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La vittoria di Meloni e le riflessioni che impone a sinistra sulle questioni di genere

17 Ottobre 2022 7 min lettura

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La vittoria di Meloni e le riflessioni che impone a sinistra sulle questioni di genere

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di Giulia Siviero

La questione del protagonismo delle donne in politica premiato più a destra che a sinistra non è affatto nuova, ma la vittoria di Giorgia Meloni l’ha riproposta in un modo eclatante e non più aggirabile: mostrando, in modo altrettanto eclatante, tutti i paradossi di quell’area che storicamente più delle altre è stata investita dalla domanda posta dalla politica delle donne. 

Nessuno ha scavalcato nessuno

«A sinistra c’è sempre stato tutto ‘sto femminismo, le donne qua, le donne là, io sono mia eccetera, però a una donna a sinistra non è mai stata data la possibilità di ambire a un posto di potere. Mai, sempre uomini». Così mi diceva poco prima delle elezioni un tassista romano, augurandosi la vittoria di Giorgia Meloni, anche in nome del genere: «Una donna e una donna di destra».

Poco dopo quella conversazione, il 22 settembre, Meloni stessa rivolgendosi ai politici e alle politiche di centrosinistra aveva scritto su Twitter di comprendere «il loro nervosismo: passano tutto il tempo a fare discorsi sull'emancipazione femminile e l'unica donna che si candida apertamente a Palazzo Chigi è dell'altra parte politica. Mi dispiace». 

Il sentimento molto diffuso (e dato quasi per scontato) è che avrebbero dovuto essere il centro-sinistra e la sinistra i primi a esprimere in Italia una leadership femminile. E nel momento in cui questo non è avvenuto, l’impressione è che il centro-sinistra e la sinistra si siano fatti fregare il tema. Eppure, non c’era moltissimo da sottrarre da quelle parti e il modo in cui la sinistra ha assunto la politica delle donne conteneva già all’inizio l’eterogenesi dei fini che poi si è prodotta. 

Le ragazze che hanno contestato Laura Boldrini durante la prima manifestazione politica che si è tenuta dopo l’esito delle elezioni dello scorso 25 settembre (e non a caso organizzata dai movimenti femministi) l’hanno mostrato bene. «Cosa rappresenti?», le hanno gridato. L’ex presidente della Camera dei deputati ha risposto che stavano sbagliando avversario. Non era vero, hanno risposto loro.

Come sarebbe stato possibile, ad esempio, l’attacco all’aborto e ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne portato avanti in molte regioni governate dalle destre senza l’indifferenza o la complicità del centro-sinistra? È con il centro-sinistra al governo che l’Agenzia italiana del farmaco aveva riclassificato gli ultimi anticoncezionali ormonali che ancora erano a carico del servizio sanitario nazionale dalla fascia A (e dunque rimborsabili) in fascia C (e dunque a carico delle persone). Ed è sempre durante un governo di centro-sinistra che è stato pensato il Fertility Day per invitare le donne a riprodursi il prima possibile, che le donne hanno continuato ad essere nominate quasi esclusivamente come madri, che hanno continuato ad essere difese le idee di un sistema familista e di un welfare ancorato alla famiglia (cioè alla donna). Molto, insomma, non è stato fatto. Ma c’è di più. 

Le donne al mercato della politica

Alla radice del problema c’è il rapporto della sinistra con il femminismo e con i propri automatismi sessisti e maschilisti di cui non solo non è riuscita a liberarsi, ma di cui con tenacia non ha voluto liberarsi.

Durante l’ultima direzione nazionale del PD, nata dalla necessità di analizzare le ragioni della sconfitta alle elezioni, il segretario dimissionario Enrico Letta ha fatto notare che la vincitrice, Giorgia Meloni, era stata apprezzata anche per il fatto di essere una donna giovane. Letta, ma non è la prima volta, ha criticato l’incapacità del suo partito di rinnovarsi e di avere una maggiore presenza femminile: «Grazie a chi mi ha chiesto di restare, ma serve una donna giovane». 

Qualche giorno prima, raccontando la direzione che si sarebbe tenuta da lì a poco, e citando le varie ipotesi per le cariche di vertice all’interno del partito e nel nuovo governo, Repubblica commentava che i nomi che circolavano erano sempre i soliti, tutti di uomini. E che questo, oltre a creare malumori diffusi, poneva il tema della scarsa presenza femminile nei posti di vertice: «Da compensare piazzando una donna».

Una donna “di servizio" e “una donna da piazzare” sono le espressioni che meglio riassumono come la sinistra e il centrosinistra abbiano risposto alle questioni radicali poste dalla politica delle donne fin dagli anni Settanta.

Per il femminismo più radicale il punto non è mai stato quello di chiedere l’inclusione femminile nel patto sociale maschile, ma quello di cambiare il patto: reinventando il chi, il cosa e il come della politica stessa. Quel femminismo, scriveva Rossana Rossanda, «sembra aver individuato un terreno di totale rivolgimento, diverso da quello delle rivoluzioni del secolo scorso (…) un terreno sul quale nessuna rivoluzione è arrivata mai (…) È il rivolgimento di quel potere che non sta nel dispotismo del tiranno o nelle leggi dello stato, o nell’arbitrio del padrone, ma nel dominio che da millenni il maschio esercita sulla femmina, e che ha modellato non solo la subalternità della donna, ma la concezione - noi diremmo l’ideologia - che l’insieme dell’idea di potere degli uomini, la tradizionale sfera politica, porta in sé». 

Alle proposte così smisurate della rivoluzione femminista la sinistra non solo non ha saputo rispondere, ma vi ha posto degli ostacoli: ibernandone la portata eversiva, assorbendone le istanze compatibili con il sistema e ricacciando tutto il discorso su un terreno già tracciato da altri e che gli uomini frequentavano da tempo. Quello delle dimensioni, della quantità e delle “quote”, intese non come strumento per dare spazio alle politiche delle donne, ma come obiettivo auto-conclusivo. Così facendo è stata legittimata una nuova mistica della femminilità che, come ha spiegato la filosofa femminista Ida Dominijanni nel libro “Il trucco: sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi” non puntava più a “fare la differenza” nella politica, ma solo a pareggiare i conti. In questa operazione di addomesticamento le donne, comprese quelle che la politica la facevano e la fanno, sono state ridotte a soggetto discriminato in cerca di diritti: da tutelare o da valorizzare.

Il paradosso è che dopo aver sagomato un femminismo esclusivamente basato su quote e parità chi l’ha rivendicato come proprio obiettivo prioritario l’ha placidamente tradito e aggirato. Il meccanismo della legge elettorale vigente, il Rosatellum, prevede ad esempio alcune misure per incoraggiare l’elezione di candidate: molti partiti, tra cui il PD, hanno semplicemente pluricandidato le proprie esponenti un po’ ovunque, mentre i candidati uomini sono stati tendenzialmente presentati in meno collegi e alla fine favoriti. Fratelli d’Italia è il partito, tra quelli più grandi, che ha eletto meno donne. Ma al secondo posto c’è il PD. 

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Complicità

Durante l’assemblea nazionale del PD diverse esponenti di partito hanno denunciato la percentuale bassa di donne elette, chiedendone conto al segretario dimissionario e pretendendo una gestione paritaria delle nomine future nelle istituzioni e nel partito. Simona Malpezzi, capogruppo uscente al Senato, rieletta, ha ad esempio detto: 

Anche se Meloni non fa politiche per le donne né promuove la parità di genere nel suo partito, il giorno che si insedierà a Palazzo Chigi con il compagno che la segue tre passi indietro sarà una scena di grande impatto simbolico, che ci deve interrogare. 

Così posto, l’interrogativo non sembra però portare ad alcuno scarto, ma lascia trasparire piuttosto una velata invidia nei confronti di chi è stata semplicemente più brava, di chi su quella medesima strada che anche le donne della sinistra sembrano voler continuare a intraprendere, ce l’ha fatta. 

Il punto - e nonostante si sia arrivate a questo punto - sembra dunque essere sempre lo stesso: pretendere dal potere maschile una concessione di maggiore rappresentanza. E ammesso e non concesso che arrivare ad occupare il vertice sia l’obiettivo, come mai la presa di parola delle donne dei partiti della sinistra si configura quasi sempre come una lamentazione a cose fatte? Quali pratiche realmente trasformative hanno messo in campo?

Qualunque siano le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, la domanda più inquietante e decisiva riguarda le donne stesse che fanno politica all’interno della sinistra: la loro diffusa capacità di adattamento, la loro postura di eterna attesa, la loro rivendicazione complice di un femminismo subalterno e ausiliario in grado solo di riprodurre i rapporti di potere esistenti e non di trasformarli. Come ha scritto recentemente Lea Melandri «hanno fatto dell’emancipazione una scalata al potere nelle stesse forme in cui lo abbiamo ereditato, senza mettere in discussione il patriarcato, le sue gerarchie, i suoi “valori”». E sono state ovunque superate: dai compagni di partito e dalle destre.  

Il protagonismo della destra

Mentre la sinistra si è accomodata su una questione femminile fatta di discriminazioni, auto-vittimizzazione e rivendicazione di quote e ruoli di potere, la destra ha saputo nel tempo cogliere e interpretare la domanda di protagonismo delle donne, seppur rozzamente: attraverso l’apertura di uno spazio di agibilità politica basato sull’auto-promozione e la competitività. Attraverso una “valorizzazione” basata sui valori tradizionali («Sono una donna, sono una madre, sono cristiana», ha detto Giorgia Meloni nel famoso discorso di piazza San Giovanni dell’ottobre 2019) e attraverso una logica emancipazionista basata sul dogma “una per tutte”. 

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Le donne che oggi hanno raggiunto posti di potere nella destra, e non solo in quella italiana, sono perfetti “uomini di partito” che hanno saputo incarnare l’unico modello di potere che avevano a disposizione, quello maschile. Non hanno preteso di fare la differenza o di ridefinire gli equilibri, come chiedeva il movimento femminista. Ma non hanno nemmeno chiesto a nessuno di fare loro spazio: si sono sfacciatamente adeguate a metodi, modalità e dinamiche esistenti, senza l’impaccio un po’ insincero di non volerlo fare.

Le donne di partito che oggi vogliano realmente trasformare il loro spazio in qualcosa di vagamente “femminista” non dovrebbero semplicemente aspirare a “una sostituzione di genere”: ma, come dice la scrittrice statunitense Rebecca Solnit, dovrebbero voler «cambiare l’immaginario del cambiamento». Proprio perché c’è qualcosa, nel cambiamento sinora e sin qui preteso, che evidentemente non ha funzionato. 

Immagine in anteprima via Il Fatto Quotidiano

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