Lucia Regna: la sentenza che giudica la vittima e giustifica il colpevole
7 min letturaUna sentenza può essere commentata sul piano giuridico sotto vari profili: dalla ricostruzione dei reati contestati all’accertamento della loro sussistenza, dall’individuazione della norma applicabile all’entità della pena comminata. Ma c’è un altro aspetto altrettanto essenziale: il linguaggio con cui un giudice sceglie di esprimersi. «Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti nel film Palombella rossa, «chi parla male, pensa male (…). Bisogna trovare le parole giuste». E spetta al tribunale trovare le “parole giuste" per raccontare i fatti, descrivere il contesto in cui la vicenda si è sviluppata, qualificare i comportamenti oggetto di giudizio. Perché quelle parole possono incidere sulla vita delle persone coinvolte. È questo il piano su cui vogliamo analizzare la sentenza del Tribunale di Torino, Sez. III penale, n. 2356, il cosiddetto “Caso Lucia Regna” su cui si è discusso nei giorni scorsi.
Di cosa parliamo in questo articolo:
I fatti
La sentenza trae origine da una vicenda di crisi familiare. Una donna, dopo circa vent’anni di matrimonio e due figli, decide di separarsi dal marito e glielo comunica con un messaggio WhatsApp nell’agosto 2021. Tale decisione, maturata nel contesto delle difficoltà generate dalla pandemia e accompagnata dall’inizio di una nuova relazione sentimentale della donna, innesca una degenerazione del clima in casa. La moglie denuncia l’uomo per le ripetute offese che lui le avrebbe rivolto attraverso frasi ingiuriose e denigratorie, minacce, comportamenti controllanti ed episodi di violenza fisica. Il culmine verrebbe raggiunto il 28 luglio 2022, quando la donna sarebbe stata spinta o colpita al volto con una violenza tale da causarle fratture scomposte all’orbita oculare (per la ricostruzione del volto sono servite 21 placche di titanio), oltre alle lesioni ai familiari della vittima, contro cui l’uomo si era pure scagliato.
L’imputato viene accusato per maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.), fattispecie penale che punisce le condotte ripetute nel tempo che ledono l’integrità fisica, la libertà o il decoro della vittima, oppure che la sviliscono fisicamente o moralmente; nonché per lesioni gravi (art. 582 c.p.), reato che può consistere anche in un episodio isolato, con riferimento all’aggressione fisica del luglio 2022 ai danni della moglie e, poi, dei familiari di lei.
L’accusa di maltrattamenti
Il Tribunale di Torino ha assolto l’uomo dall’accusa di maltrattamenti, mentre lo ha ritenuto responsabile del reato di lesioni.
L’assoluzione per il primo reato è stata motivata con la mancanza degli elementi costitutivi dell’illecito, in particolare, la abitualità dei comportamenti violenti, vessatori, umilianti. A differenza di quanto affermato dalla donna – si legge nella pronuncia – «è palese che non vi furono atti di violenza fisica (a parte l’episodio del 28.7.2022, beninteso) e che, soltanto in una occasione, nel corso di una discussione, l’imputato forse allontanò da sé il viso della moglie spingendolo con una mano: episodio evidentemente irrilevante ai fini del reato abituale di maltrattamenti». Dunque, non ci sarebbe stata una reiterazione delle condotte violente.
Tale conclusione, secondo il Tribunale, scaturirebbe innanzitutto dall'inattendibilità della testimonianza della vittima circa la continuità di tali condotte. Testimonianza «da valutare con estrema cautela (…), perché proveniente da una parte civile portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali» (la donna aveva chiesto un risarcimento di circa 100mila euro). Ad esempio, nel corso delle indagini preliminari, era stato descritto dalla donna un episodio in cui il figlio aveva reagito con rabbia dopo aver perso alla Playstation e il padre lo aveva immobilizzato, tenendolo per il petto, e invitato a calmarsi perché era “solo un videogioco”. Ma nel dibattimento, spiega la sentenza, l’episodio era stato «trasfigurato» dalla donna stessa «in un tentativo di strozzamento».
Per i giudici, questo cambio della narrazione dimostrerebbe un’alterazione dei fatti e minerebbe la credibilità della testimone. La madre aveva anche affermato che il padre fosse uso umiliare il figlio, «costringendolo (…) a qualificarsi da sé, controvoglia», con un epiteto scurrile; ma aveva pure ammesso che, dopo la separazione, il figlio aveva piacere di vedere il padre e stare con lui, e anche la figlia aveva testimoniato che il fratello ne era “felice”. Per i giudici, se davvero ci fosse stata un’umiliazione forzata e ripetuta, il figlio avrebbe maturato rancore verso il genitore, mentre mostrava affetto, con la conseguenza di far ritenere esagerata e strumentale la versione della madre.
Le conclusioni raggiunte dal Tribunale circa la non continuità delle condotte di aggressione risulterebbe confermata dalle dichiarazioni di altri testimoni, tra i quali la madre della vittima, che viveva sullo stesso pianerottolo, la quale ha dichiarato di aver sempre sentito «solo la voce alta e basta» del genero, ma di non aver mai «udito urla minacciose» o «gli esiti di qualche gesto violento (rumori, danni visibili a persone o cose, ecc.)»; e il nuovo compagno della parte civile - che, secondo il Tribunale, «non può certo esser sospettato di parteggiare per l’imputato» - il quale ha affermato che l’uomo «discuteva con sua moglie e che nella discussione avvicinava il suo viso a quello di lei: ciò che manca è proprio il contatto fisico, e non si dubita che – se vi fossero state spinte, manate, schiaffi – il testimone lo avrebbe dettagliatamente riferito».
L’accusa di violenza fisica
Per l’episodio di violenza fisica il Tribunale ha evidenziato che la ricostruzione dei fatti «mostra chiaramente che il pugno fu un gesto volontario e che nessuna causa di giustificazione può essere invocata», per cui ha condannato l’imputato «alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione» riconoscendogli le attenuanti generiche e i benefici del rito abbreviato.
La valutazione della capacità a delinquere dell’uomo e la quantificazione della pena sono stati fondati dai giudici su un passaggio chiave della sua testimonianza. Egli avrebbe compiuto il gesto di violenza dopo che il figlio dodicenne gli aveva confidato di aver assistito, dentro casa, ad atti sessuali della madre con il nuovo compagno. Tale gesto – si legge nella sentenza – appare «legato a una specifica condizione di stress», e pertanto il collegio ha ritenuto «di poter formulare una prognosi positiva circa l’astensione, in futuro, da ulteriori reati» e di attribuirgli, pertanto, i benefici di legge. Dunque, «l’incensuratezza, i motivi a delinquere (sopra ricostruiti) e la positiva condotta processuale giustificano il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti».
Le frasi del Tribunale
Qui non vogliamo entrare nel merito della decisione, ma valutare una serie di espressioni usate nella motivazione. Espressioni dal tono valutativo, moralistico o empatizzante, che hanno sollevato molti dubbi anche nel dibattito pubblico.
Il Tribunale parla della decisione della donna di separarsi come di un gesto che «ebbe qualcosa di brutale» e sottolinea che ella «si stancò dell’imputato per sue personali motivazioni – e non per gravi mancanze del marito». In questi passaggi, i giudici non si limitano a descrivere le cause o le conseguenze della separazione, ma attribuiscono un giudizio morale negativo alla condotta della donna, che avrebbe interrotto il legame senza motivazioni “gravi”, come se solo tali motivazioni giustificassero la fine di una relazione.
Le azioni dell’uomo, poi, vengono relativizzate, alla luce del dolore causatogli dalla fine del matrimonio. Il Tribunale afferma che le frasi offensive da lui rivolte alla vittima vanno «calate nel loro specifico contesto: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile»; e, «al di là dello scurrile linguaggio adoperato», tali frasi «semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione», concretizzando una «normale (ancorché concitata) dialettica» familiare. La riconduzione di certe condotte dell’uomo alla “normalità” delle dinamiche domestiche produce inevitabilmente l’effetto di ridimensionarne la portata.
In un altro passaggio, sempre a proposito delle modalità della comunicazione della separazione, i giudici osservano che «l’imputato rimproverò alla moglie (e come dargli torto?) di non avere avuto la sensibilità di parlargli a tu per tu». Le parole tra parentesi mostrano non la descrizione neutra di un fatto, tanto meno la valutazione della rilevanza penale di un comportamento, ma il commento di chi si schiera in favore di una parte, con un plauso o quantomeno con un’assoluzione morale.
Il linguaggio dei giudici non muta nemmeno nella parte in cui essi affrontano l’episodio del 28 luglio 2022, riconoscendo l’uso della violenza fisica e, quindi, il reato. Anche riguardo a questo fatto, provato e penalmente rilevante, le parole adoperate nella sentenza cercano comunque di sfumarlo. Il gesto violento è valutato tenendo «conto delle cause (segnatamente di comportamenti non ineccepibili della stessa vittima)», dando così una connotazione morale alla vita della vittima stessa; e si arriva a scrivere che quel gesto rappresenta uno «sfogo» che può «essere ricondotto alla logica delle relazioni umane». In questo modo l’illecito, pur riconosciuto, viene interpretato come una comprensibile reazione emotiva, quasi “normale” in certi rapporti interpersonali, e comunque frutto di colpe altrui. E non solo. «Altro è allontanare da sé con una spinta al viso un interlocutore che ci irrita, altro è colpirlo con uno schiaffo al volto», affermano i giudici, quasi a ridurre il gesto violento a un movimento di difesa o fastidio. Una minimizzazione.
La Corte europea dei diritti dell’uomo
Dunque, i giudici non hanno utilizzato un linguaggio neutro, bensì infarcito di considerazioni morali, giudizi di valore e spiegazioni empatiche, che hanno svilito le scelte della donna, solidarizzato con i sentimenti dell’uomo e quasi normalizzato le sue condotte aggressive. Una modalità che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stigmatizzato, in particolare, nella sentenza J.L. c. Italia del 27 maggio 2021, con cui l’Italia è stata condannata per violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In quel caso, la Corte censurò le affermazioni stereotipate e moralistiche sulla vita privata e sessuale della vittima, utilizzate nella sentenza che aveva assolto alcuni imputati dall’accusa di violenza sessuale. La Corte europea affermò che i giudici hanno l’obbligo di esprimersi in termini rispettosi e neutrali, per evitare colpevolizzazioni implicite, cioè una forma di vittimizzazione secondaria, e discriminazione di genere.
Il parallelismo con la decisione torinese è inevitabile. Il compito del giudice è stabilire se una condotta integri o meno un reato. Ogni volta che il linguaggio scivola su registri moralistici o empatici il rischio è di spostare il processo dal terreno del diritto a quello del costume, trasformando il processo stesso in un giudizio sui comportamenti e sulla vita privata della vittima.
Le parole delle sentenze non sono dettagli, ma strumenti che possono rafforzare o minare diritti fondamentali. Se la giustizia è chiamata a proteggere delle vittime, deve farlo non solo mediante le proprie pronunce, ma anche attraverso la forma in cui le esprime, con la consapevolezza che, pure quando si riconosce la sussistenza di un reato, il modo in cui lo si racconta può finire per ridimensionarlo, fino a “giustificarlo”. E questo non può essere accettato.








Mirko
Di frasi che entrano nel merito morale in maniera più o meno diretta son piene le sentenze. Dietro ogni aggettivo c'è un giudizio morale, altrimenti ogni violenza non potrebbe essere definita "efferata", "per futili motivi". Chi stabilisce che sono futili? Non basta riportare i fatti? Nel caso in questione, forse l'unica cosa un po fuori luogo è il "come dargli torto" tra parentesi. Rimane il fatto che al di là della forma, per forza di cose i giudici si formano una idea e formano un giudizio anche morale. L'importante, a mio avviso, è che il giudizio non lo abbiano preconcetto, come troppo spesso accade.