visita, aveva intensificato il coordinamento con i leader europei e con il segretario generale della NATO per cercare di far fronte a possibili richieste ritenute impossibili da accettare senza pagare un prezzo elevato in termini politici e di tenuta della situazione interna in Ucraina.
Le reazioni ucraine: tra apertura e scetticismo
Non a caso a Kyiv il bilancio della giornata è stato accolto con cautela, dopo i timori espressi alla vigilia, con l’attenzione riservata anche alla partecipazione di Giorgia Meloni, ritenuta vicina a Trump e quindi passibile di poter far sponda con il presidente americano: in realtà l’atteggiamento della presidente del Consiglio italiana è stato di sostegno complessivo alle posizioni espresse dagli altri leader europei.
Dal lato ucraino si è registrato un miglioramento rispetto a febbraio: Zelensky non è più apparso isolato, ma al centro di un tavolo multilaterale che includeva gli Stati Uniti e l’Europa, e probabilmente anche in tal senso vanno lette le conversazioni telefoniche di Putin con i leader di Brasile, Sudafrica e India nel corso della giornata; da una parte e dall’altra si intessono relazioni in grado di far apparire l’avvio di tentativi di negoziati come il frutto di uno sforzo diplomatico al di fuori di pressioni esterne.
Per Kyiv resta però il timore di possibili pressioni da parte di Washington verso un compromesso territoriale, un’eventualità che suscita parecchie preoccupazioni, I bombardamenti russi che, a seguito del vertice di Anchorage e persino in contemporanea con i colloqui di Washington, hanno colpito diverse città ucraine accompagnano le paure dell’opinione pubblica ucraina, rafforzate dall’accantonamento del cessate il fuoco come condizione imprescindibile per avviare i negoziati. Molti commentatori ucraini hanno avvertito il rischio di una “pace ingiusta”, un congelamento del conflitto che lascerebbe alla Russia vantaggi territoriali senza pagarne il prezzo politico ed economico, poiché sul tavolo sempre più appare la possibilità di una revoca, parziale o meno, delle sanzioni a Mosca. Zelensky ha ribadito che l’Ucraina non può accettare una pace che equivalga a una resa, ma al tempo stesso ha mostrato di esser pronto ad accettare alcune delle richieste di Trump dichiarandosi aperto a un incontro diretto con Putin senza condizioni preliminari. Un segnale di disponibilità che riflette la consapevolezza di dover mantenere aperta ogni strada diplomatica, pur nella consapevolezza dei rischi per l’Ucraina e per la propria sopravvivenza politica.
Chi vincerà?
Da parte russa l’incontro di Anchorage ha rappresentato una vittoria importante sul piano simbolico e anche dal vertice di Washington appaiono dei risultati in tal senso, testimoniati dalla telefonata di Trump a Putin durante i colloqui, prova della centralità russa secondo media e propaganda: anche quando si discute con Kyiv e con l’Europa – questo è il messaggio - la voce decisiva resta quella del Cremlino. Stampa e televisione hanno esaltato la posizione del presidente, sottolineando che persino le garanzie di sicurezza per Kyiv non possono essere definite senza un accordo con Mosca e, in un momento dove l’esercito russo avanza, ma vi sono anche segnali di rallentamento nel reclutamento e di surriscaldamento dell’economia, Putin ha potuto trasformare due incontri complessi in un messaggio rassicurante per il fronte interno: la Russia non è isolata, anzi, è al centro del dibattito globale.
Per l’Europa i colloqui alla Casa Bianca hanno avuto un’importanza speciale, dopo il ruolo marginale degli scorsi mesi; proprio il sostegno a Kyiv, ribadito a Washington ieri, si è accompagnato alla volontà discutere di pacchetti di aiuti economici e militari coordinati con gli Stati Uniti, e l’assenza dei rappresentanti dell’ala più dura nei confronti di Mosca, accompagnata dalle dichiarazioni di Stubb sulla necessità di lavorare a una soluzione nei rapporti con la Russia, sull’esempio della risoluzione del conflitto finno-sovietico ai margini della Seconda guerra mondiale, sembrerebbero aver rafforzato l’Unione Europea, in asse con la Gran Bretagna.
Dall’altro lato, però, la telefonata in diretta di Trump a Putin è sembrata voler consegnare anche un altro messaggio: l’Europa resta importante, ma non decisiva. Le capitali europee sono divise, e vedono lo scetticismo dei governi di Varsavia e dei paesi baltici di fronte ai risultati ottenuti da Germania, Francia e Italia: si teme che la disponibilità di Trump verso il Cremlino possa tradursi in concessioni a danno della sicurezza regionale. A Roma, a Berlino, a Parigi, invece la posizione appare chiara: sostegno all’Ucraina, ma apertura a un processo negoziale che almeno possa provare a giungere a una pace senza umiliazioni per Kyiv. A Bruxelles, infine, si è discusso di nuove sanzioni economiche, proposte anche all’interno dei colloqui, dimostrazione di un’Europa che non vuole lasciare la guida della partita esclusivamente a Washington e Mosca.
E la pace?
In Alaska ad affermarsi è stata la logica bilaterale delle grandi potenze che aveva relegato l’Ucraina a oggetto della trattativa, rafforzando l’immagine internazionale della Russia, non più isolata in Occidente; a Washington, invece, l’Ucraina è tornata soggetto politico, pur in una posizione vulnerabile, stretta tra le pressioni americane, l’aggressività russa e le debolezze europee. Eppure, la differenza più evidente è che ad Anchorage la Russia ha ottenuto un successo senza offrire nulla; a Washington, Kyiv ha ritrovato visibilità, ma ha dovuto confrontarsi con il rischio di compromessi dolorosi.
Il bilancio di questa intensa settimana di agosto è complesso. Putin ha guadagnato in immagine, Trump ha cercato di accreditarsi come “uomo della pace”, Zelensky ha ritrovato un ruolo centrale ma sotto fortissima pressione, e l’Europa ha cercato di restare unita pur nelle sue divergenze. Resta adesso l’incognita più importante: l’annunciato incontro tra Putin e Zelensky, ritenuto prossimo da fonti della Casa Bianca, a cui dovrà seguire un trilaterale con Trump; se davvero avrà luogo, sarà un banco di prova decisivo per misurare quanto la diplomazia sia capace di incidere su un conflitto che, nel frattempo, continua a produrre morti ogni giorno.
Dopo anni di stallo, proclami improvvisati, ricerca dell’hype, all’incontro di ieri Washington finalmente sembrerebbe esser tornata protagonista la diplomazia, eppure non bastano immagini simboliche e strette di mano: la pace, per chi è a Kharkiv, a Sumy, a Kyiv, sotto le bombe e i missili russi, appare ancora troppo lontana.
Immagine in anteprima: frame video Repubblica via Instagram







