Fine vita: la proposta di legge della maggioranza di governo nega il diritto alla scelta e ignora la Corte Costituzionale
9 min letturaLa proposta di legge sul suicidio medicalmente assistito «cancella alla radice il diritto, che in Italia esiste da 7 anni, all’aiuto medico alla morte volontaria». Questo è uno dei commenti che si legge sul sito dell’Associazione Luca Coscioni al testo sul cosiddetto fine vita, approvato il 2 luglio scorso dalla Commissione Giustizia e la Commissione Sanità del Senato, e ne rappresenta la sintesi. L’articolato si intitola “Disposizioni esecutive della sentenza della Corte Costituzionale del 22 novembre 2019, n. 242”, ma rispetta solo formalmente le indicazioni fornite dalla Consulta in tale pronuncia. Di fatto, esso crea un sistema più restrittivo di quello delineato dalla Corte, vanificando il diritto al suicidio assistito, come dice l’Associazione.
Il contenuto del disegno di legge
Il testo è stato predisposto da un Comitato ristretto, costituito nel dicembre scorso, che aveva avuto il compito di trovare la sintesi a seguito della presentazione, nell’attuale legislatura, di cinque disegni di legge sul tema del “fine vita” (nn. 65, 104, 124, 570 e 1083).
La normativa, come anticipato, si propone di attuare le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 242/2019) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio) nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, quando ricorrano talune condizioni: che la persona il cui intento suicidario viene agevolato sia «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». «Si tratta» - dice la Consulta - «di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare».
L’art. 1 qualifica il diritto alla vita come «diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento».
L’art. 2 modifica l’art. 580 c.p., che attualmente punisce chi «determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione», introducendo un nuovo comma, ai sensi del quale non è punibile chi asseconda il proposito di suicidio assistito, purché ricorrano tutte le seguenti condizioni: 1) persona maggiorenne, la cui volontà si è formata «in modo libero, autonomo e consapevole», 2) «inserita nel percorso di cure palliative», 3) dipendente da «trattamenti sostitutivi di funzioni vitali» 4) «affetta da patologia irreversibile, 5) fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, ma pienamente capace di intendere e di volere».
L’art. 3 interviene sulla legge n. 38/2010, in tema di cure palliative e terapia del dolore: al fine di garantirne il rafforzamento e l’attuazione, e ridurre le differenze territoriali nella loro erogazione, prevede che le regioni ove esse non siano garantite possano essere commissariate e attribuisce un ruolo di monitoraggio all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS).
L’art. 4 dispone che le condizioni per accedere al suicidio assistito devono essere state accertate da un Comitato Nazionale di Valutazione, formato da sette componenti, «di cui un giurista, un bioeticista, un medico specialista in anestesia e rianimazione, un medico specialista in medicina palliativa, un medico specialista in psichiatra, uno psicologo e un infermiere». I componenti del Comitato sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio, durano in carica cinque anni, con possibilità di rinnovo per due volte, e svolgono l’incarico a titolo gratuito. Il Comitato si pronuncia entro sessanta giorni dalla richiesta, ma il termine può essere prorogato. In caso di parere negativo sulla prima istanza devono passare sei mesi per poterne proporre una nuova. Inoltre, l’art. 4 vieta che «il personale in servizio, le strumentazioni e i famaci, di cui dispone a qualsiasi titolo il Sistema Sanitario Nazionale» siano «impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita», con la conseguenza che chi richiede il suicidio assistito debba rivolgersi a strutture private o estere.
Il mancato rispetto alla sentenza n. 242/2019
Il nuovo testo va oltre i paletti posti dalla Consulta per il ricorso al suicidio assistito, ponendo condizioni ulteriori. Ad esempio, si richiede che le sofferenze della persona che chiede di morire siano sia fisiche che psicologiche (congiunzione “e”) mentre la sentenza consentiva che la sofferenza fosse anche solo di un tipo (disgiuntiva “o”). Ma non c’è solo questo. Proviamo a esaminare i singoli profili per i quali la bozza di legge ostacola la possibilità di ricorrere alla morte volontaria.
- Il Comitato nazionale di valutazione
Si dispone che sia un “Comitato nazionale” a valutare la sussistenza delle condizioni per procedere al suicidio assistito. La Corte Costituzionale, invece, aveva previsto che tale valutazione fosse operata da «una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». L’intervento del Comitato dovrebbe essere meramente tecnico-consultivo, per non incidere sulla libertà di autodeterminazione della persona che decide di ricorrere al fine vita. Tuttavia, il fatto che i suoi componenti siano scelti dalla politica induce a pensare che la scelta potrà essere basata sulle loro convinzioni personali circa il tema in questione, con la conseguenza di distorcere il tipo di valutazione che il Comitato è chiamato a fare. Insomma, il Comitato, composto da persone individuate dal governo pro tempore, rischia di essere un comitato etico più che un comitato di effettiva verifica delle condizioni per poter procedere al fine vita. Peraltro, esistono da anni Comitati etici territoriali e un Comitato nazionale di bioetica, quindi non si vede il motivo, se non “politico”, che renda necessario istituirne uno ulteriore.
Infine, il testo di legge non dispone garanzie procedurali, cioè rimedi da esperire contro il diniego del Comitato, e questo rappresenta un vulnus per chi chiede che sia riconosciuto il suo stato di sofferenza e le altre condizioni che lo legittimano a chiedere il suicidio medicalmente assistito.
Contro la disposizione che prevede il Comitato nazionale si è espresso efficacemente, in punto di diritto e non solo, Monsignor Renzo Pegoraro, in un’intervista: «Nella mia esperienza verifico che è sempre importante incontrare il malato, avere un dialogo reale, avere una visione concreta della sua situazione molto personale: un unico comitato nazionale credo che faccia fatica ad andare in casa del malato» - al contrario di quanto possono fare i Comitati territoriali, aggiungiamo noi - «per capire il suo vissuto e vedere quali sono i suoi bisogni e quali le risposte concrete alla sua situazione. Rischia di essere qualcosa di un po’ astratto e lontano dalle singole persone e dai loro vissuti».
- La dipendenza da «trattamenti sostitutivi di funzioni vitali»
Come ha affermato Filomena Gallo - avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni – la proposta di legge cambia i paletti stabiliti dalla Corte costituzionale anche perché restringe l’accesso al suicidio assistito solo alle persone collegate a macchinari («dipendenti da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali»), escludendo chi dipende dall’assistenza di terzi.
Al riguardo, va ricordato che, successivamente alla sentenza del 2019, la Corte Costituzionale ha ampliato la portata del requisito del trattamento di sostegno vitale, includendo tutte quelle procedure che, indipendentemente dal loro grado di complessità tecnica e di invasività, sono compiute da familiari o caregivers, e in assenza delle quali il paziente morirebbe (sentenza n. 135 del 2024). «Nella misura in cui tali procedure – quali (…) l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019».
Dunque, la bozza di legge, che cita esclusivamente la dipendenza da «trattamenti sostitutivi di funzioni vitali», senza tenere conto dell’interpretazione più estesa che ne ha dato la Consulta, appare contraria al principio posto da quest’ultima, e ciò rischia di rappresentare uno dei profili di illegittimità.
- L’inserimento nel percorso di cure palliative
Il nuovo testo inserisce una condizione ulteriore per ricorrere al suicidio assistito rispetto a quelle fissate dalla Corte Costituzionale: l’inserimento della persona malata in un percorso di cure palliative. Queste ultime identificano un insieme di interventi terapeutici, assistenziali e psicologici rivolti alle persone affette da una malattia inguaribile, in fase avanzata o terminale, con l’obiettivo di alleviare il dolore e altri sintomi.
La disciplina è contenuta principalmente nella legge-quadro 15 marzo 2010, n. 38, intitolata “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, che riconosce l’accesso a tali cure e alla terapia come diritto inviolabile della persona e detta principi base per la loro erogazione; e nella legge 22 dicembre 2017, n. 219, contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento - DAT”.
Quest’ultima normativa, integrando le previsioni di quella del 2010, stabilisce che nessun trattamento sanitario – tra cui rientrano ventilazione, idratazione o alimentazione artificiali – può essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato del paziente, il quale può al contempo chiedere terapie palliative e sedazione palliativa profonda continua. Per fare tutto questo, «ogni struttura sanitaria pubblica o privata» ha l’obbligo di predisporre strutture attrezzate e idonee, dotate di personale adeguatamente preparato.
Esponenti della maggioranza sostengono erroneamente che le cure palliative erano state già previste come paletto dalla Corte Costituzionale per poter accedere al suicidio assistito. Così non è. La sentenza n. 242 del 2019 afferma testualmente che deve «essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010». Garantire non significa obbligo di fruire di tali cure, quale condizione per il fine vita.
Un’ultima considerazione. L’articolo 32 della Costituzione prevede il diritto alle cure, ma anche il diritto a non essere curati, salvo che ciò non sia disposto da una legge. A quali condizioni una legge approvata dal Parlamento può limitare il diritto a rifiutare le cure, in questo caso quelle palliative? Dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e dalla dottrina che l’ha commentata si evince che il sacrificio di tale diritto è ammesso solo quando il suo esercizio da parte del singolo rappresenterebbe un concreto pericolo per la collettività (basti pensare all’obbligo di alcune vaccinazioni, da ultimo quella contro il Covid). Evidentemente, l’imposizione delle cure palliative a un malato che voglia ricorrere al suicidio assistito non è volta a scongiurare un tale pericolo.
- Il divieto di ricorrere al Servizio Sanitario Nazionale
La bozza di legge vieta esplicitamente l’impiego di personale, strumenti e farmaci del Servizio Sanitario Nazionale per agevolare il suicidio assistito. Come ha sottolineato Alfredo Bazoli, senatore del Partito Democratico, nella seduta delle Commissioni riunite nella quale è stato presentato il testo di legge in questione, l’esclusione del «soggetto pubblico, apre ad un’area grigia a cui le persone vengono esposte una volta che abbiano preso la decisione di accedere al suicidio assistito». Ivan Scalfarotto, senatore di Italia Viva, nella medesima riunione ha fatto presente che i medici «non hanno solo il dovere di curare le persone ma anche di assisterle. Nel caso di malattie incurabili, ad esempio, l’assistenza del Servizio sanitario nazionale è affermata nei fatti; analogamente, nei casi di cui alla legge 194 del 1978, il medico assiste la paziente nella procedura pur non trattandosi di una cura».
Escludere l’intervento del Servizio Sanitario Nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito non solo renderebbe tale pratica esclusiva prerogativa di persone abbienti, determinando una disparità di trattamento di dubbia costituzionalità, ma creerebbe nell’ordinamento anche una situazione paradossale: per l’interruzione di una gravidanza la persona non può rivolgersi al soggetto privato, ma solo a quello pubblico, mentre per l’interruzione della propria vita la persona potrebbe rivolgersi solo al soggetto privato, e non a quello pubblico. Peraltro, l’obiezione di coscienza che può essere esercitata da medici e personale sanitario nel primo caso, potrebbe essere prevista anche per il secondo.
Un’ultima osservazione. La senatrice Maria Stella Gelmini, componente del Comitato ristretto per la redazione del testo normativo, ha affermato che quest’ultimo «difende, conserva, e prova a preservare la vocazione del Servizio sanitario nazionale a difendere la vita», e perciò è escluso che quest’ultimo debba intervenire «nel procedimento di morte assistita». Nel formulare tali osservazioni, la senatrice mostra di non tenere in adeguata considerazione il quadro giuridico attuale. La libertà di autodeterminazione di ogni persona, riconosciuta pur in mancanza di un’espressa previsione costituzionale, in ambito medico significa diritto a una morte dignitosa, come espressione della «piena libertà dell’individuo di scegliere quali interferenze esterne ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo senso, la sua dignità» (articoli 2, 13 e 32 Cost.).
Sulla base di tali considerazioni, nonostante «il fondamentale rilievo del valore della vita», la legge del 2017 sulle DAT sancisce «l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva (…) da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore)». I “terzi”, in base a detta legge, possono essere strutture sanitarie pubbliche o private.
Se, dunque, l’individuo ha il diritto di chiedere anche al Servizio sanitario nazionale di “staccare la spina”, si può forse negare – come fanno Gelmini e altri esponenti della maggioranza - che già oggi esso debba garantire, oltre alle cure, anche l’aiuto a chi decide di morire?







