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In Italia non esiste un diritto alla sessualità e all’affettività in carcere

4 Dicembre 2023 10 min lettura

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In Italia non esiste un diritto alla sessualità e all’affettività in carcere

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Corte Costituzionale: 'Sì alla sessualità e all'affettività in carcere'

Aggiornamento 29 gennaio 2024: La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia. Cade così il divieto assoluto di incontri intimi dentro le carceri italiane, quando non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di ordine e disciplina.

Secondo la Corte, infatti, lo stato di detenzione, pur incidendo su termini e modalità di esercizio, non può annullare in radice la libertà di vivere il sentimento di affetto che costituisce l’essenza delle relazioni. Scrive la Corte che:

“La questione dell’affettività intramuraria concerne dunque l’individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona”.

L’associazione Antigone, in un comunicato, l’ha definita “una sentenza storica”, con la quale la Corte “ha ricordato che senza affettività, e quindi sessualità, è lesa la dignità delle persone detenute e si rischia di non rispettare la finalità rieducativa della pena. Antigone ha ricordato che la Corte “con una sentenza chiara ed esplicita, apre anche alle coppie di fatto e dunque anche alle coppie omosessuali”. "Adesso bisogna trasformare un diritto di carta in diritto effettivo”, ha aggiunto il presidente dell'associazione, Patrizio Gonnella.

Il 5 dicembre la Corte Costituzionale si è riunita per decidere se negare il diritto alla sessualità in carcere sia in contrasto con la Costituzione italiana. La decisione è attesa nei giorni successivi.

Lo farà a partire dalla vicenda di un detenuto di Terni, in Umbria, che ha presentato un reclamo al giudice di sorveglianza di Spoleto perché, ha spiegato l’uomo, recluso dal 2019, l'impossibilità di avere momenti di intimità con la sua compagna influisce sul suo rapporto di coppia e, quindi, influirà sulla sua vita fuori dal carcere, una volta espiata la pena.

Secondo il giudice Fabio Gianfilippi, che ha sollevato la questione di legittimità alla Corte, l’assenza di tutela del diritto alla sessualità intramuraria è in conflitto con la carta costituzionale e la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU). 

“Per più di un quarto di secolo non ho potuto scambiare neanche un bacio o una carezza con la mia compagna” - racconta a Valigia Blu Carmelo Musumeci, che ha trascorso 27 anni della sua vita in carcere e oggi è un uomo libero - “Anche a lei, che non aveva compiuto nessun reato, per tutto quel tempo non è stato permesso avere dei colloqui affettivi e riservati con me. Perché la pena, in questo carcere che ti priva degli affetti e delle relazioni intime, è estesa anche alle persone che ti stanno vicine”.

In Italia il diritto alla sessualità in carcere non è mai stato garantito. L’ordinamento penitenziario, in vigore dal 1975, all’articolo 18, norma i colloqui, la corrispondenza e l’informazione e non prevede, quindi di fatto nega, incontri riservati con famiglia o partner. Quello alla sessualità infatti è un diritto non esplicitamente vietato dalle norme, perché nell’ordinamento penitenziario non viene mai citato.

“Il diritto penale dovrebbe giocare a carte scoperte, quindi essere esplicito, - spiega a Valigia Blu Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone - mentre questa esplicitazione non è presente e, di fatto, illegittima”.

Se da un lato, l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario individua nei contatti con il mondo esterno e nei rapporti con la famiglia elementi di trattamento della persona reclusa, e l’articolo 28 afferma che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, i rapporti sono di fatto limitati a circa dieci minuti di telefonata a settimana e un colloquio in presenza per una o due ore settimanali.

Ogni colloquio è inoltre sottoposto al controllo visivo, e non uditivo, degli agenti penitenziari, e avviene in sale spesso affollate di altre persone detenute che incontrano i familiari.

Il diritto all’affettività in carcere

Il diritto alla sessualità si inserisce nel più ampio tema del diritto all’affettività, che comprende il riconoscimento e la tutela delle relazioni esterne delle persone detenute. L’ingresso in carcere comporta un’uscita dalla quotidianità e i legami con le persone della propria vita libera permettono di mantenere un contatto con quell’esterno al quale, alla fine della detenzione, si farà ritorno.

“Il fine della pena è reintegrare la persona nella società - afferma Marietti - per questo la vita detentiva dovrebbe essere il più possibile simile alla vita fuori dal carcere e dunque tutelare le relazioni esterne è estremamente importante. Inoltre il diritto alla sessualità è un diritto fondamentale della persona, che si lega al diritto alla salute, ma anche alle relazioni familiari e alle relazioni in senso più ampio”.

Nel caso di incontri intimi però per il nostro ordinamento le persone recluse possono esercitare il proprio diritto alla sessualità solo al di fuori del carcere, dunque quando possono uscire in permesso. Ma i permessi sono connessi alla premialità e, di conseguenza, anche la sessualità, nella prassi, è trattata alla stregua di un beneficio, a cui, oltretutto, non possono accedere, tra gli altri, le persone in custodia cautelare.

Eppure l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non garantire momenti di intimità all’interno degli spazi detentivi. Ben 31 dei 47 Stati del Consiglio d’Europa prevedono, in forme diverse e variabili, incontri affettivi nei penitenziari. 

In Italia il dibattito fu introdotto nel 1999 nella proposta del nuovo regolamento penitenziario. L’allora direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, aveva proposto che i rapporti familiari fossero “mantenuti con forme diverse dal colloquio”. Oltre alla visita, disse Margara davanti alla Commissione Giustizia del Senato, “vale a dire un colloquio in ambienti senza separazioni, con possibilità di spostamento, come oggi avviene in molte aree verdi presenti in numerosi istituti italiani”, il nuovo regolamento prevedeva “una sorta di permesso interno, rilasciato dal direttore, che consente di fruire di incontri con i propri familiari in ambienti separati da quelli dei colloqui”. 

Si parlò di «unità abitative familiari», “un mini appartamento, nel quale si soffermano per un certo numero di ore i familiari, potendo con questa espressione intendersi la moglie e anche i figli, ristabilendo così un momento di vita familiare”. L'aspetto della sessualità, secondo Margara, era da considerarsi “in definitiva ricompreso in questo concetto ma non rappresenta il momento saliente”.

Fu poi il Consiglio di Stato a stralciare quelle parti del regolamento con due ordini di obiezioni, come spiega l’avvocata Sarah Grieco nel libro “Il diritto all’affettività delle persone recluse”: l’inadeguatezza del carcere reale, dunque la mancanza di spazi idonei, e “il silenzio della legge”, che non poteva essere sostituito in sede “regolamentare attuativa o esecutiva”.

Quel silenzio della legge si è protratto fino a oggi, nonostante negli anni si siano susseguiti disegni di legge, proposte di dibattito,  un ricorso alla Corte Costituzionale e il lavoro degli Stati Generali dell’esecuzione penale.

Da quel lavoro, confluito nella legge delega 103 del 2017, era emersa un’attenzione alla tutela dell’affettività, anche se non della sessualità, che non aveva però trovato concretizzazione nel decreto legislativo poi emanato dal governo, la cosiddetta Riforma Orlando, i cui decreti attuativi furono rivisti in senso restrittivo dal successivo governo nel 2018. 

Un avvicinamento, però, c’era stato, come spiega Marietti, perché la riforma ha introdotto un ordinamento penitenziario minorile, differenziandolo da quello degli adulti, e introducendo il termine “visite prolungate” per i minori reclusi. Visite che avvengono, o almeno è previsto che avvengano, in unità abitative con sedie, tavolo, tv, angolo cottura, frigorifero.

“Il fatto che fosse stata utilizzata la parola visita e non colloquio - aggiunge Marietti - aveva fatto sperare che non rientrassero nell’articolo dell'ordinamento che prevede l'obbligo del controllo visivo, perché l’obbligo vale per i colloqui. Quindi si era auspicato che la visita prolungata potesse servire per introdurre anche una possibilità di vita sessuale per i più giovani, che restano al minorile fino a 25 anni”.

Invece, il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, nelle linee di indirizzo, ha specificato che “alla visita prolungata va applicato lo stesso regime delle visite di normale durata, i controlli saranno quelli previsti dall’art. 18 della legge 354/75 e relativo art. 37 del regolamento di esecuzione D.P.R. 230/00 e saranno svolti dal personale di Polizia Penitenziaria”.

“È stata un’occasione persa - conclude Marietti - il sistema non è stato capace di dare un’interpretazione ampia a questa novità, che come spesso accade, dal minorile si sarebbe potuta allargare al carcere degli adulti”.

Tra diritto e sicurezza

Alla tutela del diritto si contrappone un’esigenza di sicurezza. Prevedere l’applicazione del diritto alla sessualità significherebbe permettere l’ingresso a persone esterne nei penitenziari sottraendole al controllo visivo della vigilanza. 

Secondo l’Associazione Antigone, che ha presentato un amicus curiae, strumento giuridico di supporto alla decisione della Corte, la sicurezza non può costituire un impedimento totale. In questo caso, si legge nel documento, ci troviamo di fronte a “una vera e propria assenza di bilanciamento tra sicurezza e garanzia del diritto”. 

Il diritto alla sessualità, secondo Antigone, non è compresso o modificato per adattarlo alle esigenze penitenziarie, come avviene per la tutela di altri diritti in carcere come ad esempio le ferie per i lavoratori detenuti, ma “integralmente negato”.

Oltre dieci anni fa, nel 2012, la Corte Costituzionale era già stata chiamata a esprimersi sulla stessa questione, ma aveva ritenuto l’ordinanza inammissibile.  

“La situazione però allora era molto diversa”, spiega a Valigia Blu Sarah Grieco. “In quell'ordinanza mancavano degli elementi importanti: non era stato esplicitato né il regime di sicurezza in cui si trovava la persona detenuta di cui era stato sollevato il caso né gli elementi specifici che le impedivano di avere rapporti sessuali, dunque l’accesso ai permessi premio. Un intervento completamente demolitivo del controllo visivo avrebbe avuto effetti su tutti i soggetti, a prescindere dal regime detentivo, ponendo quindi una questione di sicurezza. D’altra parte una pronuncia di incostituzionalità non avrebbe di per sé garantito il diritto: abolendo soltanto il controllo visivo, ma lasciando la situazione inalterata, non erano previsti tempi, spazi e modi adeguati per la sessualità, come più in generale per l'affettività”.

Su questo punto la sentenza n. 301 del 2012 sottolinea che “il problema della sessualità dei detenuti meriterebbe, bensì, particolare attenzione nelle competenti sedi politiche”. E invece nessuna legge in merito è stata approvata e la situazione è di fatto rimasta identica. 

Se la Corte dovesse accogliere l’ordinanza Gianfilippi, l’applicazione del diritto non sarebbe dunque immediata. Applicare il diritto alla sessualità prevede un ripensamento degli spazi del carcere, una nuova gestione della sicurezza. 

Sarah Grieco ha lavorato a una proposta di legge sull’affettività, già approvata dal Consiglio regionale del Lazio e depositata in Parlamento.

“Questa proposta di legge nasce dalla voce dei detenuti - spiega Grieco, che ha intervistato oltre 240 persone recluse - Alla domanda specifica sulla sessualità molti rispondevano che avrebbero preferito di no, perché avevano in mente le attuali condizioni degli istituti penitenziari. Non avrebbero mai sottoposto la propria compagna o la propria moglie all'ingresso all'interno delle sezioni. Avrebbero voluto dei luoghi appartati con uno spazio sufficiente, anche in senso temporale, e una serie di accorgimenti. In questo senso la Corte aveva ragione nell'affermare che il diritto alla sessualità in una realtà carceraria come la nostra necessita di un intervento legislativo perché altrimenti lo scopo è assolutamente non praticabile”.

Un intervento legislativo che in questi dieci anni, però, non c’è stato, per cui la Consulta è stata chiamata nuovamente a esprimersi: “Però il magistrato di Spoleto - prosegue Grieco - sottolinea che c'è stato un lasso temporale molto elevato e non è successo assolutamente nulla”.

Un’altra novità della nuova ordinanza è la tutela del diritto alla genitorialità. “È uno degli aspetti più rilevanti, oltre ai parametri di costituzionalità già conosciuti - conclude Grieco - e che è rimasto finora sottaciuto. Nei nostri questionari detenute e detenuti  ponevano in rilievo, per sé e per i loro partner, che soprattutto nei casi di pene lunghe erano privati del diritto a diventare genitori”.

“Mi sono sempre ritenuto fortunato per il fatto di avere una compagna e dei figli fuori - racconta Musumeci - Quell’affetto è stato sempre uno stimolo, una medicina, ma ho incontrato molti detenuti giovani che avevano una relazione fuori dal carcere ma davanti molti anni di detenzione e sapevano di non poter avere figli. Per alcuni di loro quel non poter diventare genitori, quel perdere le relazioni fuori dal carcere, li faceva sentire profondamente soli e senza speranza, senza un motivo per migliorarsi”.

Privazioni o punizioni? 

“È il carcere la punizione, non si va in carcere per ricevere ulteriori punizioni” - spiega Marietti, che ha firmato l’appello sostenuto da accademici e garanti e promosso da Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara che a lungo si è occupato del tema, in cui si legge: “Fino ad oggi, la privazione dell’affettività-sessualità ha rappresentato un’autentica e indifferenziata pena accessoria”.

Qual è allora il senso di una proibizione come quella che riguarda la propria sfera intima se non quello di un eccesso di afflittività?

“Mi fa rabbia l’idea che la sessualità e l'affettività siano proibite, - afferma Musumeci - che cosa c’entrano con la pena? Con il passare degli anni non ti senti più colpevole, ti senti una vittima e giustifichi il male che hai fatto perché pensi che quello che stai subendo è ingiusto. Se ti privano dei sentimenti e ti proibiscono dei gesti di affetto uscirai solamente più arrabbiato, disabituato alla vita”. 

Il carcere è un luogo di privazioni e di deprivazione sensoriale, dove lo scollamento tra la quotidianità intramuraria e quella extramuraria produce effetti che vanno al di là della fine della detenzione. 

“Sono restrizioni che lasciano dei segni - conclude Musumeci - Quando sono uscito dal carcere io e la mia compagna sembravamo due adolescenti, avevamo perso anche la confidenza di scambiarci piccoli gesti. Il carcere ti trasforma, ti disabitua non solo a vivere e a pensare ma anche a fare l’amore, e quando esci devi reimparare tutto”.

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La sentenza della Corte, attesa dopo il 5 dicembre, nel decidere se la negazione della sessualità sia o no in contrasto con la Costituzione, interverrà su un tema che, in ogni caso, dovrà essere affrontato dal Parlamento e che contribuirà a dire qual è il carcere che si vuole.

Perché solo un carcere capace di ragionare in vista del dopo, un carcere che sa guardare oltre sé stesso, può preparare il ritorno nella società di una persona reclusa. Un ritorno che si costruisce anche attraverso i contatti con l’esterno, la tutela degli affetti e della sfera intima.

Immagine in anteprima via Il Dubbio

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