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La fine dell’incubo non è l’inizio del sogno: Siria, un anno dopo

8 Dicembre 2025 9 min lettura

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La fine dell’incubo non è l’inizio del sogno: Siria, un anno dopo

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La mattina dell’8 dicembre 2024, dopo aver appreso la notizia della “Siria senza Bashar al Assad”, come aveva annunciato alle ore 6:18 locali in mondovisione un cronista della TV di Stato siriana, ho comprato una rosa bianca. L’ho alzata al cielo, dedicandola a Hamza al Khatib e a tutte le vittime innocenti della Siria. 

A distanza di quasi un anno, mentre cerco di ripercorrere tutto ciò che è accaduto nel paese, il mio sguardo dallo schermo del laptop si sposta continuamente verso il davanzale della finestra, dove abita, tra le altre, una piantina di rose bianche. È rimasto un solo fiore, con lo stelo lunghissimo, che in questa mattina uggiosa di dicembre sembra incarnare e celebrare la resilienza. 

Non voglio tagliarlo, lo lascio lì con tutta la sua bellezza e lo dedico ad alcune persone a cui non avevo mai dedicato nulla, gli idealisti. Uso questa parola per me bellissima, per descrivere le persone che credono fermamente in un nobile ideale e la Siria, di idealisti, ne ha avuti e continua ad averne molti. 

Alcuni, purtroppo, sono morti proprio per difendere ciò in cui hanno creduto, per cui si sono esposti e hanno lottato con la sola forza delle loro voci. Altri, per fortuna, sono sopravvissuti. Donne e uomini che hanno visto la rivoluzione nascere e che hanno contribuito loro stessi ad animare, e oggi si guardano intorno e si sentono ancora increduli, ma anche disorientati. L’impossibile, la fine del regime, è diventato realtà, un incubo durato oltre mezzo secolo, con gli ultimi quattordici anni passati in condizione di guerra, è finalmente finito. 

Nessuno si illudeva che bastasse la fuga di Assad perché la situazione in Siria apparisse rosea, che libertà, democrazia e giustizia diventassero realtà in un tempo breve. C’era la consapevolezza di trovarsi di fronte a un paese ridotto, per buona parte, in macerie, con due terzi della popolazione in condizione di profughi e sfollati interni e una povertà senza precedenti diffusa ovunque. 

Si sapeva che andavano curate molte ferite, molti traumi personali e collettivi seguiti alle violenze, alle paure, alle privazioni e che bisognava fare i conti con questioni che in guerra non vengono affrontate come emergenze, anche se lo sono, a cominciare dall’analfabetismo che si è diffuso come un virus tra le nuove generazioni, al bisogno di verità e giustizia per le vittime, ma anche per i mafqudin. Scrivo in arabo questa parola, che significa “scomparsi forzatamente”, come se servisse a riconoscere ovunque quelle persone a cui è stata strappata anche l’identità, inghiottite nel buco nero provocato da anni di violenze. Donne e uomini che mancano all’appello, che non sono stati trovati nelle prigioni, nelle celle all’interno di caserme dei servizi segreti, né in alcun ospedale. 

Si stima che siano circa trecentomila i mafqudin registrati negli ultimi cinquantaquattro anni, centocinquantamila solo negli ultimi quattordici. In quest’ultimo anno sono state trovate numerose fosse comuni e forse è solo lì che si potrà trovare qualche risposta. Non esiste una sola famiglia siriana che non abbia un parente scomparso nel nulla, un altro ucciso, un altro ancora fuggito lontano o sfollato. 

A prescindere dalle proprie idee, dalla propria fede o etnia, tutti hanno subito in un modo o nell’altro le conseguenze della violenza cieca e barbara che si è abbattuta sul paese, compresi gli alawiti, minoranza etnico-religiosa a cui appartiene la dinastia degli Assad, che ha goduto in questo mezzo secolo di molti privilegi e benefici. Chi, anche tra gli alawiti, non era nella cerchia ristretta dei fedelissimi del regime, nelle sua rete clientelare, si è trovato  per lungo tempo nell’impossibilità di viaggiare, di muoversi liberamente anche all’interno della Siria stessa, di operare su conti bancari. Gli alawiti che si sono dichiarati oppositori, come l’attrice Fadwa Sulaiman, diventata simbolo della rivoluzione non violenta e costretta all’esilio, hanno pagato spesso con la vita il peso delle proprie idee. Fadwa Sulaiman la immagino nel giardino degli idealisti, insieme a Bassel Shehadeh e Ghiath Matar e altri e altre noti e sconosciuti. Dove collocarli nella storia siriana?

Tra i tanti danni su lungo termine che hanno provocato il regime e la guerra, è emerso, forse senza sorprendere nessuno, l’odio settario sedimentato, covato in silenzio, alimentato dalla mancanza di qualsivoglia forma di giustizia, ma anche da una certa propaganda. In questi mesi, proprio contro gli alawiti, che sono stati sempre percepiti come complici dei carnefici, privilegiati, membri della cerchia che, seppur minoritaria, ha comandato la Siria per mezzo secolo, escludendo, mortificando, impoverendo e umiliando il resto della popolazione, si è scatenata una pericolosa deriva settaria. 

Dalla caduta di Bashar al-Assad la comunità alawita è stata travolta da una spirale di violenze che ha coinvolto anche i civili, bambini e donne inermi uccisi per il solo fatto di essere alawiti. Secondo Amnesty International, nelle città costiere di Banias, Latakia e Tartus oltre cento civili sono stati uccisi l’8 e il 9 marzo 2025 in esecuzioni sommarie, mentre fonti locali e internazionali stimano più di 800 vittime nei giorni successivi, dopo che un centinaio di uomini della sicurezza nazionale sono stati uccisi da gruppi riconducibili a sacche di resistenza del vecchio regime. 

Anche Homs, considerata tra le città simbolo della rivolta contro il regime, è stata più volte teatro di violenze e scontri tra le nuove autorità e membri della comunità alawita. Lo scorso 19 novembre è iniziato uno storico processo contro circa cinquecento uomini accusati dei massacri sulla costa, tra cui alcuni membri delle forze di sicurezza del nuovo governo. Un passo significativo, senza precedenti, ma basterà? Di sicuro non potrà riportare in vita le vittime, né cancellare il dolore dei sopravvissuti e di chi non avrebbe mai voluto che nella nuova Siria scorresse ancora sangue, che siriani uccidessero altri siriani. Il processo più atteso, quello contro Bashar al Assad e i suoi fedelissimi, forse non verrà mai celebrato e il dittatore se ne resterà indisturbato a Mosca. Questo, i siriani, non lo possono accettare.

Anche il sud della Siria continua a essere interessato da violenze, provocate soprattutto dalle incursioni israeliane nelle aree limitrofe alle alture occupate del Golan, con almeno quindici operazioni militari registrate nell’ultimo anno. Israele gioca la carta del settarismo, andando a far leva sulle simpatie di una parte della comunità drusa, evocando una protezione e rivendicando un controllo territoriale che viola tutte le convenzioni internazionali. 

Oggi la Siria, e si è visto bene in occasione delle elezioni, con tre aree escluse dalle votazioni, risulta divisa, spezzata, senza una continuità territoriale. A sud avanza Israele, nel nord est la comunità curda cerca di difendere i suoi spazi di autonomia, pur dialogando con le nuove autorità di Damasco e cercando una mediazione con la Turchia, mentre lungo la fascia costiera si registrano continuamente scontri. Le basi navali sono ancora sotto il controllo russo, mentre Damasco ha ufficializzato l’ingresso nella coalizione guidata dagli Stati Uniti contro l’Isis. Tradotto: gli ex di Hayat Tahrir al Sham – HTS, considerato gruppo terrorista fino a pochi mesi fa, oggi entrano in un gruppo di nazioni che combatte i terroristi del cosiddetto Stato Islamico. 

È una storia complicata quella siriana, molto complicata e semplificare è dannoso. Ci sono sostenitori del vecchio regime che gridano al nuovo Afghanistan e sostenitori del nuovo governo che vedono solo rose e fiori. Di fatto restano molti dubbi, molti punti interrogativi, a partire dal profilo del nuovo presidente siriano, Ahmad al Sharee, al secolo al Jolani, o forse bisognerebbe scrivere il contrario, già capo del gruppo combattente HTS. Quest’uomo, figlio di una famiglia borghese, che parla più lingue, ha un eloquio sofisticato, gioca bene a basket e a biliardo, che prende la mano della moglie, un’elegante donna laureata di Homs, è passato dall’essere un ricercato internazionale per terrorismo, con una taglia di dieci milioni di dollari sulla sua testa, ad essere definito “leader pragmatico” e “giovane, attento e tosto”, come lo ha definito il presidente americano Donald Trump, nel corso della storica visita a Washington, l’11 novembre 2025. Era dal 1967 che un presidente siriano non volava negli Stati Uniti. 

Come si definisce questo processo, che processo non è? Perché al Sharee non è mai comparso davanti a un pubblico ministero che lo accusasse di terrorismo, né davanti a un giudice che confermasse o invalidasse le accuse, né tantomeno di fronte a una corte che lo riabilitasse. Tutto è avvenuto sul piano del giudizio e del calcolo politico, svuotando le parole di significato, cancellando ogni etica, paradigma morale e senso critico. 

“La cabina di regia della nuova Siria non si trova a Damasco, né a Mosca, ma a Washington”, mi ha raccontato un avvocato damasceno lo scorso gennaio. Ho molte riserve su questa dichiarazione, ma è oggettivo che ci siano interessi internazionali che muovono anche gli equilibri in Siria. Quello del popolo pacifico che con la sola potenza della propria voce o con la forza di militari disertori potesse rovesciare un regime al potere da mezzo secolo, con il benestare della comunità internazionale, forse era un sogno. Un’illusione. Idealismo allo stato puro. La Siria è un caso da manuale sul contemporaneo concetto di Stato, con tutto ciò che implicano termini come autonomia, sovranità e democrazia. Nessun paese al mondo può essere davvero un’isola, decidere in modo autonomo il proprio destino. 

La Siria oggi si muove a velocità diverse. Chi governa vola, viene ricevuto nei consessi internazionali, firma accordi bilaterali per milioni di dollari, discute di ricostruzione e progetti, anche con gli ex nemici, dai paesi arabi alla Russia. Chi ha combattuto ed è riuscito ad aggiudicarsi un posto tra le file dei soldati e dei militari regolari si sente appagato, mentre chi non vuole sottostare a certi diktat e seguire la legge continua a mietere vittime, a praticare una vendetta che non si fermerà mai. Poi c’è chi non ha mai imbracciato un’arma, chi ha creduto nella laicità e nella natura pacifica della rivolta e oggi si sente quantomeno perplesso. C’è chi, forse per lenire il proprio dolore, si affida al cambiamento, ci crede fino in fondo. 

Ma c’è anche chi osserva preoccupato e sospira ripetendo un’espressione di desolazione, “Ya heif”, “che peccato”, dove peccato in questo caso non ha alcuna accezione religiosa. Perché, di che cosa si dispiacciono e si rammaricano oggi i sognatori in Siria? Rimpiangono forse il regime? No, questa è una certezza. Il dispiacere deriva dalla consapevolezza che la giustizia per le vittime del regime, della guerra e del terrorismo non arriverà tanto presto. Deriva dal prendere atto delle nuove violenze, delle nuove esecuzioni e sparizioni forzate, in particolare ai danni delle donne. Dal loro numero esiguo nelle istituzioni pubbliche. Dalla scarsa trasparenza con cui si cerca un equilibrio tra la garanzia di parità per tutte le fedi e le etnie e i tentativi di imporre una visione religiosa islamica della società. Pur essendo la Siria un paese a maggioranza musulmana sunnita, tra la popolazione il tema religioso non è mai stato divisivo, c’è sempre stato rispetto e fratellanza, ma mezzo secolo di “dividi et impera” e l’ascesa al potere di una formazione considerata integralista generano non poche preoccupazioni. 

Per questo in molti nutrono poche speranze di vedere presto una Siria democratica nel senso più profondo e inclusivo del termine. Circa un milione di siriani sono rientrati dalla diaspora e dai luoghi dello sfollamento; se si considera che altri 12 milioni restano ancora fuori dalle loro case, si comprende che la strada per tutti è davvero molto lunga. 

Molti siriani all’estero, ormai inseriti nei diversi paesi dove sono stati accolti, non vogliono tornare. I loro figli parlano altre lingue e per loro la Siria è solo il luogo da cui sono scappati i loro genitori, un luogo estraneo, legato al dolore. Altri sono tornati e non rinunciano a continuare a impegnarsi in nome degli ideali in cui credono. In nome di quella Siria libera e di tutti i siriani, che ha bisogno di essere ricostruita non solo fisicamente, ma proprio nei suoi legami familiari, sociali, culturali. 

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Vanno riconosciuti il lutto e il dolore di tutti, vanno abbracciati anche gli idealisti, e non accompagnati al cimitero dei sogni, perché se in un certo senso in Siria va reinventato l’alfabeto dello Stato e delle istituzioni, è fondamentale che ci sia chi conosce la grammatica e prova a scriverne e insegnarne le regole. 

Nessuno Stato democratico nasce in una notte, né in un anno. La mia rosa bianca è lì e mi fa capire che la fine di un incubo non corrisponde all’inizio di un sogno, ma di un impegno duro, faticoso, sfidante. Non si cambia la mentalità di un popolo cambiando casacca. Chi ha vissuto per mezzo secolo sotto la violenza, ha bisogno di tempo per imparare un nuovo modo di pensare e atteggiarsi. Chi ha subito la censura, le imposizioni, il silenzio, dovrà imparare ad ascoltare la propria e le altre voci, anche quelle discordanti. Durante gli anni della guerra ho letto libri di autori italiani che hanno scritto della resistenza, ma ho voluto esplorare anche l’altro terreno, quello dei vinti, per capire cosa sarebbe accaduto un giorno in Siria. Trovo molte simmetrie. La storia cambia abiti e nomi, ma spesso si ripete.

Immagine in anteprima: Asmae Dachan

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