I mostri
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In un racconto di Michel Tournier, un fotografo riprende l’immagine di un ragazzo berbero nel deserto, che pensa che il fotografo gli abbia rubato l’anima.
La storia propone uno dei classici luoghi dell’immaginario collettivo, solo che stavolta il furto è vero.
Il ragazzo viaggia verso Parigi per ritrovare la sua anima, ma nella città si vede raffigurato ovunque, su qualsiasi cartellone pubblicitario, in qualsiasi vetrina, nelle cartoline e nelle riviste: fino alla vertigine, fino a rendersi conto con sgomento di aver subito la corruzione del suo essere più nascosto, fino non sapere più chi è.
Il servizio fotografico per Vanity Fair del geniale Christopher Anderson opera con il circolo dei piĂą vicini a Donald Trump la stessa maledizione di Michel Tournier, ma inversa e speculare. Â
Ingannando l’ego smisurato di ciascuno, Anderson ne proietta l’anima piccola, già frammentata in pezzi meschini tramite le azioni, incomprensibili a tutti eppure reali, raffigurandola per noi che ci chiediamo come sia stato possibile tutto questo.
Si tratta di un messaggio chiarissimo, senza nemmeno una parola pronunciata o sussurrata. Le forme umane ritratte da Anderson annegano come cartoni a due dimensioni, tra oggetti buttati lì, cappellini MAGA, bandiere americane a proteggere schienali dall’unto dei capelli, coccodrilli imbalsamati, tagli di capelli anni trenta. Tutto insensato e sparso, come uscito da un naufragio o riemerso corrotto dalle paludi marce del Bayou.
Colpiscono il corpo fuori equilibrio dei vari Miller, Rubio, Scavino; i particolari fisici evocativi, le loro presenze, piccole in questi spazi enormi e pieni di storia di una Casa Bianca già mutilata e senza idee. Lampade storte che proiettano sui muri ombre come macchie nella tappezzeria, inquietano gli sguardi allucinati, arroganti e sperduti a un tempo, in una pompa dorata fuori luogo persino in un luna park. Spaventano le ombre umane di fantasmi dello staff accennate dietro porte semiaperte in secondo piano: il fare male e il non sapere perché, eppure farlo ed esserne consapevoli, come un bambino che taglia in due uno scarafaggio in un romanzo di Stephen King.
Il servizio ricorda, in una suggestione affascinante, forse voluta e fortemente politica, le celebrazioni fotografiche anni ’70 della DDR e della Russia sovietica: i colori stucchevoli e slabbrati a un tempo, il perturbante nel meschino, la barba finta e le tinte dei capelli ridicole, cui dietro stanno orrore, angoscia e sofferenza molto reali. Un coccodrillo al collo, si intitola il romanzo autobiografico di Klaus Kordon, prigioniero politico nelle prigioni della Germania est, per raccontare la paura della vittima per l’ignoto che risiede negli sguardi bambineschi e pomposi dei suoi aguzzini.
Ogni cosa nel servizio è un capolavoro di resistenza, capace di realizzare ciò che nessuna caricatura grottesca realizzata con l’AI sarebbe stata in grado di fare: raccontare l’umanità da un punto di vista umano. Riconoscere il volto dell’altro, come spiegava il filosofo dell’inenarrabile dei campi, Emmanuel Lévinas.
Stephen Miller, l’artefice della filosofia oscura di questa amministrazione Trump, fotografato da Anderson sotto l’immagine a olio di due nativi americani perduti in un grande lago dell’ovest, durante le riprese ha chiesto al fotografo se fosse meglio farsi ritrarre sorridente o serio. Salutando Anderson, Miller gli ha rammentato quanto potere risieda nella discrezionalità del professionista, per essere gentile con le persone che ritrae. Anche lei possiede questa discrezionalità potente, ha risposto Anderson.







