La strage di Bondi Beach, l’antisemitismo e la saldatura globale fra violenza e identità
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L’attentato antisemita a Sydney del 14 dicembre 2025, in cui sono state uccise 15 persone e ferite 60, è il più grave attacco contro degli ebrei dal 7 ottobre 2023. Tuttavia, il mortale attacco andrebbe inquadrato in un più ampio slittamento del conflitto politico globale in cui la violenza assume un tratto centrale.
Gli attentatori sono Naveed Akram e Sajid Akram e la motivazione ideologica, stando alle ultime ricostruzioni, era fornita dal fondamentalismo islamista. A disarmarli è stato un uomo musulmano, Ahmed el Ahmed. Il fatto che la religione di carnefici ed eroi sia la stessa ha permesso di disinnescare, almeno in parte, il richiamo della mortifera retorica dello scontro di civiltà, alimentata da una diffusissima islamofobia.
L’episodio, assieme agli omicidi, nell’ultimo anno di altri ebrei a Manchester, Washington, Boulder (Colorado) ha riaperto il dibattito sull’aumento dell’antisemitismo, stavolta con ottimi argomenti. La discussione in merito però è avvelenata dall’uso politico della categoria di antisemitismo e dalla sovrapposizione, in entrambi i sensi, da destra e da sinistra, tra ebrei e sionisti - spesso le vittime venivano attaccate in quanto “sionisti” e non “ebrei”.
Al contempo, estrema destra israeliana e globale hanno usato l’accusa di antisemitismo per delegittimare le legittime critiche politiche di natura antisionista, particolarmente accese davanti al genocidio a Gaza e alla pulizia etnica in Cisgiordania e tuttavia largamente nonviolente. Anche il centro-sinistra spesso ha fatto lo stesso, in Inghilterra e Germania. Al contempo, se molte rappresentanze ebraiche della diaspora si identificano con lo stato di Israele e il suo governo, il termine sionista – inteso come sinonimo di razzista o fascista - facilmente diventa sinonimo di ebreo. Il sionismo “reale” contemporaneo è certamente assimilabile all’estremismo razzista ma ha una storia più complessa e, tutt’ora, molte persone si identificano come sioniste senza condividere il progetto di pulizia etnica della popolazione palestinese. Inoltre, gli attentatori chiamavano le proprie vittime “sionisti” - la stessa Anna Foa, prima del suo ultimo libro, era certamente considerabile una sionista di sinistra, così come Gad Lerner, per fare gli esempi più noti.
A differenza di quanto pensano molti a sinistra, non c’è quindi un’incompatibilità necessaria tra antisemitismo e antisionismo ma la valutazione della diffusione dell’antisemitismo è senz’altro ingigantita. A contribuire al senso di pericolo e minaccia non sono però solo ragioni ideologiche ma anche la cristallizzazione dell’esperienza ebraica, fatta di due millenni di persecuzioni. Il precipitato psichico ed esperienziale – filtrato dalla tradizione orale familiare e comunitaria, oltre che dall’imponenza del genocidio nazista – amplifica così il senso di insicurezza.
Tuttavia, il massacro di ebrei a Bondi Beach, durante la prima sera di Hanukkah, va inscritto in un orizzonte più ampio: “una terza guerra mondiale a pezzi” (Bergoglio). In tal senso, Bondi Beach non è semplicemente il sintomo di una fiammata di antisemitismo globale – che pure, certamente, c’è - ma, piuttosto, del conflitto globale in cui violenza e identità si saldano a fini di omogeneità etnica o religiosa. Se il progetto cosmopolita e universalista a cui il diritto internazionale tendeva – assieme alla sperimentazione europea - era sorto in risposta alle ecatombi determinatesi sul suolo europeo, oggi vediamo il ritorno della violenza statale – Israele e la Russia incarnano il lato più mortifero del potere sovrano, nazionale o imperiale che sia – e di gruppi privi di riconoscimento giuridico ma egualmente definibili dal connubio di forza e identità, requisiti indispensabili ma insufficienti per la statualità moderna.
I soggetti della violenza infatti, da diversi decenni, non sono più i soli Stati sovrani. Ma, oltre a milizie private come il gruppo Wagner, anche gruppi armati più o meno dotati di legittimità politica: il caso afghano - con ex jihadisti passati da essere i nemici da debellare a divenire i rappresentati dello Stato - o di Gaza - dove milizie islamiste vengono finanziate da Israele in funzione anti-Hamas - mostrano che chi è considerato terrorista può ben divenire, all’occorrenza, un affidabile referente politico - non a caso “terrorista”, da un certo punto di vista, è il nome del rivoluzionario sconfitto o non ancora vittorioso.
Sullo sfondo del declino dell’egemonia statunitense e dell’affermazione della Cina (e dei BRICS), assistiamo, da un lato, alla debolezza del diritto internazionale e, dall’altro, all’apparente paradosso di un conflitto globale interno alla destra internazionale. Dagli Stati Uniti all’Iran, dall’Italia alla Russia, le forze comunemente intese come progressiste mancano di forza e, quando la posseggono, mancano di una prospettiva all’altezza delle questioni del presente.
La crisi dell’ordine unipolare statunitense, e delle istituzioni sovranazionali – invero mai davvero “in forma”, con l’Europa vaso di coccio in mezzo a potenze diversamente aggressive, ha reso difficile la possibilità di un punto di vista internazionalista, abbandonato dopo la fase altermondialista di Genova e Seattle.
Al cinismo e alla debolezza della classe dirigente europea e occidentale rispetto al genocidio a Gaza corrispondono quelli di parte della sinistra critica, regredita su posizioni rozzamente campiste, rispetto all’aggressione russa all’Ucraina.
Dal lato dell’opinione pubblica, la guerra contro l’Ucraina, dopo l’orrore di Assad, ha mostrato i limiti di chi pratica il cd. “antimperialismo degli imbecilli”: chiunque non sia gli Stati Uniti o l’Europa – dall’“asse della resistenza” a Putin - è un rappresentante o un alleato degli oppressi. Una simile visione fa sì che le posizioni degli “altri” perdano di eterogeneità e, più o meno paradossalmente, diventino immediatamente leggibili in termini positivi. La molteplicità diventa univocità, e le differenze ideologiche, di classe, strategiche e di interessi che dividono ogni gruppo vengono cancellate. L’oppressione non occidentale diventa libertà, resistenza – anche quando è il suo esatto contrario, come nel caso di Hamas e del suo sistema di alleanze -, un’invasione imperialistica come quella russa diventa legittima reazione all’allargamento del patto atlantico, secondo un malinteso senso del “realismo” o della cd. geopolitica, fatta di essenzializzazioni e caratteri nazionali sempre uguali (la tesi per cui la Russia “non ha mai invaso” corrisponde alla preoccupazione per una Germania che si riarma, considerata ontologicamente imperiale e, nella lettura dei peggiori, intrinsecamente “nazista”).
A questo collasso interpretativo hanno contribuito alcuni filoni di ricerca semplificati ad uso e consumo di parte dell’attivismo che abbisogna di categorie dicotomiche e semplificazioni radicali per interpretare ed agire: per questo l’Ucraina diventa “un paese di nazisti”, la NATO diventa il motore primo e immobile del male nel mondo, Hamas diviene una benigna forza di liberazione, e così via.
Jürgen Habermas, davanti all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, con la cd. coalizione dei volenterosi, descriveva il campo politico come diviso tra chi prova “risentimento” contro le presunte astrazioni di un “esangue moralismo” che, attraverso il diritto internazionale, vuole “addomesticare” il potere statale e l’alternativa dell’unilateralismo armato neoconservatore e straussiano - una vera e propria forza “rivoluzionaria”. Già allora, “l’organizzazione mondiale” non era “in grado di obbligare gli Stati membri trasgressori a garantire ai loro cittadini un ordinamento democratico e costituzionale” – Norberto Bobbio parlava di terzo assente, un potere “terzo” rispetto alle parti in conflitto. E la “politica dei diritti umani” rimase “altamente selettiva” e soggetta ai vincoli derivanti dal diritto di veto delle potenze che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’ONU. Siamo ancora in quella situazione, privi però di alcuna forma di ottimismo, sprofondati nell’orizzonte nazionalista della “geopolitica”.
Le trasformazioni del capitalismo globale ci consegnano una coesistenza di Stati e frazioni del capitale in cui le funzioni politiche ed economiche possono essere, di volta in volta, in capo agli uni o agli altri. Il diritto sovranazionale privo di potere – basti pensare alla facilità con cui Netanyahu può ignorare il mandato di cattura della Corte Penale Internazionale, anche in Europa -, si accompagna ad una società civile globale - ai tempi della guerra in Iraq, come noto, definita sul New York Times come la seconda potenza mondiale – complessivamente debole, con alcune eccezioni, come, in Italia per la Flottilla o, talvolta, in varie città globali, da Londra a New York al Cairo. L’esperimento post-nazionale dell’Unione Europea si trova costantemente sull’orlo dell’implosione, per gli errori intrinseci, per l’insufficiente ambizione e, soprattutto, per il fiorire di forze di estrema destra al suo interno che vogliono riavvolgere il nastro della condivisione di funzioni e risorse per tornare all’Europa delle nazioni, tenuta insieme da quell’incubo patriarcale e reazionario che sono le radici giudaico-cristiane. A tale debolezza contribuiscono anche le forze progressiste – si pensi alla leader socialdemocratica danese Mette Frederiksen, impegnata a picconare quello spazio europeo (e non dell’Unione Europea) dei diritti che è la CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), assieme al laburista Keir Starmer alla rincorsa di Farage sul piano del razzismo.
Habermas, sulla scorta della peculiarità della riflessione sulla colpa tedesca, ha avuto una posizione fortemente contestata rispetto al genocidio a Gaza. Tuttavia, in un suo recente intervento, ha correttamente osservato che, proprio quando l’Europa sembra essere sull’orlo del suo disfacimento, allora servirebbe più Europa (riecheggia qui la nota e stracitata tesi di Hölderlin: “Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”). Egualmente, il progetto di una cosmopoli si fa sempre più necessario, per quanto privo delle gambe su cui dovrebbe camminare, e a fronte dei molteplici ostacoli – dalla necessità di una riforma della composizione del Consiglio di sicurezza ai meccanismi di selezione della Assemblea generale, per dire solo i primi relativi alle Nazioni Unite, peraltro sotto attacco dagli stessi Stati Uniti. Così come è necessario un movimento transnazionale, contro guerra e identitarismi, che lotti non per una parte o per l’altra nei vari conflitti che esistono ma si batta affinché le distinzioni identitarie vengano abolite, anche al fine di redistribuire potere e risorse.
Immagine in anteprima: Sardaka, CC0, via Wikimedia Commons







