La felicità è un atto politico
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Pubblichiamo un estratto del libro della scrittrice Giulia Blasi "La felicità è un atto politico. Stare bene (insieme) come forma di resistenza" (Rizzoli, 2025). Specializzata in tematiche di genere e diritti civili, Giulia Blasi collabora da anni con Valigia Blu e pubblica ogni martedì la newsletter 'Servizi a domicilio'. "La felicità è un atto politico. Stare bene (insieme) come forma di resistenza" è uno dei libri che abbiamo selezionato tra le ricompense per il crowdfunding 2026 di Valigia Blu.
Portare le emozioni nel discorso politico è sempre complicato: un po’ perché la politica come la conosciamo è informata alla cultura maschile, che non attribuisce grande valore alla sfera emotiva, e un po’ perché è davvero un attimo che il discorso scada nel sentimentalismo, o peggio, nello sfruttamento del sentimento popolare allo scopo di aizzare le masse. Parlare di «diritto alla felicità» al di fuori dell’idealismo delle dichiarazioni di principio presuppone un esame profondo di quello che siamo e di quanto spazio e valore assegniamo allo stare bene e alla realizzazione personale.
La risposta è: poco. Ed è difficile capirlo, martellati come siamo da pubblicità e contenuti che cercano di venderci, più che dei prodotti, un modo di essere. La nostra vita interiore è stata colonizzata dal marketing, che tira ogni leva identitaria possibile allo scopo di portarci all’acquisto di oggetti che dovrebbero fare di noi esattamente le persone che vorremmo essere, o almeno sembrare.
Negli ultimi due o tre anni, la mia principale voce di spesa velleitaria sono i cosmetici. Mi sembra di non averne mai abbastanza: c’è sempre una palette di ombretti che devo assolutamente possedere, un rossetto che manca alla mia collezione peraltro già piuttosto ampia, il blush definitivo, un fondotinta che sarà, infine, quello giusto per la mia carnagione. Nessuno di questi prodotti cambia nulla nella mia vita, ma ognuno di questi prodotti mi promette una trasformazione, nuova autostima o quantomeno un po’ di divertimento nell’applicazione. (...)
La felicità viene tagliata fuori dal discorso politico non solo perché inafferrabile e complessa da definire dal punto di vista filosofico, ma anche perché attiene a una sfera che la politica, soprattutto quella di un paese patriarcale come l’Italia, fatica a definire centrale. Il dibattito, in particolare a sinistra, stenta ad accettare anche solo la necessità di riconoscere il minimo dei diritti civili, quelli che possono essere riconosciuti per legge: quello alla cittadinanza, al matrimonio paritario, all’autodeterminazione dei corpi e delle identità, roba che dovrebbe essere assodata e invece viene trattata come secondaria rispetto ai «diritti sociali», concetto totemico sempre separato da quello che serve alle persone che non sono maschi bianchi eterocis. Come se le persone trans o le persone razzializzate non faticassero di più a trovare lavoro o casa. Come se per le donne non fosse rilevante dovere o meno vagare di ospedale in ospedale per trovarne uno in cui interrompere una gravidanza indesiderata. Figurarsi parlare di felicità. Roba dell’altro mondo, a destra come a sinistra.
La felicità dovrebbe essere un tema essenziale soprattutto per chi si colloca dalla parte del cambiamento. Le forze conservatrici preferiscono la gente esausta, demotivata e incazzata: una strategia molto diffusa dei governi di estrema destra, soprattutto all’atto dell’insediamento, è bombardare la popolazione di provvedimenti violenti, spesso incostituzionali, a volte simbolici (come la censura di parole e concetti), e repressivi della libertà individuale. L’obiettivo è sfiancare gli avversari, gettarli nella disperazione, fiaccare ogni resistenza, e allo stesso tempo mantenere vivo il rancore del proprio elettorato, che li ha portati alla vittoria. Eppure la politica progressista non parla quasi mai di felicità, di gioia, di emozioni positive da vivere insieme.
Quando il gioco si fa duro le femministe cominciano a giocare
Questo è il punto, mi pare, in cui i femminismi entrano in gioco, o dovrebbero entrarci, proprio perché rappresentano una pratica e una visione politica che si sono evolute lungo percorsi diversi da quelli tradizionali, dominati dal pensiero maschile.
Quando parliamo di «approccio femminista alla politica» parliamo anche di questo: non di prendere i «temi delle donne» e farne una voce di spesa separata, che non intacchi le priorità stabilite in secoli di politica in cui gli uomini hanno messo la propria prospettiva al centro di tutto, ma di rivoluzionare lo sguardo e ripensare cosa sia veramente centrale. Recuperare la felicità come bene primario della società fa parte di questa strategia, perché la felicità è fatta di tanti pezzi che si combinano insieme e su cui la politica può agire, ma sempre nell’ottica di salvaguardare il benessere emotivo delle persone, che viene quindi considerato un obiettivo comune e non una faccenda individuale. Parliamo spesso di diritto al lavoro, o alla casa: ma quale lavoro, e quale casa? Come deve essere strutturato il lavoro, in una società che abbia a cuore la felicità dei cittadini e delle cittadine?
Quanto e come va pagato, tutelato, reso compatibile con la vita privata? La casa: abitare è un diritto di base, ma come si combina, questo diritto, con lo stato dell’edilizia popolare e con la difficoltà di vedersi assegnata un’abitazione quando ci si trova in stato di evidente necessità? E cosa c’è, intorno a queste case: una comunità viva, attiva, sicura e felice, o una che fatica a tenersi insieme, oppressa dalla criminalità e dalla bruttezza (architettonica e non) dell’ambiente circostante?
Potrei fare moltissimi esempi, parlare di libertà, di autodeterminazione, di come la difficoltà di muoversi sicure nel mondo condizioni la vita delle donne, di come i continui attacchi alle soggettività trans siano tutt’altro che gratuiti, perché hanno lo scopo di mostrificarle e renderle capri espiatori perfetti per la frustrazione altrui. Finché pretenderemo di fare politica come se le emozioni non esistessero, non capiremo mai come costruire un mondo migliore. Anche solo la definizione di «migliore» non è affatto univoca, perché «migliore» per chi? E come si definisce il miglioramento? Cosa significa «stare bene» in un mondo in cui la popolazione di Israele riesce a essere fra le più felici al mondo mentre il suo governo stermina i palestinesi bloccati in un fazzoletto di terra che non hanno mai potuto abitare in pace? Non riesco a levarmelo dalla testa. Come facciamo a parlare di «diritto alla felicità», quando così tanta gente è capace di dissociarlo dal diritto alla vita degli esseri umani che ha accanto?
Forse il punto è questo: che siamo troppo abituati a pensare alla felicità come a qualcosa che si può realizzare nonostante gli altri, e non insieme agli altri. Ed è vero, indiscutibilmente, che non è la nostra sofferenza a cambiare le cose, ma la nostra capacità di farci carico di quella delle altre persone. Essere utili, incidere sulla realtà, dare un senso alla nostra vita sono tutti elementi fondativi della nostra realizzazione individuale, e quindi non è strano (anzi, è piuttosto normale) che la felicità personale sia legata alla capacità di riconoscere e alleviare la sofferenza altrui. La maggior parte della gente, però, tende a vedere l’altro solo quando fa parte della sua cerchia immediata. È molto più comune sperimentare una forma di dissociazione dai destini di chi non sentiamo vicino, figure che percepiamo alla periferia della nostra coscienza, fantasmi senza storia e senza umanità su cui è facile scaricare la colpa di tutto quello che va storto.
Se l’Italia si trova al quarantesimo posto della classifica del World Happiness Report non è certo per i Cpr che traboccano di persone detenute senza aver commesso reati, spesso solo perché la burocrazia legata ai permessi di soggiorno rende impossibile il rinnovo entro i tempi prescritti. Non è per i migranti che vengono lasciati morire in mare a poche centinaia di metri dalla costa calabrese, o perché a poche ore da quelle morti i rappresentanti del governo se ne sono andati a cantare al karaoke. Non è per ciò che succede a chi è percepito come altro da noi: è perché siamo, come collettività, un paese impoverito e incattivito, dove ognuno è abituato e incoraggiato a pensarsi solo, abbandonato dalle istituzioni, dalla politica, dalla giustizia e da ogni forma di mutualismo. È perché trattiamo i diritti come concessioni, da revocare a capriccio, quindi perennemente fragili. È perché più di metà della popolazione fa da serva all’altra metà, gratis, e lo chiama amore.
Parlare di felicità come elemento centrale delle nostre esistenze e dell’azione politica è fondamentale, e va fatto subito, senza timidezza e senza cedere al bullismo dei soliti quattro di sinistra-sinistra-sinistra-più-di-sinistra-di-te che pretendono di appiattire ogni discorso sulla piramide di Maslow dei bisogni umani, vale a dire una teoria che organizza la gerarchia delle necessità mettendo i bisogni fisiologici alla base e quelli spirituali in cima, gli ultimi raggiungibili solo a patto di avere soddisfatto i primi. Una teoria mai testata e riconosciuta dallo stesso autore come priva di riscontri empirici, nonché invalidata dal fatto che gli esseri umani sono in grado di cercare la trascendenza, l’autorealizzazione e la spiritualità anche sotto le bombe, perché non siamo organismi unicellulari privi di sistema nervoso centrale, e anche nelle condizioni più difficili saremo sempre alla ricerca di un po’ di pace, un po’ di calore, dell’amore degli altri.







