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COP 27, la lotta al cambiamento climatico esige un cambiamento dei sistemi alimentari, ma la voce dei contadini è ancora esclusa dalle politiche internazionali

23 Novembre 2022 6 min lettura

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COP 27, la lotta al cambiamento climatico esige un cambiamento dei sistemi alimentari, ma la voce dei contadini è ancora esclusa dalle politiche internazionali

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di Francesco Panié*

Pesano per un terzo delle emissioni globali, ma restano sistematicamente escluse dalle politiche internazionali sul clima. Da quest’anno, però, i sistemi alimentari e l'agricoltura hanno fatto finalmente breccia nella Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Alla COP 27 di Sharm El-Sheikh si è parlato molto di questi temi, specialmente nel nuovo padiglione dedicato, allestito dalla FAO e gestito insieme alla rete di centri di ricerca CGIAR e alla Fondazione Rockefeller. 

Proprio la FAO sta spingendo per essere maggiormente coinvolta nelle discussioni su come integrare il settore agricolo e alimentare nei piani nazionali che dovrebbero mettere a terra gli obiettivi inseriti nell’accordo di Parigi del 2015. Per ora ci è riuscita solo in piccola parte: lo dimostra il fatto che non ci sono stati avanzamenti da parte del gruppo di lavoro sull’agricoltura nato nel 2017 alla COP 23 di Bonn. Il suo mandato è stato rinnovato per quattro anni al termine del vertice egiziano, ma poco altro è stato deciso sull’argomento. Nella decisione finale del vertice di Sharm el-Sheikh, inoltre, il tema del cibo e dell’agricoltura è stato incluso solo nel preambolo, anche se si tratta della prima volta che accade.

Tuttavia, come dimostra il numero di eventi collaterali organizzati durante le due settimane di negoziato in Egitto, si tratta di un argomento ormai difficile da ignorare. La siccità senza precedenti in Europa, Stati Uniti e Africa, l'ondata di caldo che ha colpito il raccolto di grano in India e i fenomeni climatici estremi in Pakistan e Cina sono prove evidenti di come la produzione alimentare sia a rischio a causa di eventi meteorologici sempre più intensi e imprevedibili. Se si aggiungono gli impatti di pandemia e guerra, con annesso aumento dei costi dell’energia e fragilizzazione del mercato internazionale, si ottiene quella che il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha definito una “tempesta perfetta”. Con un altro termine più filosofico ma altrettanto efficace, il professor Adam Tooze sul Financial Times l’ha recentemente chiamata “policrisi”.

La produttività agricola è la prima a subirne le conseguenze, con effetti sulla disponibilità e accessibilità del cibo, così come sui redditi degli agricoltori. Ormai è solo questione di tempo, ma i temi dell’agricoltura e dell’alimentazione sembrano destinati a guadagnare il main stage della COP. La domanda che resta aperta è: con quali proposte?

Le richieste dei piccoli contadini

Se tutti sembrano concordi che si parli del problema, le divergenze emergono quando si arriva a discutere delle soluzioni. Da un lato, vi sono i piccoli produttori, quelli che secondo la definizione della FAO praticano l’agricoltura familiare: rappresentano oltre il 90% delle aziende agricole e producono la maggior parte del cibo a livello mondiale. Questa schiera di produttori di piccola scala è sostenuta da ONG, organizzazioni della società civile, istituti di ricerca indipendenti e attivisti per il clima. Le loro richieste si rifanno a concetti di giustizia climatica, economica e sociale: redistribuzione equa delle terre e dei sussidi al settore, politiche per l’accesso al mercato locale e fondi dedicati per l’adattamento al cambiamento climatico. 

Al suo primo discorso ufficiale in una COP, la rete mondiale di piccoli produttori Vía Campesina ha ribadito che la trasformazione dei sistemi alimentari inizia dalla terra. "Le imprese e i governi hanno tratto enormi profitti dal land grabbing e dal water grabbing", ha denunciato Celeste Smith, una custode indigena della National Farmers Union, membro della Via Campesina in Canada. Dietro lo slogan “la sovranità alimentare raffredda il pianeta”, i piccoli produttori politicizzati del movimento internazionale chiedono un cambio di paradigma nelle politiche internazionali, che metta i diritti umani al centro del discorso pubblico. Il loro pilastro è la Dichiarazione ONU sui diritti dei contadini, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2018 e fortemente influenzata dalla visione dei movimenti per la sovranità alimentare: è vista infatti come uno “strumento giuridico internazionale che abbiamo contribuito a creare e che difende i diritti delle persone sui loro territori, le sementi, le acque, le foreste e che promuove un modo di essere e di vivere più sostenibile”.

Nel concreto, chiedono che il Fondo Verde per il Clima, istituito alla COP 16 di Cancun nel 2010 e destinato a finanziare interventi di mitigazione e adattamento nei paesi in via di sviluppo, sia interamente finanziato con sovvenzioni, per riparare i danni climatici che i paesi industrializzati avrebbero causato al Sud globale con il loro sviluppo vertiginoso. Ad oggi, invece, i tre quarti degli 83 miliardi di dollari stanziati dalle economie avanzate sono sotto forma di prestiti, che vanno ad aggravare la crisi del debito in cui i paesi “meno sviluppati” sono già immersi. 

Il Gruppo internazionale di esperti sulla sostenibilità dei sistemi alimentari (IPES-Food) sostiene che i piccoli agricoltori siano stati “in gran parte esclusi dalle decisioni principali, faticando a far sentire le loro richieste di ulteriori finanziamenti per il clima, per costruire sistemi alimentari più diversificati e resilienti. I dati dell'IPCC dimostrano che un'agricoltura agroecologica, che lavora con la natura, sostiene la sicurezza alimentare, i mezzi di sussistenza e la biodiversità, aiuta a tamponare i picchi di temperatura e a sequestrare il carbonio”. 

Le risposte dell’agribusiness

Una visione, questa, contrapposta a quella promossa dalla AIM4Climate, alleanza fondata alla COP 26 da governo statunitense ed Emirati Arabi Uniti, che annovera sotto il suo ombrello un gruppo di attori del mondo industriale, finanziario, accademico e filantropico e propone di orientare le politiche climatiche in campo agroalimentare verso soluzioni di mercato, evitando una regolamentazione diretta delle attività più energivore e climalteranti. 

L'iniziativa mira a raggruppare i progetti in corso e secondo i critici, “a radicare la logica industriale vestendola da ‘agricoltura intelligente per il clima’. È dominata da interessi industriali nel settore della carne e dell'agrochimica e in larga misura si limita a ritoccare pratiche distruttive per l'ambiente e alimentate da combustibili fossili, piuttosto che trasformare in maniera sostanziale i sistemi alimentari”. 

Nel concreto le proposte si concentrano soprattutto sull’espansione della cosiddetta “agricoltura di precisione”, una meccanizzazione spinta del processo produttivo in combinazione con le nuove tecnologie di rilevazione satellitare, gestite dalle più grandi piattaforme di big data. La speranza è incrociare dati meteoclimatici e sulla struttura del terreno per ottimizzare l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, riducendone l’uso e gli sprechi. A questo si aggiunge il tentativo di contrastare la pressione pubblica sull’insostenibilità degli allevamenti intensivi attraverso la formulazione di nuovi mangimi, che riducano le emissioni di metano provocate dalla digestione degli animali. Infine, è in corso un dibattito intenso sull’utilizzo dei suoli agricoli come serbatoi di carbonio: l’agricoltore che dimostra di mettere in atto pratiche che ne favoriscano lo stoccaggio potrebbe presto avere un sistema metrico con cui calcolare le sue performance. A questo punto potrebbe far certificare le emissioni “seppellite” attraverso il suo lavoro di mantenimento del terreno, generare crediti di carbonio e venderli ad imprese inquinanti sui mercati di scambio delle emissioni, che ad oggi - nonostante decenni di risultati deludenti - rappresentano ancora il principale strumento di politica climatica.

La fiducia di fondo nell’innovazione tecnologica trova terreno fertile non solo nei gruppi di interesse industriali, ma anche in nuove iniziative come la campagna Reboot Food, promossa da un gruppo di organizzazioni filantropiche che ha scelto come testimonial l’editorialista del Guardian George Monbiot. Il ventaglio di richieste, in questo caso, comprende la legalizzazione delle nuove tecniche di manipolazione genetica per colture “più efficienti”, l’investimento in carne sintetica e carne coltivata. 

Dove va il denaro?

Secondo Tomaso Ferrando, ricercatore dell’Istituto di politiche dello sviluppo di Anversa, questo approccio “cancella i percorsi non estrattivi, la diversità socio-ecologica che nutre il mondo e la necessità di affrontare l'iniqua distribuzione di benefici e potere”. 

Il problema principale sembra essere, ancora una volta, quello di decidere quale modello abbracciare e sostenere con politiche e finanziamenti. Attualmente, sui 540 miliardi di dollari annui di sussidi globali all’agricoltura, il 90% è indirizzato verso pratiche insostenibili e climalteranti secondo le Nazioni Unite. E che vi sia un tema di fondi sul fronte dell’adattamento, della mitigazione e della compensazione di perdite e danni, è altrettanto evidente dai dati diffusi dalla Global Alliance for the Future of Food, una rete di fondazioni filantropiche internazionali. Nel report diffuso in questi giorni, l’alleanza ha calcolato che solo il 3% dei finanziamenti per il clima va a sostegno dell’agricoltura, mentre per i settori energetico e dei trasporti la cifra stanziata finora è 22 volte maggiore.

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Colmare questo gap è una priorità che i vertici sul clima non possono più ignorare, ma i percorsi verso l’obiettivo saranno oggetto di accesi dibattiti nel prossimo futuro. L’approccio dell’agroecologia contadina e quello “tecno-digitale” sostenuto dall’industria sono infatti difficilmente conciliabili e troveranno presto nella COP un nuovo spazio in cui collidere. 

*Terra! – Associazione ambientalista, che lavora su filiere agroalimentari, agroecologia e diritti umani con inchieste e campagne di advocacy, tra cui quelle che hanno portato all’approvazione della legge contro il caporalato e della legge sul divieto delle aste al doppio ribasso. 

Immagine in anteprima via FAO

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