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Il calcio e la cultura dello stupro

9 Dicembre 2021 10 min lettura

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Il calcio e la cultura dello stupro

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di Valerio Moggia

“Non te la prendere”: nelle quattro parole che Giorgio Micheletti ha detto a Greta Beccaglia, la giornalista molestata da dei tifosi all’uscita da Empoli-Fiorentina, c’è qualcosa in più di una leggerezza fuori luogo, della “gaffe”, termine ombrello che da troppi anni il giornalismo usa per legittimare qualsiasi comportamento sconveniente. È opportuno invece parlare di cultura dello stupro.

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“Cultura dello stupro” è un termine che entra nel dibattito intorno alla metà degli anni Settanta all’interno dei movimenti della Seconda ondata femminista, e si concentra sull’atto dello stupro come presupposto per una condizione egemonica. È un concetto che va al di là dell’esplicita violenza sessuale, e proprio parlando di “cultura” vuole mettere in evidenza una serie di comportamenti, più o meno consapevoli, che tendono a legittimare lo stupro vero e proprio, partendo dalla normalizzazione di altre forme di prevaricazione sessuale, come appunto le molestie.

Se quindi partiamo proprio da quel “non te la prendere, queste cose aiutano a crescere” e proseguiamo verso l’inevitabile strascico di commenti, i vari “se ti vesti così te la vai a cercare” di rito, “è stata una goliardiata”, “non esageriamo”, “si sta facendo pubblicità”, fino agli insulti espliciti e alle minacce, vediamo come il caso Beccaglia è una finestra aperta su una situazione ben più grave e generalizzata.

Silenzi, legittimazione e “goliardate”

Chiunque legge con attenzione la stampa sportiva, specialmente quella online, dovrebbe sapere da tempo che è una spacciatrice impunita del peggiore sessismo. Le notizie relative alle donne sono solo una piccolissima parte di quelle presenti sulle homepage, e la stragrande maggioranza di esse ha contenuti esplicitamente sessuali: tra le espressioni più utilizzate troviamo “troppo hot” “da urlo”, “lato B”, e via di questo passo.

A volte si toccano vette di cattivo gusto, come il modo in cui la Gazzetta dello Sport ha trattato, nel novembre 2018, il caso di Sophia Floersch, pilota automobilistica che aveva subito un gravissimo incidente. Mentre si trovava in sala operatoria nella speranza di riuscire a tornare a camminare, la principale testata sportiva italiana le dedicava una video-gallery in cui non diceva quasi nulla della sua carriera come pilota, ma riusciva a infilare un po’ di foto prese dal suo profilo Instagram, tra cui una di lei in costume da bagno. Nella url del video è definita come “giovane bella pilota”. A settembre, durante Sampdoria-Inter dei tifosi hanno rivolto cori sessisti a un’addetta del campo di Marassi che stava tagliando l’erba prima della partita, e su Instagram Radio Deejay ha condiviso la notizia chiedendo ai follower se fosse “sessismo o goliardia”.

Questo è un primo punto che dobbiamo segnare: se sei un appassionato di sport e frequenti logicamente siti sportivi, l’immagine che ti viene presentata delle donne è quella di creature sexy e piacevoli alla vista. Non c’è allora da stupirsi troppo che un tipo di stampa del genere, fruibile anche da adolescenti, contribuisca a formare una cultura in cui le donne sono considerate innanzitutto oggetti sessuali. Una dei bersagli più frequenti di questi articoli è la conduttrice di DAZN Diletta Leotta; nel settembre 2019, mentre si trovava allo stadio San Paolo di Napoli, è stata inoltre vittima di commenti sessisti da parte di un gruppo di tifosi del Napoli. In genere, a Leotta vengono rinfacciate due cose: vestirsi e atteggiarsi in modo provocante, andandosi quindi a cercare gli “apprezzamenti” dei tifosi, e il fatto di non essere una giornalista (cioè, di non essere iscritta all’Ordine), e quindi di occupare abusivamente un ruolo in virtù del suo aspetto fisico. Simili critiche sono piovute qualche mese fa su Melissa Satta, conduttrice tv che da questa stagione è nella squadra del Club, noto programma calcistico di Sky Sport.

Che questi episodi rappresentino una reazione alla presenza di non-professioniste del giornalismo, in un ambito che dovrebbe invece richiedere questo tipo di qualifica, è abbastanza opinabile. Il caso di Beccaglia dimostra infatti che un tesserino non ti salva dalle molestie, e ciò lo conferma anche Paola Ferrari, una delle prime giornaliste a occuparsi di calcio in Italia: “Succede da sempre e finalmente qualcuno si indigna. Quante volte abbiamo dovuto tacere per non perdere il nostro lavoro!”. Ma sarebbe sbagliato derubricare tutto ciò a un problema di educazione dei tifosi: nel febbraio 2020 fecero molto discutere le dichiarazioni sessiste di due ex-calciatori e oggi noti opinionisti tv, Alessandro Costacurta e Fulvio Collovati. Quest’ultimo, ad esempio, disse che “Quando sento una donna parlare di tattica, mi si rivolta lo stomaco”; a fargli da eco, arrivò sulle pagine del Corriere dello Sport Giancarlo Dotto, secondo cui una donna che che parla di calcio “smette di esistere nell’attimo in cui lo fa”, “Arrivo a detestarla, per quanto si sottrae al dovere estetico ed etico della differenza”.

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Il corredo a queste storie e alla normalizzazione che attuano è il modo in cui vengono spesso trattate sulla stampa e sui social le accuse di stupro. Prendiamo ad esempio due casi eclatanti che hanno riguardato due calciatori della Serie A, Robinho e Cristiano Ronaldo.

Il primo è stato condannato nel 2017 dalla giustizia italiana per uno stupro di gruppo ai danni di una donna di 23 anni, condanna confermata in appello nel 2020. Quando è stato condannato, l’attaccante aveva già lasciato l’Italia, e perciò non ha mai scontato un solo giorno di prigione. In compenso, dopo la condanna in appello sono stati resi pubblici dei messaggi in cui Robinho derideva, parlando con degli amici, la vittima: “Sto ridendo perché non mi interessa, quella donna era completamente ubriaca, non sa nemmeno cosa sia successo”.

Poi c’è il caso di Cristiano Ronaldo, probabilmente quello più famoso, denunciato in Nevada da una donna che lo ha accusato di averla stuprata nel 2009 a Las Vegas. Il caso si è chiuso con l’archiviazione del portoghese, ma grazie a un cavillo legale. Il documento in cui lo stesso Ronaldo ammetteva davanti ai propri avvocati che la donna gli avesse chiesto di fermarsi durante il rapporto sessuale sarebbe stato ottenuto, secondo il giudice, in maniera illegale, come parte dei file trafugati dietro l’inchiesta Football Leaks, rivelandosi pertanto inammissibile come prova.

Tuttavia il caso di Robinho ha iniziato a fare rumore solo nel 2020 perché il giornale brasiliano Globo ha denunciato il caso, e una protesta ha costretto il Santos a rescindere il contratto del giocatore. Nel caso di Ronaldo, invece, abbiamo assistito a una vera e propria difesa d’ufficio. Nell’ottobre 2018, ad esempio, Tuttosport affida inspiegabilmente un editoriale sulle accuse a Cristiano Ronaldo a Vittorio Feltri, che definisce la vicenda “uno scandalo fasullo” e un “ricatto”.

Ovviamente quello dei reati sessuali commessi nel mondo del calcio non è un problema solo italiano. Ma il modo in cui le accuse sono recepite dall’ambiente, dai tifosi alle autorità sportive, fino alla magistratura, dice molto di quanta strada c’è ancora da fare nel nostro paese. Nel 2018, per esempio, il Guardian riportava la notizia dell’archiviazione per un’accusa di molestie contro l’ex-presidente della FIGC Carlo Tavecchio, motivata dalla Procura in quanto la donna che aveva denunciato, cinquantenne all’epoca dei fatti, sarebbe stata “troppo vecchia” per trovarsi in uno stato di paura o sottomissione, e perché le accuse sarebbero state riportate troppo tardi. Il fatto che a dare risalto alla notizia e alle motivazioni sia stata in primis la stampa estera, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, sembra abbastanza significativo.

Un ambiente solo per uomini

L’immagine del calciatore in quanto figura di prestigio e sessualmente desiderabile dalle donne, da qualsiasi donna, è uno dei fattori che concorre ad alimentare la cultura dello stupro: se ritengo di poter avere tutte le donne che voglio, un rifiuto è difficilmente concepibile, il rifiuto stesso ostacola la percezione dell'essere una persona di successo. The Advocate scrive che i casi di violenza sessuale sono spesso basati su status e popolarità: “Questa cultura valorizza gli atleti, e chi è a loro associato, sopra tutti gli altri e di conseguenza crea una dinamica di potere che spesso può portare ad abusi sessuali che coinvolgono degli sportivi”.

Il contesto è quello del football collegiale statunitense, che come sport, eccezion fatta per il nome, condivide poco con il football europeo. Eppure il paragone si presta ugualmente, per una ragione sociale. Il football americano è uno sport che rappresenta un fattore identitario per gli statunitensi tanto quanto il calcio lo è per europei e sudamericani: la nostra società si esprime, con i suoi pregi e i suoi difetti, anche attraverso il nostro sport di riferimento. Il raffronto con gli Stati Uniti diventa necessario anche perché si è formata, negli ultimi anni, una diffusa letteratura sulla cultura dello stupro nello sport nordamericano, cosa che invece manca in relazione al mondo del calcio.

Esiste però uno studio reso pubblico qualche settimana fa dalla Football Supporters’ Association che evidenzia come il 20% delle tifose in Inghilterra abbia subito molestie in uno stadio di calcio, mentre il 49% dichiara che il comportamento degli uomini nei loro confronti durante le partite è spesso motivo di rabbia e paura. L’immaginario che ruota attorno al calciatore come uomo di potere e modello desiderabile, di cui si parlava sopra, e il clima sessista generato dalla stampa sportiva e da quella scandalistica convergono assieme in questi dati, relativi all’ambiente interno alle tifoserie, perimetrando un contesto essenzialmente maschile e con forti tendenze misogine. Che è quello che rende possibile che alcuni tifosi della Fiorentina abbiano esposto uno striscione che recitava “Prima razzisti, poi sessisti… ma mai giornalisti”: una risposta all’episodio del sabato precedente a Empoli (e anche alle precedenti accuse per i cori razzisti contro dei giocatori africani del Napoli).

Secondo lo storico francese Paul Dietschy, la rapida diffusione del calcio nella società occidentale tra fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è stata in parte anche una risposta alla crescita del peso sociale delle donne, che iniziavano a trovare maggiore spazio negli ambienti di lavoro (fabbriche, e pure nell’insegnamento o in ambito accademico) e nel mondo anglosassone anche a reclamare il diritto di voto. Davanti a questa crisi dell’identità maschile, il calcio divenne il nuovo ambito d’elezione degli uomini, un terreno che fosse solo loro, da proteggere dall’avanzata delle donne. Il che spiega perché, per diversi decenni, il calcio femminile venne ostacolato in tutti i modi possibili in Europa e Sudamerica, addirittura anche a livello legislativo.

In un contesto di questo tipo, l’aggressività verso le donne si riflette a più livelli. Ad esempio negli insulti sessisti verso le calciatrici, che si sono verificati in particolar modo negli ultimi anni, quelli che hanno visto una rapida crescita del movimento in Italia, con l’approdo della Serie A femminile su Sky e con la Nazionale che è tornata al Mondiale nel 2019 (mentre quella maschile, l’anno precedente, ne era rimasta clamorosamente esclusa). In un certo numero di tifosi, ciò ha alimentato la sensazione di dover difendere il proprio territorio dalla conquista femminile. Processi simili li stiamo vedendo anche fuori dal contesto sportivo, con un’importante crescita sociale della consapevolezza delle donne, che per contro genera spesso reazioni molto più rabbiose da parte di alcuni maschi.

Questa tendenza si ritrova anche in uno dei rarissimi casi storici di stupro che abbia coinvolto un calciatore: quello di Eduard Streltsov, uno dei più grandi giocatori russi di tutti i tempi, attaccante della Torpedo Mosca degli anni Cinquanta. Nel 1958 venne arrestato per aver stuprato una ragazza a una festa, e passò sette anni in un gulag, ma se oggi cercate la sua storia online o su qualche libro vi imbatterete sempre nella stessa narrazione: Streltsov era innocente, ma fu vittima di una cospirazione del regime. Esistono numerose ricostruzioni e teorie complottiste sulla sua vicenda, che si basano sostanzialmente su due assunti: quello esplicito che il regime sovietico fosse una spietata dittatura, e quello implicito che un calciatore di successo non avesse alcun bisogno di violentare una ragazza. L’accusa è ritenuta generalmente falsa da ogni autore, senza bisogno di approfondire i dettagli e verificarne la correttezza.

Le risposte che latitano

Una cosa che colpisce del caso di Greta Beccaglia è il silenzio da parte delle istituzioni del calcio italiano. Una donna è stata pubblicamente molestata da dei tifosi fuori da uno stadio, proprio nella giornata di campionato dedicata alla campagna contro la violenza sulle donne. Il giorno dopo si giocava ancora, e sarebbe stato necessario organizzare in tempi brevi una presa di posizione collettiva con cui iniziare le partite della domenica. Eppure non è successo niente.

Nessuno parla della cultura dello stupro nel calcio, l’argomento è del tutto ignorato. Quante tifose vengono molestate negli stadi? Quante donne hanno subito atteggiamenti prevaricatori da parte di calciatori? Se nessuno se ne interessa e la denuncia resta estremamente difficile (anche qui, per un fatto di status sociale dell’accusato), allora la comoda risposta è ovviamente “nessuna”.

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Farsi un segno rosso sulla guancia, allora, non è molto diverso da indossare una maglia con la scritta “Respect” e poi rilasciare comunicati deliranti sulla lotta al razzismo, come quello della FIGC la scorsa estate. Ad esempio, si potrebbe indagare su quanto è diffuso il problema delle molestie negli stadi e istituire presidi anti-violenza in ogni impianto, a cui le tifose possano rivolgersi in caso di necessità.

E soprattutto, dovrebbe essere necessario iniziare a chiedersi se non sia il caso di insegnare ai giovani giocatori, oltre a palleggiare e a fare i movimenti giusti per evitare un fuorigioco, anche cosa significhi consenso e quali siano i confini oltre i quali si verificano molestie o stupri. Se la nostra cultura spinge i ragazzi che giocano a pallone a sentirsi legittimati a comportamenti sbagliati, allora il calcio deve assumersene la responsabilità e lavorare per invertire la rotta.

Immagine in copertina via pbs.org 

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