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Savina Caylin, quegli ostaggi italiani dimenticati da Frattini

28 Ottobre 2011 3 min lettura

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Savina Caylin, quegli ostaggi italiani dimenticati da Frattini

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Se oggi un turista visitasse la mia città, non potrebbe fare a meno di notare un maxiposter affisso all'entrata del Municipio, è la foto di un nostro concittadino, con la scritta "Antonio, Gaeta ti aspetta!". 

Gaeta è una città di mare del basso Lazio, a metà tra Napoli e Roma, dove c'è, da quasi un secolo, uno dei più importanti istituti tecnici nautici d'Italia, il "Giovanni Caboto", che ogni anno diploma centinaia di ragazzi che, in gran parte, intraprenderanno la carriera marittima. 
A Gaeta si vive grazie al mare, e grazie al mare vive Antonio Verrecchia, classe 1949, direttore di macchine della Savina Caylin, diplomatosi proprio in quest'istituto.
La Savina Caylin è la petroliera della compagnia "Fratelli D'Amato Armatori", sequestrata da un gruppo di pirati a largo delle coste somale nove mesi fa. 
Oltre ad Antonio, sulla nave ci sono altri quattro italiani (Giuseppe Lubrano Lavadera e Crescenzo Guardascione, entrambi di Procida; Gian Maria Cesaro, di Sorrento; Eugenio Bon, di Trieste), insieme a 17 membri di nazionalità indiana. 
Sarà per la nostra tradizione marittima, ma dalla notizia del sequestro in poi, Gaeta nel suo complesso ha avuto un comportamento di cui, personalmente, vado orgoglioso: in questi nove mesi tutta la comunità gaetana si è stretta attorno alla famiglia Verrecchia: centinaia di lettere inviate alla Farnesina, sit-in di fronte il Parlamento, diverse fiaccolate, organizzazioni marinare in mobilitazione.
Nonostante ciò, a Gaeta, la frustrazione è grande. 
Domenica prossima, il 30 ottobre, ci sarà l'ennesima fiaccolata per mantenere viva l'attenzione sui sequestrati, e alcuni cittadini iniziano a porsi il problema di quanto possa essere utile se, né dalla Farnesina, né dagli organi di informazione, viene data la giusta attenzione.
Il problema è che ci sentiamo soli, isolati, figli di un Dio minore che devono accontentarsi di qualche sporadico richiamo durante qualche telegiornale. 
La cosa ci turba, perché al posto del malcapitato Antonio ci sarebbe potuto essere un nostro genitore, un nostro parente, o, addirittura, avremmo potuto esserci noi. Il no-comment imposto dal Ministero degli Esteri nei primi giorni di sequestro, oggi, ci sembra solamente un silenzio rumorosissimo, che cela, in realtà, l'incapacità e l'inerzia del Governo.
Se ci aggiungiamo che solo venti giorni fa per un caso analogo (la nave italiana, sequestrata da pirati, con a bordo italiani liberati da un blitz il giorno seguente), il subbuglio è stato grande, dalle dichiarazioni eroiche di Frattini ai titoli in prima pagina di tutte le maggiori testate giornalistiche, allora il turbamento si amplifica, e ci si chiede perché non ci è stato riservato lo stesso trattamento. 
Diciamo che il caso non è stato seguito come quello di Parolisi (caso importante, per carità, ma qui si parla di cinque italiani tenuti in ostaggio da nove mesi in un posto non proprio tranquillo e pacifico, che hanno tutto il diritto di essere seguiti 24/7 dagli organi di informazione), e, solo l'altro ieri, la trasmissione Chi l'ha visto? ha dato la giusta visibilità al caso. A parlare proprio Verrecchia, insieme a Bon, che ha espresso la disperazione di tutto l'equipaggio per il fatto che oramai sono due settimane che le trattative per il dissequestro tra l'armatore e i sequestratori si sono fermate.
A detta di Verrecchia, tre degli italiani sono stati portati sulla terra ferma e di loro non si hanno più notizie (probabilmente sono stati venduti ad altri pirati), mentre coloro che sono rimasti sulla nave vivono in condizioni igieniche insostenibili, continuamente minacciati e torturati. 
Ascoltare Verrecchia, ieri, è stato consolatorio. 
Finalmente si è rotto un muro contro cui, tutti noi cittadini di Gaeta, abbiamo sbattuto per nove mesi. Finalmente l'Italia sa che Antonio e tutti gli altri membri dell'equipaggio sono stati rapiti e che stanno morendo. Finalmente se ne parla, ci si indigna, ci si chiede come mai non se ne è parlato fino ad adesso, come mai non è stato fatto nulla fino ad adesso.
Ora più che mai è importante mantenere viva l'attenzione su questi uomini, perché possano tornare a casa, grati di vivere in un'Italia che ha provato turbamento nel sentire la voce di un Verrecchia stremato, e non sentirsi umiliati dalla propria nazione, indifferente di fronte alla lenta agonia di suoi cinque figli. Perché se l'Italia vuole essere un Paese civile deve dimostrarlo prima di tutto a coloro che oggi sono in seria difficoltà, laggiù in Somalia. 
Giuseppe Stamegna

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