Post

Il giornalismo, @beppesevergnini e l’empatia

4 Giugno 2012 5 min lettura

Il giornalismo, @beppesevergnini e l’empatia

Iscriviti alla nostra Newsletter

5 min lettura

Matteo Pascoletti
@valigiablu  - riproduzione consigliata

Non sono d'accordo con l’articolo di Beppe Severgnini sull'ultimo numero de La Lettura: per me è un errore ritenere che chi non la pensi come lui sulla pubblicazione delle foto di Melissa, la sedicenne vittima dell’attentato di Brindisi, sia un “anticomunicatore” incapace di empatia.

Scrive Severgnini:

Ci sono persone e organizzazioni incapaci, apparentemente, di creare un collegamento emotivo con chi legge, ascolta, guarda, segue. Sono comunicatori falliti: tirano i dardi, e non si preoccupano di sapere se hanno centrato il bersaglio.

[…] Era opportuno pubblicare la fotografia di Melissa Bassi, sedicenne di Mesagne (Brindisi), uccisa da una bomba davanti alla scuola intitolata a Francesca Morvillo Falcone? Alla fine, questo giornale ha ritenuto che fosse l’unico modo per spiegare la gravità di quant’era accaduto davanti a quella scuola. Agli adulti che l’hanno vissuto, per capire l’orrore e l’assurdità del terrorismo, basta un commento di Pietro Ichino. I ragazzi avevano bisogno di quel volto. Hanno capito per empatia.

Avendo io scritto un articolo con Bruno Saetta in cui spiegavo perché è sbagliato pubblicare quelle foto, sarei incapace di empatia. Ma proprio perché ho vissuto l’esperienza della perdita, so quanto la sola vista delle foto di Melissa non comunichi sul piano emotivo praticamente nulla di ciò che è successo. Eppure, prima di pensare e scrivere l’argomento, io l’ho sentito, anche se ero consapevole della distanza incolmabile tra ciò che è successo a Brindisi da una parte e sensazioni e ricordi dall'altra. Ho considerato questi una via verso la realtà dei fatti, ma certo non uno specchio fedele di quella realtà. Non mi sono perciò basato sul "commento di Pietro Ichino" a riguardo, che ignoro. C’è poi un altro punto nell’articolo di Severgnini che mi stupisce quanto e più del primo: considerare comunicazione empatica la pubblicazione delle foto di una vittima, da viva. Tra foto ed esperienza di un evento ci sono distanze incolmabili, distanze in cui respira il senso stesso della vita, il suo mistero, e questa distanza non dobbiamo mai dimenticarla, o ritenerla trascurabile. Lo spiega bene Robin Williams a Matt Damon, in una bellissima scena del film Will Hunting:

E su un piano più pragmatico, mi chiedo: perché mai foto della vittima da viva dovrebbero raccontare emotivamente l'attentato più delle foto scattate sul luogo dopo l'attentato?

Riprendendo le parole di Annamaria Testa (di certo non un “Anticomunicatore”) citate da Severgnini, “qualsiasi comunicatore, in quanto autore di scelte di stile (ehi! di scelte affettive!) produce mondi in cui proietta qualche parte di sé”. Certo, le foto che Melissa ha pubblicato sul suo profilo Facebook hanno proiettato una parte di lei. Dubito però che quella parte fosse “vi dico cosa si prova a morire in un attentato”. Più probabile che fosse: “questa sono io”. In seguito quei giornalisti che hanno pubblicato le foto hanno dato loro un nuovo significato, proiettando parti di se stessi in aggiunta a quelle di Melissa. Hanno proiettato, nella pubblicazione, una volontà: “cari ragazzi, vi spiego che cosa si prova quando si hanno sedici anni e si muore in un attentato”.

Hanno dunque preteso di comunicare qualcosa che non conoscono e non conoscevano, e il terreno comune che ha permesso di instaurare una comunicazione è stato proprio l’ignoranza di quell’esperienza, tanto nei giornalisti quanto nel pubblico. Un'ignoranza che dovrebbe rendere tutti molto umili nell'avvicinarsi ai fatti tragici di Brindisi. Ma anche se si fosse vissuta un'esperienza analoga (l'aver perso un figlio in un attentato) questa sofferta comunanza arriverebbe, vedendo le foto pubblicate? Davvero l'informazione si basa su "siccome il giornalista ha pubblicato le foto, allora di sicuro ha vissuto un'esperienza analoga"? Il diritto di cronaca si basa su altri presupposti, mi pare. Per tutti questi motivi la pubblicazione delle foto non è stata “empatia”, ma affettazione.

Truman Capote, citato dallo stesso Severgnini, per il capolavoro A Sangue freddo che racconta un fatto di cronaca – l’omicidio di una famiglia nel Kansas - non si limitò a guardare foto. Visitò i luoghi del delitto, si immerse nella comunità, parlò direttamente con le persone coinvolte: parenti, amici delle vittime, persone del posto e, soprattutto, con gli imputati. L'ha fatto perché Anticomunicatore privo di empatia, o perché consapevole che le foto delle vittime da vive non gli avrebbero permesso di scriverne in modo efficace e autentico?

Severgnini, parlando di empatia e giornalismo, ha inoltre fatto l’esempio di Fiorello. A dire il vero, quando penso a modelli di giornalismo sono portato a pensare ad altri esempi, non a Fiorello. E non capisco, simbolicamente, come mai tra le tante parole usate da Severgnini manchi un verbo fondamentale in un articolo che parla di giornalismo: “informare”.

Sappiamo che la fiducia nel giornalismo italiano da parte dei lettori in questo momento è molto bassa, e questo a dispetto della pervasiva volontà di empatia. Penso perciò che il giornalismo debba seriamente riflettere su quale modello e forma dare in concreto al verbo "informare". Perché, anche alla luce degli argomenti sopra esposti, trovo culturalmente irricevibile e illogica la risposta che l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, proprio sul caso di Brindisi, ha dato all’esposto di Arianna Ciccone e Bruno Saetta, quando scrive:

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Questo Consiglio, visionato il video, ha verificato preliminarmente che chi lo ha messo in onda ha avuto cura, quanto meno, di schermare il viso degli altri bambini ripresi. Quanto alla violazione delle norme a tutela dei minori, questo Consiglio rileva, innanzitutto, che molte immagini di Melissa Bassi adolescente sono state pubblicate su tutti i mezzi di informazione dopo la sua tragica morte. Il Consiglio ritiene che le immagini di Melissa Bassi bambina, pur non essendo strettamente attinenti al drammatico fatto di cronaca nel quale ella è rimasta coinvolta, siano uno strumento per ricordarla e per celebrarne in qualche modo la memoria subito a ridosso dell’attentato in cui ha perso la vita.

Questa risposta non tutela l’empatia di cui parla Severgnini, e soprattutto dice cose false, perché non tutti i volti dei bambini sono stati oscurati: solo quelli dei bambini in prima fila. È inoltre illogica dove afferma “molte immagini di Melissa Bassi adolescente sono state pubblicate su tutti i mezzi di informazione dopo la sua tragica morte”, sancendo il principio del “così fan tutti”: è facile confutare questo con “allora se tutti rubano non ha senso perseguire penalmente chi ruba”. Infine, ed è l’aspetto che mi interessa di più, la risposte dell'Ordine lombardo stimola una domanda: davvero il giornalismo ha lo scopo di celebrare la memoria e ricordare i vivi? Ho sempre pensato che questo compito spettasse ai preti o, più laicamente, agli artisti. Senza contare che, per confutare questa frase, vale quanto ho detto sul pezzo di Severgnini.

Mi viene spontaneo tracciare un filo che unisca l'articolo di Severgnini con la decisione dell'ordine. Questo filo delinea un giornalismo centrato sul marketing, come se l'informazione fosse un accessorio da offrire al consumatore. Perché a distanza di settimane, trascinata dal tempo e dal cumulo di emozioni inseguite, ha perso importanza una domanda centrale: chi ha messo quella bomba, e perché?

Segnala un errore