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Dopo 11 anni, in Siria si continua a morire e a combattere

14 Novembre 2022 7 min lettura

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Dopo 11 anni, in Siria si continua a morire e a combattere

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Sessanta civili, tra cui dieci bambini e cinque donne, hanno perso la vita in conseguenza delle violenze che si sono consumate in Siria nel mese di ottobre 2022. Lo rende noto il Syrian Network for Human Rights nel suo rapporto mensile sulla situazione nel paese mediorientale. Una tragica conta che da quasi dodici anni continua a rinnovarsi. Il documento evidenzia che a causare le vittime sono stati soprattutto gli scontri armati tra la formazione terrorista di Hayat Tahrir al Sham e altri gruppi armati che operano nel nord ovest del paese. In quella stessa zona domenica 6 novembre i bombardamenti del governo siriano e della Russia, sua storica alleata, hanno causato sette vittime, tra cui due bambini, e il ferimento di oltre 75 civili.

Dal sogno di un cambiamento democratico all’incubo della repressione e della guerra

Prima del 2011, anno in cui sono iniziate le proteste pacifiche represse nel sangue dal governo di Bashar al Assad, con la successiva esplosione degli scontri armati, in Siria vigeva una calma apparente. A muovere i manifestanti era il desiderio di un cambiamento verso la democrazia, con richieste di maggiori aperture e inclusione e di un sostegno alle fasce più deboli della popolazione, tanto duramente colpite dalla crisi economica e dalla siccità che si era abbattuta sulla regione. Bashar al Assad, oftalmologo laureato nel Regno Unito, salito al potere nel 2000, ereditando de facto il potere dal padre golpista, il generale Hafez al Assad, aveva acceso nei siriani la speranza di un cambiamento. 

L’apertura a una reale rappresentanza politica plurale, tanto agognate dalla popolazione siriana, costituita al 70% da giovani al di sotto del 35 anni, non è mai arrivata. Basti ricordare la vicenda del Manifesto dei 99, quando nel 2005 un gruppo di intellettuali di tutte le etnie e confessioni presenti in Siria presentarono un documento programmatico per portare la Siria verso la democrazia. Dopo una prima parvenza di apertura nei loro confronti, furono arrestati, torturati, costretti all’esilio.

Le proteste iniziate nelle piazze nel 2011 avevano tre caratteristiche. Erano pacifiche, laiche e organizzate dal basso. La mancanza di una leadership era dovuta al fatto che fare opposizione in Siria è sempre stato vietato e che tutte le riunioni pubbliche dovevano essere preventivamente autorizzate dal Mukhbarat, i temibili servizi segreti. Tra gli oppositori si sono distinte alcune figure chiave, come Ghiath Matar, chiamato “il Ghandi siriano”, che offriva fiori e bottigliette d’acqua ai soldati, sperando che abbandonassero le armi e si unissero al popolo. È stato arrestato e ucciso sotto tortura nel settembre di quello stesso anno.

Quando, alla fine del 2011, Damasco ha dato l’ordine all’esercito di entrare nelle città considerate insorte e bombardare, alcuni generali dell’esercito regolare e altri militari hanno deciso di disertare, promettendo di proteggere i manifestanti e la rivolta, hanno creato l’Esercito siriano libero, che in una prima fase rifiutava l’arruolamento dei civili. Era una sfida impari. Da un lato le forze lealiste, armate di tutto punto, dall’altro i ribelli, dotati solo delle armi in loro possesso. L’inizio dei bombardamenti e delle ingerenze straniere hanno fatto precipitare gli eventi. Russia, Cina e Iran si sono da subito schierati con il regime di Assad, mentre in sostegno degli oppositori si sono dichiarati la Turchia e alcuni Paesi europei, tra cui la Francia. 

Gli Stati Uniti sono scesi in campo solo nel 2014, in sostegno delle fazioni curde schierate nella fascia orientale del paese. I paesi arabi hanno espulso la Siria dalla Lega Araba già nel 2011, quando molte ambasciate di Damasco nel mondo sono state chiuse, come segno di condanna per le azioni sanguinose del governo di Assad. Allo stesso tempo però, da molti di quei paesi sono partiti uomini e denaro per la Siria, non per sostenere la legittima opposizione, bensì per finanziare nuove milizie armate integraliste che in Siria hanno iniziato una guerra per procura, che nulla aveva a che fare con la rivolta popolare. Molti di questi gruppi armati, a cui si sono uniti foreign fighters da tutto il mondo, sono poi confluiti nell’auto proclamato Stato Islamico, una formazione terrorista che ha decimato l’opposizione siriana e ha preso di mira le minoranze, come la comunità cristiana e i Curdi, oltre a ridurre in condizione di schiavitù sessuale migliaia di donne.

I danni inestimabili del conflitto

In questi anni, il governo siriano non ha mai smesso di bombardare il suo stesso paese e dal 2014 ha al suo fianco l’esercito russo, che continua a partecipare attivamente alle iniziative belliche e a pattugliare le coste siriane con i suoi bombardieri. La Turchia, che inizialmente ha dato sostegno all’Esercito siriano libero, ne ha prima ridotto il potenziale, per poi creare un suo nuovo corpo militare turco-siriano che fa gli interessi di Ankara lungo tutta la fascia settentrionale della Siria, al confine tra i due paesi, ma anche all’interno del territorio siriano stesso, con continue incursioni militari in particolare nelle aree curde dell’est. Nella zona sud, da anni Israele bombarda postazioni di Hezbollah e di miliziani iraniani in Siria, colpendo spesso anche l’esercito di Assad.

I danni che tutte queste violenze hanno portato sono inestimabili, sia sul piano della perdita di vita umane, sia dal punto di vista della distruzione di abitazioni, infrastrutture, monumenti e siti archeologici. La coesione sociale e la fraterna convivenza tra etnie e religioni sono state profondamente compromesse dall’insorgenza di fazioni islamiste. Un primo sguardo ai numeri aiuta a comprendere la gravità e le proporzioni della crisi in corso. Secondo i dati dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), su 23 milioni di abitanti, oggi 6,9 milioni di Siriani sono nella condizione di sfollati interni e altrettanti sono profughi, divisi tra i Paesi limitrofi, la Germania e altri Stati. Ben 14,6 milioni di persone, sempre secondo l’Ocha, hanno bisogno di assistenza umanitaria, il 75% sono bambini e donne.

La Siria è disseminata di fosse comuni, a oggi non sono stati ancora avviati progetti per l’identificazione dei corpi. Ci sono poi i desaparecidos, oltre 100mila donne e uomini spariti nel nulla dopo essere stati arbitrariamente arrestati o aver subito un sequestro. Alcuni famigliari in diaspora hanno dato vita ad associazioni come Families for Freedom o Massar (The Coalition of Families of Persons Kidnapped by Isis-Daesh) per chiedere verità sui loro cari.

Damasco è soggetta a sanzioni internazionali proprio per i crimini commessi dal regime di Damasco, ma può contare sul sostegno russo, anche dopo l’inizio dell’offensiva di Mosca contro l’Ucraina, e su quello di Iran e Cina. Una recente inchiesta condotta da The Human Rights and Business Unit at The Syrian Legal Development Programme (SLDD) in collaborazione con Observatory of Political and Economic Networks (Obsalytics), ha inoltre rivelato che le Nazioni Unite hanno pagato circa 137 milioni di dollari a società siriane legate a persone sanzionate e altre figure legate al regime di Bashar al Assad nel 2019 e nel 2020. Tra le principali fonti di finanziamento della Siria oggi c’è la produzione e la commercializzazione del Captagon, una droga in uso ai soldati, un business da dieci miliardi di dollari in cui sono implicate anche le milizie libanesi di Hezbollah sponsorizzate dall’Iran.

Nelle sedi decisionali internazionali oggi la questione siriana viene affrontata sul piano della crisi umanitaria, stabilendo i budget da stanziare per le diverse emergenze, non ultima l’epidemia di colera che ha causato oltre ottanta vittime. Le stesse trattative di pace che un tempo si tenevano a Ginevra, e che vedevano l’Europa tra i protagonisti, si svolgono ora ad Astana, in Kazakistan, e sono condotte da Russia, Iran e Turchia. Assad resta al potere nonostante i crimini di guerra  commessi dal suo governo, mentre alcuni paesi arabi, gli Emirati in primis, hanno ricominciato le trattative con Damasco. Le uniche iniziative di giustizia contro membri del regime siriano sono state condotte in Germania. A Coblenza, infatti, alcuni profughi siriani hanno riconosciuto e denunciato i loro carcerieri che avevano raggiunto il paese europeo; in seguito all’arresto sono stati processati e condannati lo scorso gennaio. Una sentenza storica.

A preoccupare i Siriani oggi non è solo la crisi umanitaria – secondo l’ONU il 90% della popolazione ormai vive sotto la soglia della povertà, ma anche gli arresti arbitrari e le esecuzioni contro chi torna in patria per effetto dei rimpatri forzati avviati dal Libano e dalla Turchia. La Siria non è un Paese sicuro, nonostante i tentativi del regime di ripulire la sua immagine invitando vlogger da tutto il mondo. Damasco sta incoraggiando investitori stranieri a prendere parte alla ricca partita della ricostruzione del paese, con il turismo farà da volano, tanto che sono stati avviati progetti per l’edificazione di hotel a cinque stelle.

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L'ultima volta che la Siria ha guadagnato risalto nei media italiani è stato nel coprire il caso di Loujin Ahmed Nasif, una bambina siriana di soli quattro anni, morta di fame e sete mentre si trovava con la famiglia e altri profughi a bordo di un gommone partito dal Libano. Era l’11 settembre 2022. Esattamente un mese dopo la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine relativa alla scomparsa in Siria dal 2013 di Padre Paolo Dall’Oglio. Il gesuita, che aveva sposato le istanze dei manifestanti pacifici, era stato espulso dal regime di Damasco nel 2012 proprio per le sue denunce sui crimini che si stavano consumando ai danni dei civili. Era però tornato in Siria per amore della sua gente. Sul destino di Abuna – in arabo nostro padre – si son rincorse tante voci, mai confermate. Poi è sceso il silenzio ed è arrivata l’archiviazione. Un epilogo che, letto nel contesto generale della Siria, sembra spegnere anche l’ultima speranza di pace e giustizia per questa terra martoriata.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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