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Dario Fo tra gli studenti: ‘Siamo un popolo di disinformati cronici felici’

10 Novembre 2010 4 min lettura

Dario Fo tra gli studenti: ‘Siamo un popolo di disinformati cronici felici’

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Sono stati gli studenti (non i docenti) dell’Università di Perugia a portare Dario Fo alla Facoltà di Giurisprudenza per la lezione che ha tenuto, organizzata dall’Unione degli Universitari. È la prima volta che un Nobel per la letteratura tiene una lezione presso la seconda università più antica d’Italia. L’aula è gremita; Fo arriva ed è standing ovation.

L’affabulazione del “professore” tiene tutta la platea coinvolta per due ore intense, fatte di aneddoti, citazioni storiche, lazzi e gramelot, linguaggi espressivi tenuti insieme dalla straordinaria vitalità di Fo, che decide di parlare in piedi di fronte al pubblico, senza risparmiarsi. “Sono qui perché sto organizzando a Santa Cristina di Gubbio un convegno”, esordisce, “che la libera università di Alcatraz sta organizzando sui Seminole. “Chi sono i Seminole?”, direte voi. I Seminole, spiega Fo, sono una tribù americana che vive in Florida, la quale ha saputo resistere a invasioni, espropri e massacri da parte dei colonizzatori europei; l’unica tribù a non aver mai siglato un trattato di pace con gli invasori. Ciò è stato possibile grazie alla loro capacità di “acquisire” altri popoli, integrando, arricchendo e modificando la propria cultura, diventando presto un punto di riferimento per le tribù vicine che venivano decimate. La terra dei Seminole, per queste tribù, diventò ben presto il mito di una terra promessa in cui si sarebbe stati accettati. 


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Tutto il contrario dell’Italia di oggi, fa capire Fo, dove imperversa il mito di una “razza” che nella nostra storia non esiste, e una tendenza a svalutare la cultura: non a caso ricorre più volte l’infelice frase di Tremonti che invita a farsi un panino con la Commedia di Dante. Fo ha un’aria afflitta quando parla del nostro paese. Le sue parole sono cristalline: “È un periodo duro. Mi trovo spesso in contatto con situazioni dolorose. Sento che c’è disagio, c’è un momento di vuoto e di fatica, le persone crollano perché portato sotto una specie di muro nero”. Parla degli italiani incontrati all’estero, della sofferenza che scopre ogni volta nei loro sguardi, la consapevolezza che la loro intelligenza e la forza del loro talento è stata buttata via dal paese. Quando riporta alla platea l’appello che rivolge sempre loro “Voi siete nostri, tornate a casa, per favore”, scatta il primo applauso. 
Fo declina in tutti i modi l’importanza della cultura, partendo dalla satira, dal fare gioco. Parte addirittura, in questo excursus, dai riti propiziatori officiati dagli uomini 40mila anni fa, quando dopo la caccia si ballava per riconciliarsi con gli dèi degli animali, e la morte rientrava così, nella danza, nella festa, nel ciclo cosmico dell’esistenza. 
La risata, spiega Fo, è soltanto dell’uomo: “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti” è un proverbio che le classi dominanti romane usavano perché il potere ha sempre avuto paura che l’ironia, la capacità di sovversione che è nel comico ne mettesse a nudo le debolezze. Ad Atene, continua, per secoli si è cercato di impedire ai comici di tenere spettacoli. Quando dice che “La satira aiuta la ragione a prendere peso” ed è ancora un lungo applauso. Canta e recita per gli studenti, mostrando l’importanza della cultura come parola e gestualità: l’origine della poesia e i suoi ritmi sono popolari: esegue alcuni canti di lavoro, come quello dei vogatori veneti, i cui ritmi sono chiaramente poi confluiti nella cosiddetta “poesia colta”. Per un attore, dice, questo lavoro sul ritmo è fondamentale, poiché “la forza dell’attore è quella di rompere ritmi e condizioni”: concede perciò al pubblico un assaggio della sua specialità, il grammelot. 
Spazio alle domande da parte pubblico. “Con la cultura si mangia? Spesso fuori dall’Università è percepita come un lusso”. Fo, da grande genio, risponde ricordando lo “Zanni”, la figura più popolare della commedia dell’arte che nasce come elaborazione culturale di quei contadini affamati che affollavano le grandi città italiane, contadini resi poveri dalla stupidità delle speculazioni finanziarie. In Italia, ci fa capire Fo, abbiamo inventato sia le banche che la commedia dell’arte. 
Generosamente poi si esibisce nel celebre grammelot della fame dello Zanni: durante la breve performance il suo corpo sembra farsi più leggero, gli anni scorrere via. Si può resistere senza cultura? E Fo cita Atene e Sparta: la prima contava un gran numero di artisti, in rapporto alla popolazione, la seconda no, era una civiltà militare assai più pragmatica, diciamo una “civiltà del fare”. Inutile dire che, della seconda, si è persa quella memoria che sopravvive attraverso la cultura di un popolo, come invece non è successo per Atene. 
E sulla scia di una breve polemica circa la situazione dell’acqua pubblica nel comune, Fo ribadisce un concetto a lui molto caro: dopo aver parlato di come l’acqua privata stia provocando aspre e giuste battaglie nel ternano, invita i giovani a non stare seduti alla finestra, inerti, o immobili perché troppo arrabbiati col mondo. “In Italia”, dice, ”il disastro è la disattenzione, noi siamo un popolo di disinformati cronici felici, il termine “comune” dovrebbe entrare di nuovo nel nostro linguaggio”. 
La cultura, conclude, a volte è uno scontro, un doversi conquistare gli spazi, ma non bisogna rinunciare, proprio perché, ed è questo il significato profondo della lezione, senza una cultura che sia nelle nostre vite un popolo è tale solo in astratto, e l’individuo è solo un contenitore vuoto.

Matteo Pascoletti 
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